31 agosto 2022

Mare fuori: una non-recensione e qualche considerazione

Con colpevole ritardo sto guardando su Netflix una serie, Mare fuori, già trasmessa negli anni scorsi dalla Rai e di cui è in previsione una terza stagione nel prossimo autunno. 

Lo confesso: la mia resistenza serale sul divano varia ultimamente (e per ultimamente intendo negli ultimi 10 anni) tra i 15 e i 30 minuti, salvo eccezioni per film horror banali, maratonementana e serie tv particolarmente coinvolgenti come, appunto, questa. Senza spoilerare niente, la serie è ambientata nell'istituto penitenziario minorile di Napoli, in cui si intrecciano storie di degrado e di speranza di ragazze e ragazzi di origine ed estrazione sociale diversa. Per alcuni versi, Mare fuori è troppo italiana come direbbe Stanis La Rochelle (e se questo nome non vi dice niente SHAME ON YOU): in una fiction italiana che si rispetti non possono mancare storie d'amore travagliate ma destinate a finire bene nonostante il mondo remi contro, personaggi e situazioni che devono necessariamente far ridere, buchi di trama profondi tipo Fossa delle Marianne. Tutto questo non manca a Mare fuori che, comunque, riesce a risultare interessante e a toccare temi sensibili, uno fra tutti il destino quasi segnato di chi vive in situazioni di deprivazione sociale: se hai la sfortuna di nascere in determinati contesti, sei quasi condannato a ripercorrere le strade, spesso accidentate, di chi ti ha preceduto e di chi ti circonda.

Questa sorta di determinismo sociale mi mette in crisi: ma è davvero così? Davvero - senza arrivare a conclusioni estreme e stereotipate - se nasci in condizioni di disagio, il disagio ti è impresso nel DNA? Penso al racconto La città involontaria di Anna Maria Ortese che descrive il cosiddetto III e IV Granili, un palazzone che si ergeva nella periferia di Napoli e che sembra anticipare le Vele di Scampia; penso a Corviale, il gigantesco edificio romano oggetto poi di una importante riqualificazione raccontata nel film "Scusate se esisto!" con Paola Cortellesi. La mente, poi, non può non andare a Mery per sempre, uno dei primi film (siamo nel 1989) che affronta le questioni della detenzione minorile scegliendo di approfondire un tema - quello delle persone transgender - su cui 35 anni fa c'era decisamente un'attenzione diversa.

Di fronte a queste situazioni, al netto della tara che va fatta per capire che molto spesso narrativa e cinema impongono delle semplificazioni per cui bene e male sono due categorie non comunicanti tra loro, fatta eccezione per i passaggi di stato da cattivo buono il cui modello è Pinocchio, accanto al senso di impotenza, mi assalgono i dubbi. Posso fare qualcosa in prima persona per evitare che questo accada? Probabilmente no, ma non smetterò mai di credere nel ruolo della cultura, quella che è contrapposta allo stato di natura, quella che non è erudizione che - come dico sempre ai miei malcapitati studenti - serve solo per vincere ai quiz televisivi, quella che insegna a vivere, che ti fa capire realmente cosa siano l'empatia e la resilienza, parole tanto di moda quanto incomprese. L'altra arma a disposizione è quella dell'esempio: genitori ed educatori che usano violenza, arroganza, prepotenza nelle parole e negli atti influenzeranno necessariamente - e forse in maniera inevitabile - le nuove generazioni che perpetueranno comportamenti sbagliati in una spirale destinata a ripetersi fino a quando qualcuno non ha la forza o il coraggio di spezzarla. 

E no, non è vero che finisce sempre bene, come nei film: anche se è consolante assistere al lieto fine in cui il bene vince sul male (è di qualche giorno fa la notizia della Cina che ha imposto l''happy ending al film Minions 2), la retorica dell'andrà tutto bene, come scrivevo altrove, ha fatto più danni della grandine. Esserne consapevoli non vuol dire essere pessimisti; esserne consapevoli aiuta, invece, a non attendere un aiuto dall'alto, sia esso il caso o la Provvidenza, a rimboccarsi le maniche per cercare di fare ognuno la propria parte, per quanto piccola o insignificante possa apparire.

Caparezza, Una chiave

28 agosto 2022

La paura del vuoto

Me lo ricordo bene il tardo pomeriggio della domenica durante le mie estati passate sul Gargano.

