21 luglio 2024

Una zattera col tetto

Adolescente e adulto sono due facce della stessa medaglia. Hanno addirittura la medesima radice. Però adulto è un participio passato. Mentre adolescente è un participio presente. […] L’adulto parla con l’esperienza. L’adolescente parla con la sofferenza. La sofferenza è il loro qui, l’adesso, il presente. È l’unico tempo che sperimenta e che è in grado di capire.
Ho da poco chiuso “La neve in fondo al mare” di Matteo Bussola e un senso di inadeguatezza mi assale. Le storie di Tommaso, Eva, Giacomo, Marika e Nicholas e quelle dei loro genitori si intrecciano all’interno di un reparto di neuropsichiatria infantile: c’è chi soffre di anoressia, chi di bulimia, chi è autolesionista, chi di depressione, chi di sbalzi di umore. Accanto a queste ragazze e a questi ragazzi, ci sono i loro genitori che, improvvisamente, si sono trovati a non conoscere più i propri figli che sono cresciuti sperimentando le difficoltà dell’adolescenza, rese ancora più aspre dalla pandemia, durante la quale le persone della loro età sono state quelle di cui - a quattro anni di distanza si può dire con animo sereno e senza timore di essere smentiti - nessuno si è seriamente preoccupato.

Bussola scandaglia in profondità l’animo di un genitore, raccontando la storia dal punto di vista di Caetano, padre di Tommaso, e denuncia l’incapacità che i genitori hanno di comprendere realmente i cambiamenti dei propri figli e delle proprie figlie. Non è, però, questo romanzo, un’accusa tout court ai genitori di oggi né un manuale in cui trovare risposte ma aiuta sicuramente a porsi delle domande. Cosa faccio io da adulto per capire gli adolescenti? Come posso cercare di capirli? Come posso ottenere risposte da loro?

Si ironizza spesso sul dialogo standard che avviene tra genitori e figli al momento in cui ci si incontra al termine della giornata (“Com’è andata a scuola?” “Bene”. “Cosa hai fatto oggi?” “Niente). L’aspetto tragico della questione è che qualcuno (o forse più di qualcuno) pensa, in questo modo, di aver assolto al proprio compito genitoriale e che la colpa del mancato dialogo è degli adolescenti che, si sa, sono fatti così e non parlano volentieri delle proprie cose.

Se si provasse semplicemente a chiedere Come stai?, se ci si mostrasse realmente interessati ad entrare in contatto con loro, se non ci si accontentasse del sorriso di facciata che spesso indossano per necessità, forse - e dico forse - le cose potrebbero cambiare.

Esempio banale: si è parlato per giorni dei concerti che Taylor Swift, idolo della GenZ, ha recentemente tenuto in Italia. Il commento più frequente sui social, soprattutto su Facebook, la patria dei nostalgici (in ogni senso) e dei malati di aimieitempismo? “Ma chi è questa Taylor Swift? Ma vuoi mettere la musica dei decenni scorsi? Quella sì che è musica, non questa”: dichiarazione di ignoranza (nel senso letterale di ignorare qualcosa) seguita da commento negativo, espresso sulla base di nulla.

Entrare in contatto con gli adolescenti è, quindi, conoscere la loro musica, i loro punti di riferimento, cercare di capire - senza giudicare - il loro sistema di valori, confrontandolo con il proprio alla ricerca di una mediazione difficile ma non impossibile.

Dal punto di vista genitoriale, entrare in contatto con gli adolescenti significa guardarli per come sono in quel momento, non rimpiangendo i bambini che sono stati, non costruendo su misura per loro un futuro che magari è alimentato dalle frustrazioni di chi li ha messi al mondo.

Entrare in contatto con gli adolescenti è ascoltarli e non limitarsi a liquidare il loro malessere dicendo che passerà con il tempo perché sapere che il disagio, il dolore, il sentirsi sbagliati in futuro non ci sarà più non è di alcun aiuto per loro perché è in quel momento che stanno soffrendo e quel momento è per loro assoluto. Se andassimo da un medico e ci sentissimo solo dire che il male da cui siamo afflitti passerà, come ci sentiremmo? Se fossimo trattati con sufficienza da qualcuno che parla solo per esperienza - magari indiretta - siamo sicuri che questo ci farebbe stare meglio?

E allora, oltre ad ascoltarli, si può parlare e dire loro che quelle stesse cose le abbiamo passate noi, raccontare loro come ci siamo sentiti, mostrare loro le ferite che quelle situazioni hanno lasciato, spiegare se, come e quando ci siamo rialzati.

Fare ciò è lungo e per nulla agevole anche perché spesso il modello educativo che abbiamo vissuto sulla nostra pelle è stato profondamente diverso, fatto di imposizioni senza spiegazioni, di ruoli rigidi, di affetto centellinato, tutte cose che implicano un risparmio di tempo e di energie.

