09 agosto 2022

Io penso positivo (ma anche no)

Mi è capitato in questi giorni di sentir parlare più volte di positività tossica, ovvero di quella retorica dell’andrà tutto bene che a livello collettivo ci trasciniamo avanti dal marzo del 2020 e che, francamente, ha un po’ stancato anche perché alla fine, se ci guardiamo intorno, è andato tutto peggio e credo che ormai siamo a buon punto nella collezione delle piaghe d’Egitto, 695 uscite in edicola, la prima ad 1,99€ le altre a 99€ l’una.

Cos’è nello specifico la positività tossica? Io ho un problema che mi assilla, ne parlo con te e tu con una pacca sulla spalla mi liquidi dicendo “Dai, tranquillə, PENSA POSITIVO”. Per una persona che non sta bene, sentirsi rispondere che andrà tutto bene ha l’effetto di sminuire il sentimento negativo che sta provando e spingerlə a nascondere il proprio malessere, generando anche un senso di inadeguatezza e quasi di inferiorità per non riuscire ad essere ottimista come la persona con cui ci si sta confidando.

Poi, se c’è una cosa che ho imparato nella vita è quella di diffidare da chi è troppo felice, troppo colorato (e qui cito il mio film feticcio Pensavo fosse amore invece era un calesse con la splendida Francesca Neri e un Troisi superlativo); dietro quella patina di gioia io immagino sempre una parte repressa in buona fede, nascosta per pudore o per non disturbare gli altri che è come una pentola a pressione pronta ad esplodere.

Quale potrebbe essere, allora, l’approccio corretto? Chi prova il dolore dovrebbe imparare a non nasconderlo ma a coltivarlo: immagino una pianta che, se curata e messa al sole, può dare anche buoni frutti, mentre se nascosta, messa all’ombra, marcisce. I pensieri negativi fanno parte di noi e ci danno il giusto equilibrio: sono come quelle matite color verde cacchina che restano lunghissime nelle scatole di pastelli perché sono oggettivamente di un brutto colore, ma ciò non vuol dire che non debbano mai essere utilizzate.

Chi si trova nella difficile posizione di ascoltare chi il dolore lo prova, dovrebbe seriamente sperimentare l’empatia, parola di cui abbiamo tutti abusato. Una volta la mia psicologa mi ha spiegato che essere empatici non vuol dire semplicemente mettersi nei panni di perché, in realtà, noi non possiamo metterci nei panni altrui proprio perché sono altrui e non nostri. Per empatizzare bisogna provare a immaginare una situazione che a me farebbe provare lo stesso sentimento che prova la persona che ho davanti.

Difficile, difficilissimo ma non impossibile.

Pino Daniele, Quando (la colonna sonora del film citato. C’è sempre un buon motivo per riascoltarla)

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