La messa celebrata all'aperto, i villeggianti del fine settimana che riponevano ombrelloni e sedie nelle loro auto e si apprestavano a ritornare in città, le persone che giocherellavano con i gettoni o le schede telefoniche in attesa di poter usare le cabine disposte in file ordinate in pineta.

Era un tempo diverso, in cui non eravamo compulsivamente connessi con gli altri: ricordo che al momento della partenza per il mare ero felice perché per un mese non avrei sentito suonare il telefono, il citofono, il campanello della porta. Ci si preoccupava degli altri dedicando loro il pensiero, dedicando loro ogni pensiero che occupava i giorni tra una telefonata ed un'altra; c'era il tempo di metabolizzare le gioie e le sofferenze perché la possibilità e la necessità di comunicare non erano così compulsive come lo sono ora. La scelta dei destinatari delle cartoline, poi, era un vero e proprio impegno, così come lo era la scelta delle parole: formule convenzionali per i nonni, promesse di rivedersi presto per gli amici e le amiche più care, mezze parole d'amore per la persona amata lontana. Una volta spedite, la parola ritornava all'immaginazione: la cartolina tra le mani del destinatario, la sua reazione; il momento in cui sarei tornato a casa, i miei che aprono la cassetta strabordante di posta e io che individuo, tra buste e volantini, le cartoline destinate a me.

Attesa. È una parola che ora ci fa paura. Mando un messaggio su whatsapp: perché non mi risponde subito? Controllo tutto: l'ultimo accesso, se è online, se lo ha letto. Abbiamo fretta, sempre fretta, come il Bianconiglio. Abbiamo perso la capacità di aspettare: acquistiamo su Amazon e siamo abbonati a Prime perché così l'oggetto che desideriamo arriva il giorno dopo. E se provassimo a rallentare? Ho riscoperto, ad esempio, la bellezza di frequentare la libreria della mia città; ci vado per acquistare un libro (e poi ne esco almeno con due, ma questa è un'altra storia...), pronto a sentirmi dire che il libro non c'è e va ordinato. E alimento il gusto dell'attesa.

Vorrei uscire dalla logica del bordello, quella per cui pago e ottengo immediatamente ciò che voglio, senza dover attendere o impegnarmi per raggiungere il mio obiettivo. Bisognerebbe tornare a corteggiare i nostri oggetti del desiderio.

Silenzio. È un'altra paura che ci attanaglia nonostante sia - come scrive Vera Gheno nel suo libro Le ragioni del dubbio che vi consiglio con la stessa forza con cui vi intimo di non mettere il parmigiano sulla pasta col tonno - una delle forme di comunicazione e non assenza di comunicazione. Lo abbiamo scoperto tutti durante il lockdown e abbiamo provato ad esorcizzarlo improvvisando show al limite (e talvolta anche oltre il limite) dell'imbarazzo sui nostri balconi. Ora il silenzio è diventato anche uno strumento di potere: il ghosting è una delle forme più subdole di violenza che esista e si nutre proprio del nostro essere così assuefatti ad una comunicazione costante e frastornante. I silenzi, le pause sono fondamentali anche nella musica: in qualunque spartito le pause sono perfettamente codificate e vanno rispettate con la stessa attenzione e precisione con cui si suonano le note. Va considerato come il tempo in cui riprendere fiato, in cui riflettere su ciò che ci è stato detto e su ciò che possiamo a dire a nostra volta.

C'è stato un tempo in cui ricevevo e spedivo lettere (l'ultima credo di averla scritta, ormai, dieci anni fa ma mi piacerebbe riprendere questa abitudine): aprire la busta - pratica che ormai richiama alla mente solo la De Filippi - guardare la grafia del mittente, talvolta accarezzare il foglio per sentire il tratto più o meno calcato, cercare di leggere anche sotto le cancellature, riflettere su cosa scrivere, scrivere, rileggere, cancellare, riscrivere. E dopo aspettare, rispettando il tempo più o meno lungo di silenzio che intercorreva tra una lettera e l'altra. E no, non avevo fretta di ricevere la risposta, sapendo che sarebbe prima o poi arrivata e non temevo quel silenzio perché non era un tempo vuoto ma era lo spazio dell'immaginazione.

Depeche mode, Enjoy the silence

25 agosto 2022

Devianza in abbondanza

Ieri sera, in preda ai fumi dell’alcol (condizione indispensabile per sopportare la presenza continua e costante da un mese di BestiadiSatana1 e BestiadiSatana2, anche noti come Figlio1 e Figlia2) la conversazione a tavola è virata sui rapporti di parentela nelle famiglie di Topolino e Paperino. Ho solo osato chiedere se Nonna Papera fosse sorella di zio Paperone e lì si è aperto un mondo. 