Perché, allora, si dovrebbe scegliere una strada più impervia e faticosa? Perché abbiamo bisogno di curare il bambino che non ha avuto queste attenzioni quando le avrebbe volute e, per curarlo, l’unico modo che abbiamo è comportarci così a nostra volta quando abbiamo l’occasione per farlo.

Questo non significa essere o sentirsi migliori, ma provare una strada diversa quando ci si rende conto che la strada precedente non può più essere battuta, dando il giusto peso ai borbottii dei vecchi arcigni (o come diceva Catullo i rumores senum severiorum) che pensano che gli adulti di ora siano privi di spina dorsale e stiano tirando su una generazione di bamboccioni, perché ai miei tempi si educava meglio.

Accettare di essere fragili, accettare di non avere, talvolta - anzi, spesso - soluzioni pratiche da fornire.
Smettere di pensarsi come degli ottimi marinai solo perché anni prima si è attraversato lo stesso mare, in condizioni diversi e con mezzi diversi:

Impareremo - dice Caetano nella pagine finali del libro - a dar vita alle nostre giornate con materiali improvvisati, rinunciando a ogni calcolo. Magari costruiremo un tetto pieno di buchi, oppure una zattera fatta di foglie, un ponte traballante che unisce due rive, oppure una scala storta che non porta da nessuna parte, ma su cui sarà bello sedersi ad ammirare il panorama. Alla fine, non m’interessa cosa sarà. Mi importa solo di farlo con te.

Taylor Swift, Cruel summer (da qualche parte bisogna pur iniziare per conoscerla)

14 luglio 2024

La foto sulla lapide

"... ma cambiamo decisamente argomento. È scomparso ormai da giorni, senza dare più alcuna notizia di sé, un docente di Empoli. La parola al nostro inviato nella cittadina toscana".
Immagino così l'inizio di un servizio al tg sulla mia scomparsa. No, mamma: non ho alcuna intenzione di scomparire e di fare la fine di Mattia Pascal (almeno a qualcosa serve aver letto libri: impari che se decidi di scomparire e poi cambi idea, ciò che resta di te è il nome su una lapide che non contiene neppure le tue spoglie).
Immagino così, dicevo, l'inizio di un servizio al tg sulla mia scomparsa, corredato da una foto preso dai social: la prima cosa che ho fatto è stata andare a spulciare le foto che ho caricato nel corso degli anni per capire quale sceglierebbero. Amando pochissimo l’obiettivo, farebbero fatica a trovare uno scatto adatto a diventare il mio volto pubblico.
Penso poi ai casi di cronaca degli ultimi anni: associamo i protagonisti a determinate immagini, spesso desunte dai social. Efferati assassini che ci sorridono ammiccanti con un bicchiere in mano, donne vittime di femminicidio abbracciate strette al loro futuro assassino.

Ho poi scorso i miei post, cercando di immaginare l'idea che si farebbero di me persone che non mi conoscono: uno schizofrenico che passa senza soluzione di continuità dalla letteratura al trash, da sovrumane boiate a profondissime riflessioni e forse non sarebbero tanto lontani dalla realtà.
Morale della favola: non posso scomparire. Non ho niente di adatto per Chi l’ha visto.

Tramite i social cerchiamo di veicolare un immagine di noi che corrisponde non tanto a ciò che vorremmo essere ma a ciò che riteniamo socialmente più accettabile: siamo felici, abbiamo famiglie felici, siamo sportivi, donatori di sangue, frequentiamo concerti, mangiamo cibo impiattato magnificamente, siamo discretamente fighi (nei limiti imposti dai nostri mezzi e dai filtri di Instagram), prendiamo facilmente posizione su questioni che magari non conosciamo abbastanza.
Chiaramente non è la verità, o meglio è solo una parte della verità, quella più degna di essere diffusa. Il problema sorge nel momento in cui non si è più in grado di distinguere la realtà dalla narrazione della realtà: ci si sente infelici perché la propria vita è diversa da quella raccontata dagli altri e ciò fa nascere il desiderio di emulazione che porta a riproporre - talvolta con risultati al limite del grottesco - situazioni vissute da altri solo perché la loro felicità percepita li ha resi invidiabili ai nostri occhi. Anche noi, in fondo, vogliamo condividere la nostra felicità o meno poeticamente essere a nostra volta oggetto di invidia e questo crea un mondo di plastica fatto di persone perfette in cui, sorridenti come manichini della Rinascente, facciamo tutti le stesse cose e non c’è spazio per la quotidianità, la noia, la tristezza. 