A guardare bene, non c’è una dannata famiglia tradizionale nelle pagine di Topolino: molti single, qualche fidanzato (lasciamo stare la coppia Orazio-Clarabella, ovvero cavallo-mucca, che farebbe sobbalzare un Pillon qualunque) ma nessuno, proprio nessuno, unito nel sacro vincolo del matrimonio.

Per non parlare di Qui, Quo, Qua: a parte che andrebbe tolta la potestà genitoriale a chi chiama così i propri figli e bisognerebbe stringere la mano alla madre a al suo parto trigemellare, esattamente di chi sono figli? Perché Paperino li ha perennemente in casa? Perché poi Paperino, Paperoga e Gastone hanno uno stesso zio, ma nessuno ha genitori? 

La società descritta, poi, non è migliore: i tre paperi succitati (quello che è preda di accessi incontrollati di ira, quello che è oggettivamente un disagiato e l’ultimo che - per usare un francesismo - ha più culo che anima) non lavorano  e sono evidentemente percettori del reddito di cittadinanza altrimenti non potrebbero vivere; insieme a loro c’è un plutocrate, la cui ricchezza non ha una spiegazione ma che probabilmente ha fatto fortuna fondando, nella periferia di Paperopoli, la ridente  Paperopoli 2 con tanto di Lago dei cigni. A fare da corollario c’è anche un inventore che crea qualunque cosa ma che nessuno paga e che, probabilmente in preda alla disperazione, parla con Edy, una lampadina che lo aiuta nelle invenzioni.

Leggendo le storie di questi personaggi sono cresciute generazioni di donne e uomini e non credo che nessuno si sia fatto condizionare nelle proprie scelte di vita da un fumetto. Perché ora, invece, siamo così ossessionati dai modelli che passano attraverso TV e social media? Non sappiamo più distinguere la finzione dalla realtà? Siamo davvero tutti così insicuri e suggestionabili? Perché Pippo e Pluto sono entrambi cani, ma uno parla ed è bipede e l’altro abbaia ed e quadrupede? Ma soprattutto, sono l’unico a vedere del torbido nel rapporto tra Ciccio e Nonna Papera?


Giorgio Gaber, La strana famiglia

22 agosto 2022

Il miracolo del nulla

 Forse un mattino, andando in un'aria di vetro

arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:

Chiudo gli occhi: immagino una mattina invernale, una di quelle mattine in cui l'aria è così tagliente e pulita da sembrare un vetro. Ci cammino dentro, come se avesse una propria consistenza, come se potessi librarmi sospeso a mezz'aria. Come ogni miracolo, non è detto che accada, non è detto che accada a me, non è detto che mi accada in questa vita: mi volgerò indietro, guardando alle mie spalle, verso quella parte di realtà che è inevitabilmente esclusa dalla mia conoscenza.

il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro

di me, con un terrore da ubriaco

Il miracolo è la rivelazione della verità, la rivelazione di ciò che a me  - come a tutti - è precluso, qualcosa dalla cui conoscenza siamo esclusi, come la mela proibita che Eva colse dall'albero (perché Adamo non ne aveva il coraggio). Ma questa rivelazione è sconvolgente, spaventosa: dietro di noi c'è il nulla, un burrone, il vuoto: il mio sentirmi prescelto come destinatario di un miracolo si trasforma in modo improvviso e imprevisto: mi sento spaesato, senza punti di riferimento, barcollo come un ubriaco, ho paura.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto

alberi case colli per l'inganno consueto

Il nero, il vuoto, la spaventosa verità non può essere sopportata a lungo: tutto, nel giro di un batter d'occhio, di gitto, torna ad occupare il proprio posto abituale: gli oggetti riprenderanno ad esistere e a sembrare veri anche se avrò capito che saranno solo finzione, irreali come immagini proiettate su uno schermo.

Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto

tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto

Non mi faccio più ingannare: io ormai lo so che la realtà, una volta sfuggita ai nostri sensi, non esiste. Voglio dirlo a tutti, vorrei urlarlo, ma, come negli incubi peggiori che turbano le notti, non ho voce, non riesco ad urlare, la mia bocca si apre ma non produce suono. 