Questo mi ricorda una delle innumerevoli mie fissazioni, indotta dal mio professore di Letteratura latina all’Università, l’indimenticabile prof. Cipriani: le iscrizioni sulle lapidi.
Andando al cimitero, mi perdevo nel guardare le parole scritte per ricordare le qualità della persona defunta. L’immagine che emerge è, inevitabilmente, quella secondo cui sono sempre i migliori quelli che se ne vanno: ovviamente, non è carino scrivere sulla tomba padre ignobile, madre anaffettiva, amico infedele, però è straniante scoprire che tutti i defunti erano ottime persone, tutte con qualità al grado superlativo, modelli insuperabili di comportamento. 
(Piccola parentesi da antichista perché ogni tanto ho bisogno di ricordarmi da dove vengo: nel mondo romano, le donne contavano come il due di coppe quando la briscola è bastoni o, se preferite, come il Parlamento italiano in questi ultimi anni. Nonostante questo, da morte diventavano tutte perfette pie, caste, custodi della casa, perfette filatrici. Perché questo? Perché ciò voleva dire che i maschi di casa - prima il padre, poi il marito -  erano riusciti a domare questo essere indomabile, dalla sessualità esplosiva, irrazionale e inutilmente emotiva. Lodare le donne, quindi, era un modo per gli uomini di darsi una pacca sulla spalla e dire a tutti "ehi, ho fatto davvero un ottimo lavoro"). 
Notevole anche la scelta della foto da mettere sulla lapide: le persone sono sorridenti, in salute, felici perché è giusto che vivano così nella nostra memoria. A questo proposito, ricorderò sempre la faccia di mia nonna - donna coriacea dalla invidiabile che capacità di sopportazione che mi ha lasciato in eredità l’approccio disincantato alla vita - quando venne a sapere che il fotografo che doveva immortalare i momenti più belli del matrimonio di mia sorella voleva approfittare per farle una foto in quel giorno in cui era elegante, sorridente, ben pettinata perché non si sa mai.

Usciamo dal cimitero  - fortunatamente con le nostre gambe - e torniamo a noi.
È assolutamente umano scegliere quale immagine dare di sé, si è sempre fatto e sempre si farà. Il problema nasce quando si elimina coscientemente il brutto dalla nostra vita pubblica sperando che, grazie a questo, possa crescere la stima nei nostri confronti.
Riserviamo uno spazio, magari aperto a poche e selezionate persone, in cui tenere le foto brutte, i nostri insuccessi, le scelte e le azioni di cui non andiamo orgogliosi, ma anche la noia, le difficoltà quotidiane, l’apatia per ricordarci che siamo fatti anche di quello, che l’immagine che noi diamo è solo un’ombra e che un’ombra non può esistere se manca un corpo.


Niccolò Fabi, Rosso

07 luglio 2024

Mazzo di fiori

(Un tappeto di archi in crescendo. Dopo qualche battuta, il violino solista inizia a suonare la melodia. Parte l'Aria sulla quarta corda di Johann Sebastian Bach, anche nota alla mia generazione come "la sigla di Superquark").

Gentili lettori, gentili lettrici,
la puntata odierna è dedicata ad un problema che affligge tutte le generazioni in maniera trasversale, ma principalmente i boomer che hanno un accesso ad internet: questa malattia prende il nome di "aimieitempismo" ed è un'affezione particolarmente grave che si manifesta con post e frasi scritte da chi schiuma di rabbia e ricorda di quanto ai suoi tempi fosse tutto migliore, più bello, più difficile. Perché avviene questo? Per screditare i giovani di oggi senza valori, a cui tutto è dovuto, mica come noi che dovevamo sudarci ogni cosa. 
Oggi il padre teme i figli. I figli si credono uguali al padre e non hanno né rispetto né stima per i genitori. Ciò che essi vogliono è essere liberi. Il professore ha paura degli allievi, gli allievi insultano i professori; i giovani esigono immediatamente il posto degli anziani; gli anziani, per non apparire retrogradi o dispotici, acconsentono a tale cedimento e, a corona di tutto, in nome della libertà e dell’uguaglianza, si reclama la libertà dei sessi.*
Queste parole che potrebbero essere tratte dal giornale di ieri sono tratte, sì, dalla Repubblica, ma quella scritta da Platone circa 2500 anni fa.
Ma qual è stato in questi giorni l'oggetto del contendere? Il mazzo di fiori.

Premessa necessaria: sul tema della scuola tutti si sentono in dovere di dire la propria anche solo per averla frequentata decenni prima: si tende, poi, a fare affermazioni che vorrebbero essere universalmente valide e che invece sono spesso solenni sciocchezze, legate ad una visione minuscola che non tiene conto del contesto. La si spara grossa, non la si argomenta e si spera così di avere visibilità.

Riassunto della vicenda: è stato sollevato un enorme polverone perché ad accogliere gli studenti e le studentesse che hanno appena concluso l'esame ci sono fiori, coriandoli, parenti fino alla settima generazione, bottiglie di spumante.

Secondo qualcuno, questo è il segno di quanto - ah, signora mia  - i tempi sono cambiati, di quanto questi giovani vengono coccolati e di quanto sono incapaci di stare al mondo.
A conferma di questa tesi e ad ulteriore discredito delle ragazze e dei ragazzi, proliferano in questi giorni articoli sugli strafalcioni pronunciati dagli studenti agli esami di maturità (alcuni vecchi come le gag di Paperissima Sprint) e - ultimissima tendenza - quelli che raccontano la consuetudine di prendere l'anno sabbatico dopo la maturità. Quali reazioni suscitano queste notizie nell'utente medio (o mediocre)? Sdegno per l'ignoranza delle nuove generazioni (che saranno quelle che dovranno pagarci la pensione) e per la poca voglia di fare (io alla tua età già lavoravo e avevo tre figli e una casa di proprietà).
Ma torniamo al mazzo di fiori.
In logica, questa si chiama fallacia del piano inclinato, ovvero - cito Wikipedia - un ragionamento con cui, partendo da una tesi, si trae una sequenza di conseguenze presentate come inevitabili ma, in realtà, del tutto arbitrarie.
Davvero si può pensare che un festeggiamento possa essere conseguenza e causa del presunto degrado morale contemporaneo?

Sì, probabilmente appare esagerato e un po' troppo a favore di social: se non si viene immortalati mentre davanti alla scuola si beve dalla bottiglia di spumante sembra che la maturità non sia valida e debba essere rifatta.
Sì, probabilmente c'è la sensazione che i grandi festeggiamenti vengano sempre più anticipati: il diploma sembra una laurea e le feste per il diciottesimo compleanno sembrano dei matrimoni; per chiudere il cerchio dovremmo far sì che i matrimoni sembrino funerali (e spesso succede, ma questa è un'altra storia).

Però mi dico anche che quando il 6 luglio del 1997 io ho sostenuto l'esame di maturità, sarei stato felice di trovare fuori dall'aula i miei genitori che, invece, lavoravano e non potevano prendere un giorno di ferie per venire a festeggiare con me; ovviamente ciò non significa che non mi siano stati vicini in assoluto, ma semplicemente che fisicamente in quel momento non c'erano. 
Il punto, secondo me, è un altro: il fatto che io - e come me la mia generazione e le generazioni precedenti alla mia - non abbia avuto questo non autorizza a negare che qualcun altro lo abbia.
Proviamo a ragionare evitando la polarizzazione, uno dei grandi mali dello scontro social che poi si riversa nella vita reale: non esistono solo guelfi e ghibellini, rossi e blu, buoni e cattivi; si può anche essere d'accordo in parte con una tesi e in parte con una tesi opposta. Impariamo a cogliere le sfumature di grigio - che sono ben più di 50 - che separano il bianco e il nero.
 
È probabile che questo sia un rito vuoto? Certo. 
È possibile che, dismesso il sorriso a favore di social, le famiglie lì riunite poi non si rivolgano più la parola? Assolutamente sì.
Ma, soprattutto, mi chiedo se sia possibile non ergersi a sociologi improvvisati e non giudicare un festeggiamento come un segno del declino dei tempi.
Si può pensare che magari per qualcuno una laurea non ci sarà - perché non dobbiamo per forza essere tutti laureati - e che arrivare a questo traguardo ha comportato sforzi e pertanto va festeggiato? Cosa sappiamo di quello che c'è dietro quella bottiglia di spumante, quello sparo di coriandoli, quel mazzo di fiori? Magari non c'è niente, ma magari c'è tantissimo.
Una bella prova di maturità sarebbe quella di pensare prima di parlare, ma se davvero fosse questa, forse, in molti avrebbero poco da festeggiare.


*A voler essere precisi, Platone non dice che i giovani - in generale - sono così, ma dice che questo loro atteggiamento si verifica in concomitanza con la degenerazione della società legata all'avvento della tirannide. Ancora più preciso Esiodo, poeta greco vissuto intorno al 700 a.C., che scrive: "Non nutro più alcuna speranza per il futuro del nostro popolo, se deve dipendere dalla gioventù superficiale d’oggi, perché questa gioventù è senza dubbio insopportabile, irriguardosa e saputa. Quando ero ancora giovane mi sono state insegnate le buone maniere ed il rispetto per i genitori: la gioventù d’oggi invece vuole sempre dire la sua ed è sfacciata".


30 giugno 2024

L'arca di Noè

Le ferie si avvicinano a grandi falcate (e a grandi falcate passeranno, lasciandoci ovviamente insoddisfatti) e, per festeggiare degnamente il momento dell'anno in cui tutti - più del solito - siamo costretti ad essere felici, vi faccio un regalo: come se fossi una Novella 2000 qualunque, allegato a questo numero troverete l'album delle figurine dei colleghi che non vorreste mai incontrare (e che purtroppo incontrate tutti i giorni).
Una precisazione doverosa: in questo post uso il maschile sovraesteso, perfettamente consapevole che il disagio non ha genere.