Rassegnato ad essere l'unico depositario di questo terribile segreto, provando pena e allo stesso tempo invidia per gli uomini che non si voltano, non si interrogano e pensano che la realtà sia quella che si vede, continuo ad andare in quest'arida, fragile aria di vetro, con una consapevolezza  - ed un fardello - in più.

(Eugenio Montale, Forse un mattino andando in un'aria di vetro, 1923: qui si può ascoltare recitata dall’autore)

Franco Battiato, Il vuoto

18 agosto 2022

Credo? Non credo.

Se c’è una cosa che mi fa rabbia è vedere che qualcuno si impossessa delle parole. Ancora peggio, non si limita ad impossessarsene ma ci piscia intorno come un cane per segnare il territorio, per cui, ogni volta che usi quella parola, devi fare i conti con chi l’ha fatta diventare sua, pagargli dazio, lottando con la voglia di smettere di usarla.

Ricordo  distintamente l’imbarazzo dei telecronisti quando, durante i mondiali del 1994, dopo la discesa in campo (orrore!) dell’uomo che sussurrava alle dentiere, certe espressioni come Forza Italia o Azzurri erano sconvenienti in quanto politicamente connotate.

E chi può dimenticare l’intonazione piaciona del Buonaseeeeera della pubblicità della FIAT di diversi anni fa? Un incubo: salutavano tutti così.

Finché si tratta, come in questo ultimo caso, di uno slogan pubblicitario, pur provando fastidio, posso solo fare i complimenti al suo inventore perché è riuscito a plasmare a suo uso e consumo qualcosa di esistente: è questo il suo obiettivo.

Se però il tuo fine è governare, dovresti essere in grado di argomentare il tuo pensiero, convincere gli elettori, non semplicemente parlare alla pancia o ricorrere a tranelli come quello di usare una parola fortemente connotata da un punto di vista religioso per farne il tuo claim pubblicitario da ripetere come un mantra in ogni post, in ogni intervista, in ogni occasione.

Immagino la vecchina che, dopo aver visto Pierbigotto con tutte le Madonne alle spalle  (quelle che hanno invocato gli italiani che hanno assistito alla famosa intervista), pronuncia la parolina magica sentita tante volte dal difensoredellafamigliatradizionalecheodialadrogaeamagliitalianieparladapadre: le si accende la lampadina e si sente difesa da chi apparentemente la pensa come lei.

Poco conta che il suo beniamino disprezzi tutti quelli diversi da sé - in palese disaccordo con il messaggio evangelico -  e che credere in Dio e in Pierbigotto equivalga ad amare la grappa e professarsi astemi.

Quello che mi fa imbestialire è proprio questo: sfruttare un patrimonio comune di matrice religiosa per i propri biechi fini.

E no, non cederò alla tentazione di chiamare i suoi seguaci “credini” perché farei esattamente il suo gioco.


Skunk Anansie, I believed in you

15 agosto 2022

Voglio trovare un senso a Ferragosto

Diciamolo tutti insieme e all’unisono: Ferragosto è una festa senza senso. O almeno inizialmente il senso lo aveva visto che con il nome Feriae Augusti si indicava la prima metà di Agosto come periodo di ferie, appunto, di riposo, dopodiché solo morte e disperazione. Poi con il nome Ferragosto si è passati ad indicare il 15 Agosto e a questa data si è sovrapposta la festa cristiana dell’Assunzione (il che risulta assolutamente adeguato, visto che in questi giorni stanno uscendo le graduatorie dei vari concorsi fatti per il personale docente).

Ogni volta che sento la frase “È ferragosto, dobbiamo divertirci” mi sale una incredibile voglia di 2 novembre. 

A Natale dobbiamo volerci bene, a Ferragosto dobbiamo divertirci: quindi le feste comandate sono le feste del dovere (tranne Pasqua che è un po’ come la casa delle Libertà, ma questa la capiranno solo quelli un po’ più âgée). Io chiaramente a Natale odio tutti e a Ferragosto sono preso dallo sconforto.

È sempre stato così: da piccolo era il giorno che segnava lo spartiacque tra prima e seconda parte della vacanza (i bei tempi in cui si stava al mare un mese Intero), l’inizio della fine, l’arrivo del cattivo tempo, del mare freddo e ondoso, il momento dei saluti con gli amici di sempre che avresti rivisto l’anno dopo. L’unico aspetto degno di nota erano i dolci che i miei andavano a comprare in una rinomata pasticceria di un paese vicino al nostro e che avevano le dimensioni della provincia di Cuneo, da mangiare rigorosamente dopo un pranzo da 15000 calorie.

La sera si ripeteva sempre la solita scena: durante il falò tutti limonavano duro e io suonavo la chitarra.

Ora mi sembra degno di disprezzo perché chi è in ferie non nota la differenza rispetto agli altri giorni se non per la voglia di divertirsi indotta di cui sopra e per i menù proposti dai ristoranti; chi sta lavorando non fa in tempo ad accorgersi che è un rosso sul calendario perché si tratta di un giorno di festa isolato dal mondo. Inoltre segna sempre l’inizio della fine delle vacanze e l’inizio dei pensieri foschi da ripresa della scuola (che, mi duole infliggere questo colpo all’opinione pubblica, avviene il 29 agosto).

La scienza non ha ancora spiegato i motivi per essere felici in questa giornata che, sostanzialmente, è un Capodanno che non ci ha creduto abbastanza.


Bruno Martino, Estate

12 agosto 2022

2032: sono un docente esperto!

Anno Domini 2032.

Sono Luca, ho 53 anni e ho finalmente ricevuto la sacra investitura: sono un docente esperto.

Magari qualcuno non lo ricorda, ma in pieno agosto 2022 il ministro dell’istruzione ha deciso di istituire questa figura che, a quei tempi, sembrava mitologica.

Ho frequentato tre corsi di formazione della durata di tre anni ciascuno, spendendo una barca di soldi. 

Ma cosa importa? Sono un docente esperto!

Non ho messo in pratica quello che ho imparato perché tra i corsi, la didattica quotidiana- quella fatta dai miei colleghi ormai un po’ subalterni - la onnipresente burocrazia della scuola, la famiglia, non ho neanche avuto il tempo di preparare una lezione innovativa. 

Ma cosa importa? Sono un docente esperto!

Le metodologie imparate nel primo corso, quello iniziato nove anni fa, ormai sono assolutamente obsolete e non in linea con le nuove esigenze della scuola. 

Ma cosa importa? Sono un docente esperto.

Per essere scelto come unico docente esperto della scuola ho dovuto sbaragliare la concorrenza, magari minando rapporti umani costruiti nel tempo. 

Ma vuoi mettere? Sono un docente esperto, tutti mi vogliono, tutti mi cercano!

Certo, prima del 2022 avevo già fatto altri corsi di formazione, in quell’anno stavo per iniziare il mio 18º anno di insegnamento, ma quello che ho fatto prima non conta. Contano solo i nuovi corsi: solo così sono riuscito ad ottenere il bollino di esperto. 

E poco conta che dieci anni fa, quando è iniziata questa storia, sono stati di fatto esclusi docenti che insegnavano da più anni di me (e che per gli standard dell’epoca erano già esperti) e che hanno pensato che sarebbero diventati esperti D.O.C. alle soglie della pensione; poco conta che sono stati di fatto esclusi i docenti molto più giovani di me che magari avevano pochi soldi, tante spese e non potevano permettersi di pagare questi corsi.

Anzi, meglio così: ho avuto meno concorrenti temibili nella corsa all’ambito ruolo.

Anno Domini 2022

Mi risveglio dall’incubo.

È davvero questo ciò che serve alla scuola?


Luigi Tenco, Cara maestra

09 agosto 2022

Io penso positivo (ma anche no)

Mi è capitato in questi giorni di sentir parlare più volte di positività tossica, ovvero di quella retorica dell’andrà tutto bene che a livello collettivo ci trasciniamo avanti dal marzo del 2020 e che, francamente, ha un po’ stancato anche perché alla fine, se ci guardiamo intorno, è andato tutto peggio e credo che ormai siamo a buon punto nella collezione delle piaghe d’Egitto, 695 uscite in edicola, la prima ad 1,99€ le altre a 99€ l’una.

Cos’è nello specifico la positività tossica? Io ho un problema che mi assilla, ne parlo con te e tu con una pacca sulla spalla mi liquidi dicendo “Dai, tranquillə, PENSA POSITIVO”. Per una persona che non sta bene, sentirsi rispondere che andrà tutto bene ha l’effetto di sminuire il sentimento negativo che sta provando e spingerlə a nascondere il proprio malessere, generando anche un senso di inadeguatezza e quasi di inferiorità per non riuscire ad essere ottimista come la persona con cui ci si sta confidando.