Il marchese del Grillo

Lo vedi camminare tronfio per i corridoi, solitamente di corsa e tenendo sotto il braccio case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale perché così sembra più business man. Millanta conoscenze ai piani alti, altissimi: per lui non esistono il Presidente della Repubblica o il Papa, ma esistono Sergio e Francesco. Esperto di tutto lo scibile umano, nella sua vita ricopre incarichi che nessuno si ricorda di avergli dato anche perché - forse - non esistono ed è affetto da una leggerissima forma di mitomania.
Se ingenuamente gli dici: "Sai, ho letto il libro X dell'autore Y. Te lo consiglio", ti sentirai rispondere che lui ne ha letto tutta la produzione, lo conosce da quando non era nessuno e sicuramente ha anche un po' di merito ad averlo fatto scoprire al mondo.
Ostenta solitamente un po' di disprezzo per quello che piace al volgo: non è concesso a lui, essere speciale e protetto da un'entità misteriosa, mescolarsi ai comuni mortali e appena può te lo fa notare,
Motto: io so' io e voi non siete un cazzo (cit.)
Aspetti positivi:se lo ascolti quando racconta le sue storie, potresti provare la stessa meraviglia che pervadeva i lettori del Milione di Marco Polo. Con la differenza che le storie raccontate dal mercante veneziano erano vere.

Ansia a colazione

Tendenzialmente stalker, ti insegue per chiederti se ha capito bene ciò che deve fare anche quando si tratta semplicemente di rispondere o no ad una semplice domanda. Si pone problemi esistenziali su questioni minuscole non visibili ad occhio nudo e tende a ripetere le cose all'infinito (tipo il loop di Max Gazzè alla fine di Cara Valentina). 
Capisci che si tratta di un caso patologico e cerchi di usare tutta la pazienza (anche perché il tuo timore inespresso è quello di poter, un giorno, diventare come lui) ma quando inizia a chiederti risposte certe su cose che avverranno nel 2026 i tuoi buoni propositi ti abbandonano e devi trattenere ogni tua fibra per non sbottare come Wanna Marchi contro i lardosi.
Motto: ti faccio una domanda ma non so se puoi rispondermi ora (chiaramente detto nel momento meno opportuno della giornata)
Aspetti positivi: puoi utilizzarlo come promemoria viventi perché a lui non sfugge mai nessun appuntamento, anche quelli che non lo riguardano.

Sto peggio di te

"Oggi ho un gran mal di testa" dici tu, ingenuamente.
"Non me ne parlare. Io sto peggio di te" dice lui.
Ti fa male una mano? A lui fa male un braccio.
Stai soffrendo per amore? Lui ha una serie così lunga di storie finite male che potrebbe scriverci la sceneggiatura di una soap turca brutta, di quelle che trasmettono su Canale 5.
Se hai un problema di lavoro, il suo sarà sempre più grande del tuo.
Se hai trovato traffico per arrivare, lui racconterà che stamattina sotto casa sua c'era un ingorgo in stile Mumbai.
Potrebbe anche raccontare di essere morto e risorto, in caso di necessità.
Motto: e cosa dovrei dire io che...?
Aspetti positivi: parlando con lui non ti sentirai compreso, ma sicuramente penserai che c'è sempre chi sta peggio di te. In ogni senso.


Il complottista

In qualunque posto di lavoro che si rispetti deve esserci il personaggio che vede trame oscure, si schiera contro i poteri forti, instilla dubbi, solleva animi. Mostrando spesso un po' di difficoltà nella comprensione del testo, cita le fonti più improbabili e fornisce interpretazioni della realtà quantomeno fantasiose. Quando poi questa figura si identifica con quella del sindacalista la frittata è fatta: si sente parlare di padroni, lavoratori, guerra tra poveri e una serie di luoghi comuni che farebbero risvegliare Marx dal sonno eterno solo per venire a prenderlo a schiaffi.
Motto: non ce lo dicono
Aspetti positivi: un po' di folklore nel posto di lavoro non fa mai male.

L'affarista

È un cane da tartufo. con la sola differenza che lui, invece di percepire il profumo del tartufo, percepisce quello del denaro e lo segue con determinazione fino a raggiungerlo.
Se c'è lui vuol dire che girano soldi; con un sorriso da curato di campagna ed un'aria apparentemente da bonaccione, amante del pettegolezzo che crea aggregazione ed individua nemici comuni, cerca di costruire la sua piccola cosca, assoldando un po' di scagnozzi che facciano il lavoro al posto suo in modo da poter trarre il massimo profitto con il minimo sforzo. Ovviamente, tutta questa apparenza amichevole scompare con le persone che ne hanno già compreso la vera natura
Seleziona e frequenta esclusivamente persone che possano essere utili ai propri scopi ed esercita un fascino su chi vorrebbe essere come lui.
Motto: vorrei farti una proposta per guadagnare un po' di soldi
Aspetti positivi: sapendo esattamente dove trovarlo, puoi facilmente evitarlo.