Poi, se c’è una cosa che ho imparato nella vita è quella di diffidare da chi è troppo felice, troppo colorato (e qui cito il mio film feticcio Pensavo fosse amore invece era un calesse con la splendida Francesca Neri e un Troisi superlativo); dietro quella patina di gioia io immagino sempre una parte repressa in buona fede, nascosta per pudore o per non disturbare gli altri che è come una pentola a pressione pronta ad esplodere.

Quale potrebbe essere, allora, l’approccio corretto? Chi prova il dolore dovrebbe imparare a non nasconderlo ma a coltivarlo: immagino una pianta che, se curata e messa al sole, può dare anche buoni frutti, mentre se nascosta, messa all’ombra, marcisce. I pensieri negativi fanno parte di noi e ci danno il giusto equilibrio: sono come quelle matite color verde cacchina che restano lunghissime nelle scatole di pastelli perché sono oggettivamente di un brutto colore, ma ciò non vuol dire che non debbano mai essere utilizzate.

Chi si trova nella difficile posizione di ascoltare chi il dolore lo prova, dovrebbe seriamente sperimentare l’empatia, parola di cui abbiamo tutti abusato. Una volta la mia psicologa mi ha spiegato che essere empatici non vuol dire semplicemente mettersi nei panni di perché, in realtà, noi non possiamo metterci nei panni altrui proprio perché sono altrui e non nostri. Per empatizzare bisogna provare a immaginare una situazione che a me farebbe provare lo stesso sentimento che prova la persona che ho davanti.

Difficile, difficilissimo ma non impossibile.

Pino Daniele, Quando (la colonna sonora del film citato. C’è sempre un buon motivo per riascoltarla)

05 agosto 2022

Una volta qui era tutta campagna elettorale

Penso con terrore al 25 settembre: la scuola sarà iniziata da 10 giorni, io sarò in confusione come sempre e farò il conto alla rovescia per la fine di settembre, un mese che, a fronte di 30 giorni reali, ne ha almeno 247 di percepiti.

In più sarà il giorno delle elezioni.

Non sono disfattista e non voglio diventarlo, ma il pensiero di dover prendere in mano la matita e mettere una croce sul simbolo di un partito mi fa sudare, come se non ci fossero già abbastanza motivi per farlo in questi giorni. So sicuramente chi non voterò, ma non so assolutamente a chi darò il mio voto. Quasi quasi si potrebbe proporre una legge elettorale per cui è possibile esprimere un voto negativo del tipo e poi si fa la somma algebrica tra chi ha votato a favore e chi ha votato contro ogni partito. Geniale, no? Non peggiore, comunque, della legge elettorale attuale.

Penso, poi, al fatto che le mie fanciulle e i miei fanciulli sono ormai giunti ad un'età per cui possono procreare, bere alcolici, comprendere spiegazioni di matematica che io non comprenderei neanche dopo tre vite di studio e soprattutto votare. Sarà per loro il primo voto e già me li immagino: ci sarà chi, esattamente come fa in classe per i test a risposta multipla, metterà una croce a caso sperando di non fare troppi danni; chi voterà il candidato che ha fatto la miglior performance su tiktok; chi voterà il partito che qualche amico appoggia ma totalmente ignaro di cosa stia facendo in quel momento; chi chiederà a me che dovrò tenere la bocca chiusa onde evitare torme di genitori inferociti che sostengono che gli insegnanti, sì, quelli con tre mese di ferie all'anno, inquinano i cervelli puri come fonti di alta montagna dei propri figli.

Cerchiamo di capirci qualcosa, analizzando il panorama politico attuale:

  • Pier Paolo Pariolini: è quello che in questi primi giorni di campagna elettorale mi sta più stupendo. Si è preso la scena come la professoressa di corsivo, si è fatto corteggiare da tutti ma temendo poi di fare la fine della sora Camilla (quella che "tutti la vogliono e nessuno la piglia") ha deciso di unirsi in matrimonio con uno dei pretendenti, dettando una serie di condizioni che l'accordo prematrimoniale tra Jennifer Lopez e Ben Affleck è roba da principianti.
  • Patata Letta: avete presente il compagno di classe sfigato? O il collega camaleonte che si mimetizza perfettamente con le pareti? Immaginate che un giorno, per un motivo assurdo, per questo grigio soggetto si apre la possibilità di arrivare ad un ruolo di potere e, da essere letargico, inizia ad avere più vita sociale di Umberto Smaila, parlando di occhi di tigre e di simili amenità. Cosa vi verrebbe in mente? O che ha fatto la fine di Belluca nella novella di Pirandello "Il treno ha fischiato" oppure che basta aspettare che le goccine facciano effetto e ritornerà presto nel suo stato di coma vigile.
  • DonnaMammaCristiana: la sua elezione renderebbe felici i pendolari, dato che, se ottenesse la vittoria, i treni tornerebbero a viaggiare in orario.
  • Micheal Pee Dee: direttamente from Pomigliano d'Arco, dopo le incredibili hit Onestà, Aboliamo la povertà, Parlami di Bibbiano, dopo essere stato il resident DJ presso la Pharneseena, noto locale romano. ha deciso di cambiare il proprio nome, appropriandosi di quello di altri due cantanti, in Mika'n'Dido col Pee Dee. Riuscirà ad avere lo stesso successo?
  • Pierbigotto: il noto foodblogger e madonnaro ad ogni intervista ribadisce di essere un papà, plagiando in maniera fin troppo evidente Helen Lovejoy, la moglie del reverendo dei Simpson. Aspira ad essere un pater patriae, ma di Ottaviano Augusto ne abbiamo avuto già uno e direi che basta così 
  • L'uomo che sussurrava alle dentiere: lui ormai mi fa tenerezza. Il miracolo italiano, le mamme e le nonne, le pensioni, i soldi per le dentiere. Ma non potrebbe andare a guardare i cantieri come tutti i suoi coetanei?
L'elenco potrebbe continuare: qualcuno è stato omesso volutamente perché mi irrita al punto da non riuscire neppure ad ironizzarci su ma i più belli sono i partiti che aspirano ad essere l'ago della bilancia. Cioè, vi rendete conto? Di aghi ce n'è in abbondanza, ma di bilancia, segno di giustizia, di equilibrio, di equità sociale, di eguaglianza di diritti per tutti, neppure l'ombra.

Giorgio Gaber, Destra sinistra

03 agosto 2022

Se solo avessi le parole te lo direi

C'è chi l'ha cantata e chi mente.

Spesso mancano le parole per dire ciò che si vorrebbe, o forse manca il coraggio di dire le giuste parole, che pure avremmo e si ha spesso un falso pudore nell'esprimere sentimenti belli e profondi, come ad esempio la stima: a me capita di provare ammirazione per qualcuno molto più spesso di quanto non lo dica a parole. Vero è che "ti stimo moltissimo" è una frase che, da Fantozzi in poi, ha avuto un significato non esattamente esaltante ma forse è giunto il momento di rivalutare questo sentimento che sancisce il riconoscimento dei meriti altrui.

Le parole per la rabbia, invece, non ci mancano mai, anche se spesso sono imprecise, più che sbagliate: non riesco ad esprimere quello che provo perché vado in confusione, metto in fila sillabe che formano parole che non rispecchiano quello che avrei voluto dire, non vengo compreso, mi arrabbio ancora di più e la confusione cresce. Un circolo vizioso, un frullatore che stordisce.

Poi ci sono le persone che davvero le parole non le hanno: c'è chi non possiede il vocabolario minimo per la sopravvivenza e se questo per i bambini è naturale - e suscita tenerezza assistere ai loro sforzi talvolta disumani per cercare di farsi capire - riscontrarlo nei ragazzi o negli adulti fa quasi male perché mette di fronte ad una realtà incontrovertibile, ovvero che le parole sono il nostro unico mezzo per entrare in relazione con l'altro, per far conoscere il nostro pensiero e non averle ti mette nella condizione di un soldato che, da solo, deve affrontare con le armi spuntate un esercito armato fino ai denti.

Tutto questo, poi, si complica ulteriormente se pensiamo alla comunicazione: scagli la prima pietra chi non ha mai pronunciato la frase "tu non mi capisci". Su questo ci viene in soccorso Luigi - sempresialodato - Pirandello che in "Sei personaggi in cerca d'autore" scrive questo:

"È tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre, chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo come egli l'ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!"

Terribile e veritiero, no? O meglio, terribile proprio perché è veritiero.

Forse anche un po' estremista, al punto da far sembrare inutile se non impossibile qualunque comunicazione.

La parola che squadri da ogni lato l'animo nostro informe, come diceva Eugenio Montale non ce l'ha nessuno ma nessuno ci impedisce di scegliere le parole per esprimere nella maniera più realistica possibile i nostri pensieri. Cicerone parlava dell'importanza dell'elegantia verborum, cioè della scelta delle parole: mi piace immaginare che tutti scelgano le parole con la stessa cura ed attenzione con cui scelgono i vestiti, individuando quelle che ci rendono unici, belli e mostrino, in ultima analisi, la nostra versione migliore e - appunto - più elegante. Nella convinzione che, comunque, se anche gli altri non ci capiscono (perché non possono capirci in quanto non sono noi), noi abbiamo fatto il possibile per renderci comprensibili.