Il fancazzista

Se lo cerchi per chiedergli una sostituzione, si acquatta negli angoli più remoti, rivelando doti di mimetizzazione che farebbero impallidire un camaleonte.
Invoca il (sacrosanto) diritto alla disconnessione anche nei momenti in cui dovrebbe essere connesso.
Se gli hai mandato una mail, dice che la password gliel'ha mangiata il gatto.
Se gli scrivi su whatsapp, non visualizzerà mai il messaggio, aggiungendo che lui non usa questa app (salvo poi partecipare compulsivamente a gruppi che organizzano  - mi tremano i polsi al solo pensare questa parola - apericene).
Lavora lo stretto indispensabile, evita qualunque fonte di stress, costruisce ponti in prossimità dei giorni festivi con la facilità con cui lo farebbe un Ministro delle Infrastrutture.
Amato dai gestori del bar, intrattiene rapporti con chiunque mentre beve caffè tanto da farti nascere il sospetto che lui abbia un contratto diverso dal tuo e sia pagato come animatore turistico.
Motto: Andiamo a prendere un caffè?
Aspetti positivi: se non sei costretto ad avere a che fare con lui (se non al bar) potrebbe essere anche una compagnia piacevole. In caso contrario, ti toccherà fare anche il suo lavoro.

L'entusiasta

Già alle 8 del lunedì mattina è carico a pallettoni, come una Brunetta dei Ricchi e Poveri sotto acido.
Organizza, propone, promuove, fa, disfa compulsivamente: in una qualunque iniziativa lui c'è, un po' come l'indimenticato ragionier Filini dei film di Paolo Villaggio.
L'1% della sua voglia di fare basterebbe per compensare tutti i fancazzisti.
Motto: facciamo?
Aspetti positivi: in realtà ne ha tanti, se solo capisse qual è il limite oltre il quale si diventa molesti.

Se pensate che tra i vostri colleghi non ci sia nessuno di questi, probabilmente siete voi.
Se qualcuno si è sentito colpito, mi creda, non si è fatto apposta.
Bugia.
L'ho fatto apposta.

Mannarino, Arca di Noè

23 giugno 2024

Scrivere per vivere

Gli occhi scorrono per l'ultima volta sulle parole che hai scritto, posi la penna e poi, accuratamente, serri il lucchetto che serve a custodire ciò che non vuoi dire a nessuno. 
Non ho memoria di aver avuto in adolescenza un diario segreto: era roba da femmine, si sarebbe detto ai tempi (e purtroppo si sente dire ancora ora), come se scrivere fosse una prerogativa femminile in un mondo che, in realtà, ha sempre presentato un panorama letterario al 95% maschile. Era da femmine esternare i propri sentimenti, che, comunque, avevano confini ben limitati entro cui poter essere espressi, dato che il diario era scritto per non avere lettori.
Non avevo un diario segreto, dicevo, non perché fosse roba da femmine: nonostante il contesto non fosse sempre favorevole a prese di posizione del genere, non ho mai ragionato così e, per quanto sia stato spesso difficile, frustrante e fonte di incomprensione e discriminazione, lo rivendico con orgoglio. 
Non avevo un diario segreto perché non avevo ancora capito quanto sia importante dare ai propri pensieri un corpo, una dimensione materiale: poter accedere nuovamente alle sensazioni di un tempo e trovarsi immutati o cambiati rispetto ad un preciso momento e darsi per questo una pacca sulla spalla o un ceffone.

Il diario dell'era digitale è una rappresentazione di sé rivolta immediatamente agli altri. Nasce come costruzione artificiale, cosciente, anzi alla ricerca quasi spasmodica, del giudizio (e dell'approvazione) degli altri. Rischiando di perdere così uno degli elementi del diario come lo abbiamo visto e conosciuto finora: la ricerca di sé attraverso il racconto della propria esperienza interiore. Che viene sostituita dall'affermazione di sé attraverso la narrazione mitica (o nelle intenzioni, mitopoietica) di ciò che si vorrebbe essere
Queste parole di Maurizio Caminito, tratte da un suo articolo pubblicato 10 anni fa, sono state proposte alle studentesse e agli studenti che hanno affrontato la prova di italiano dell'Esame di Stato. 
Sorvolo sul fatto che, nel mondo digitale, dieci anni equivalgono circa ad un'era geologica e se è vero, com'è vero, che le affermazioni di Caminito sono ancora generalmente valide, non si può non considerare che questo testo è stato scritto quando chi nei giorni scorsi è stato chiamato a commentarlo aveva 8 o 9 anni e quindi era auspicabilmente lontano dal mondo dei social.

Torno al testo e alla domanda che mi ha fatto nascere: perché, ormai quasi due anni fa, ho deciso di aprire questo blog? Per dare un ordine ai pensieri, per argomentare in maniera più dettagliata le mie opinioni, per creare uno spazio sicuro in cui potermi esprimere, al di là dei ruoli, delle convenzioni, delle aspettative altrui.
L'idea è quella di scrivere non per costruire un racconto idealizzato di cui si è i protagonisti, ma per dare voce ad una parte di sé che solitamente non ce l'ha per mille ragioni: non c'è tempo, non c'è occasione, non è opportuno. 
A costruire la narrazione mitopoietica di ciò che si vorrebbe essere (per citare Caminito) concorrono piuttosto le immagini di felicità sintetica e stereotipata che affollano piattaforme come Instagram - che ai tempi dell'articolo proposto muoveva i primi passi - o Tik tok che nel 2014 doveva ancora vedere la luce.
A dirla tutta, non servono neanche i social per questo: il vestito che decido di indossare, l'atteggiamento che decido di avere, le parole che decido di dire o di non dire contribuiscono in maniera determinante all'immagine di me che voglio dare agli altri. Il processo, trasferito sui social, cambia di poco: pubblico foto in cui sono felice per far pensare che io lo sia sempre, pubblico stories in cui mi diverto perché la tristezza non attira follower e soprattutto non va mostrata; se sono un po' oltre l'età media dei fruitori dei social, posto scatti di anni prima per cercare un'approvazione ormai fuori tempo.

La scrittura, per come la intendo, non è questo: non si può fingere felicità troppo a lungo, non si può ingannare chi decide di dedicare del tempo a leggerti.
Scrivere ti mette a nudo, ti rende potenzialmente vulnerabile: quando si parla di sé, inevitabilmente si mostrano i propri nervi scoperti e ci si espone ai colpi degli altri; allo stesso tempo, però, si dà a chi legge la possibilità di conoscere realmente l'altro, di sapere con chi si ha a che fare, al di là delle apparenze.
Ogni volta che scrivo, non so mai se, da chi, quando e come sarà letto ciò che scrivo e, onestamente, non mi pongo neanche il problema: se me lo ponessi, cadrei nel tranello dell'immagine da dare agli altri.
Scrivere, dunque, per mettere ordine, pur nella amara consapevolezza che, come diceva Pirandello, "Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre, chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo come egli l'ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!".
Scrivere, dunque, per farsi conoscere, senza timore degli altri, confidando nel fatto che, come diceva Terenzio, essere umani ci fa sentire (o ci dovrebbe far sentire) meno estranei i sentimenti altrui.

Paola Turci, Io sono



16 giugno 2024

Esami

Sono lì tutti schierati, in file parallele ed equidistanti: sono i banchi pronti per accogliere le studentesse e gli studenti che da mercoledì dovranno sostenere le prove scritte degli Esami di Stato.
È passato qualche anno - ma giusto qualcuno, tipo 27 - da quando fui chiamato a scrivere un testo sul rapporto tra intellettuale e potere partendo da una frase di Norberto Bobbio e a tradurre un brano di Seneca, ma vedere quei banchi mi provoca un nodo alla gola che è difficile da sciogliere, anche se ormai sono dall'altra parte della barricata.

Penso alle mie ragazze e ai miei ragazzi, presenti, passati e futuri, che affrontano questo che è un vero e proprio rito di passaggio: è stata tolta loro ogni possibilità di scontrarsi con la realtà e gli esami sono il primo momento per farlo.
Gli esami di quinta elementare non esistono più, gli esami di scuola media sono ormai una copisteria di tesine su globalizzazione, guerra, il Giappone, l'emergenza ambientale; invocando la privacy, non esiste più il momento in cui, con un po' di timore e con un gruppo ristretto di amici, a fine anno scolastico si andavano a vedere i quadri in cui erano riportati i successi e i fallimenti di tutti, mentre adesso ciascuno, tramite il registro elettronico, vede i propri risultati e non sa niente degli altri. 
Come avviene in tanti altri contesti, il collettivo perde di valore rispetto all'individuale.
Giusto? Sbagliato? Non lo so: sta di fatto che era sicuramente un momento di crescita e di assunzione di responsabilità che ora viene rimandato.

Gli esami, dunque: il momento in cui si viene valutati per la prima volta da qualcuno di esterno, in cui si è sopraffatti dalla paura del foglio bianco, dalla paura del silenzio, dalla paura di deludere soprattutto sé stessi, dalla paura di ciò che verrà dopo.
Nei corridoi, durante gli orali, si vedono genitori in apprensione, nonne e nonni emozionati, mazzi di fiori (tanto che ogni tanto si ha la sensazione di essere ad un matrimonio - o ad un funerale, dipende) e da fuori si sente il rumore di bottiglie stappate, cori, urla di liberazione.
Il momento è davvero importante perché questo è l'ultimo passaggio prima di essere chiamati a decisioni che possono condizionare la vita: scegliere se frequentare l'università, se, avendone la possibilità, andar via di casa, combattere l'eterna lotta tra quello che si vorrebbe fare e quello che si dovrebbe fare, mettere sul piatto della bilancia comfort zone e nuove esperienze.
Penso, poi, a quanto i maturandi siano bombardati da presunte fughe di notizie sugli autori che sicuramente saranno oggetto della prima prova, dai video di guru-influencer che consigliano di mangiare leggero e di andare a dormire presto (ma dai? Non ci avevo pensato!), da presunti hacker e maestri di vita che insegnano trucchi e sotterfugi per superare in modo più o meno legale le prove scritte e soprattutto da inviti a stare tranquilli che, da che mondo è mondo, non hanno mai tranquillizzato nessuno.