883, Una canzone d'amore 

01 agosto 2022

Ritorno al passato

Da sempre mi sento uno sradicato, come il Moammed Sceab di ungarettiana memoria (sperando di non condividerne la fine): non ho mai sentito forte il richiamo della terra natia, con cui ho firmato un trattato di non belligeranza del tipo tu non piaci a me e io non piaccio a te, ma ci torno per abbracciare la mia famiglia e i pochissimi e preziosi amici che ho. Confesso anche che un po’ invidio chi questo legame ce l’ha ma io non ce l’ho e solo recentemente ho imparato a fare pace anche con questo e a farmene una ragione.

Preambolo necessario a quanto è successo l’altro giorno quando, con un’abilità degna di un concorrente di “I soliti ignoti”, sono riuscito a riconoscere F., un mio compagno delle elementari (sto parlando di oltre 30 anni fa). Vedersi e riabbracciarsi è stato tutt’uno, lo stupore di ritrovarsi dopo tanti anni è stato impagabile: mi sono sentito un po’ Dante che rivede Casella - che non è Giucas - con la differenza che lui non riesce a stringerlo a sé perché è un’anima mentre noi eravamo ancora entrambi vivi. Abbiamo rievocato qualche nome e ho provato all’improvviso una gran nostalgia: la memoria, si sa, rende tutto più dolce ma sono emersi dal passato volti ed eventi che non richiamavo da tempo.

La maestra Amelia che fumava in classe e usava la bacchetta e poi la maestra Rosa, con quella cadenza a me cara, gli occhi azzurri e accoglienti; i miei compagni a cui invidiavo la mamma casalinga che preparava sempre merende per un reggimento; il mio amico V. che aveva sempre tutti i gadget del Mulino Bianco. E poi c’era R. dal fisico imponente e la madre leopardata, C. con la sua pelle olivastra e il sorriso che non ho ancora dimenticato, L. che associo ad un vestito a quadratini bianchi e neri con cui assumeva l’aspetto di una signora dell’alta borghesia.

E poi ricordo la volta in cui, mentre andavo a scuola accompagnato da mia sorella, trovai un uccellino; ricordo la felicità vera che provavo quando, andando a scuola di pomeriggio, in dicembre vedevo dalla finestra della mia aula  il buio che scendeva; ricordo il terrore che provai un giorno in cui mi sembrava che tutti si fossero dimenticati di venirmi a prendere (e forse era proprio così) e le urla disperate da solo sul marciapiedi. Chissà quanto tempo ci sono stato, ad attendere: pochi minuti? Un’ora? Ricordo, però, la percezione di un tempo lunghissimo e il sollievo di vedere mia nonna che arrivava da lontano.

La pipì addosso perché le bidelle avevano già lavato il bagno e non si poteva entrare; i dolci della pasticceria per festeggiare l’onomastico; i grandi racconti infarciti di particolari palesemente inventati che  facevo a mia mamma per dirle quello che era successo a scuola, forse perché già allora percepivo che la realtà non fosse poi di per sé così interessante; i compiti svolti nella cucina della casa dei nonni e “un numero in ogni quadretto”.

L’esame alla fine della primina: il disegno che stavo facendo e mio fratello e mia sorella che mi aspettavano fuori da scuola e che guardavo dalla finestra dell’aula.

La mia festa di compleanno della quinta elementare di cui ricordo una foto in cui si vedono solo tanti volti in lacrime chini su un qualcosa illuminato da candeline: la tristezza di non vedere più amici e amiche con cui avevamo condiviso anni di vita.

La partenza notturna per la gita a Roma per vedere il Papa: il vagone letto e un orribile cucchiaino con la scritta Roma che portai, orgogliosissimo, come souvenir per i miei genitori.

E poi il capolavoro: il tema sul verde che, a parere della maestra, era fatto troppo bene e quindi non poteva essere stato scritto da un bambino delle elementari e la conseguente bugia di un piccolo me che, pur avendolo fatto da solo, ammetteva con un po di vergogna che era stato aiutato da qualcuno.

Praticamente la madeleine di Proust senza madeleine e senza Proust. Un pezzettino di radici che riemerge.

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