Da prof, mi sento privilegiato e allo stesso tempo responsabilizzato ad avere un ruolo in tutto questo: che siano le classi che ho maltrattato per tre o cinque anni o che siano studentesse e studenti che vedo in quel momento per la prima volta, so di rivestire un ruolo in un momento che per loro è fondamentale.
So che dovrò aspettarmi il classico D'Annunzio estetista (una leggenda dice che se non si sente pronunciare almeno una volta questa frase, l'esame non può essere considerato valido) o le più scivolose erezioni vulcaniche; so che mi toccherà sentir parlare per un numero imprecisato di volte della maledetta sfiga dei Malavoglia e del gaio fanciullino pascoliano, ma va bene così.
Certo, qualcuno potrebbe dire che è solo lavoro, che è una tortura correggere pacchi di compiti con la fretta di dover finire presto e la paura di valutare non correttamente, soprattutto degli sconosciuti, che siamo al limite della violazione della convenzione di Ginevra quando si è costretti a star fermi ad ascoltare esami per ore, in aule rinfrescate spesso con mezzi di fortuna, che l'attribuzione del voto a fine esame assume talvolta i risvolti della tombolata in una casa di riposo, in cui si urlano numeri un po' a casaccio.
Diciamolo per una volta: le cose non si escludono.

Proprio oggi mi è ricapitato sotto gli occhi un vecchio messaggio WhatsApp mandato ai miei disgraziatissimi discepoli di allora (che hanno sempre un posto nel mio cuore):
"E così ci siamo, siamo arrivati alla notte prima degli esami. Quando starete scrivendo, ricordatevi delle mie manate prima di scrivere una sciocchezza; dopo aver scritto, controllate che il vostro discorso abbia un senso che sia comprensibile anche per gli altri 8 miliardi di persone che abitano questa Terra.
Soprattutto state tranquilli, ma non abbiate paura di avere paura... anzi, gustatevi questo sentimento dolcissimo e spaventoso che resterà parte del vostro bagaglio di emozioni.
Domani non dovrete cercare di fare il tema perfetto, ma dovrete impegnarvi per dare tutto ciò che potete: lo dovete a voi stessi e a chi vi vuole bene e fa il tifo per voi.
Io vi penserò e aspetterò vostre notizie 
Vi abbraccio tutti (con le mie braccia ce la posso fare). In bocca al lupo".

E ancora adesso scriverei esattamente le stesse cose.

Antonello Venditti, Notte prima degli esami (perché i classici vanno sempre rispettati)



09 giugno 2024

Dare e avere

Arrivando al Vittoriale degli Italiani, la sontuosa villa che si trova a Gardone Riviera, nella quale Gabriele D'Annunzio passò gli ultimi anni della propria vita, la prima scritta che colpisce il visitatore è questa: "Io ho quel che ho donato".
"Io ho quel che ho donato". Per molto tempo l'ho considerata una di quelle frasi ad effetto che tanto piacevano all'influencer pescarese, quello che ha inventato nomi come tramezzino, Rinascente, vigili del fuoco, quello fotografato nudo sulla spiaggia (e ogni volta studentesse e studenti strizzano gli occhi per cercare di capire quanto fosse fornito della virtù meno apparente / di tutte le virtù la più indecente), quello della leggenda metropolitana sulle costole mancanti.
Poi, come talvolta succede, capita che alcune parole che fino a quel momento erano puro suono, si caricano di un significato diverso e assumono un senso.

Quando penso a dare e avere mi si parano davanti due scenari agli antipodi.

Da una parte vedo davanti a me un foglio a quadretti, diviso in due colonne sulle cui sommità campeggiano queste due parole e poi numeri, numeri e ancora numeri, da una parte scritti in rosso e preceduti dal segno meno, dall'altra scritti in verde e preceduti dal segno più.
Non ho mai studiato economia e il pensiero che anche solo per un attimo, quando ero chiamato a scegliere la scuola superiore, io abbia pensato che avrei potuto iscrivermi alla ragioneria per pura questione di pigrizia dato che l'istituto si trovava praticamente sotto casa mia, mi devasta.
Non ho mai studiato economia, dicevo, ma così immagino i bilanci: far tornare i conti, non dare mai più di quanto si riceve per non andare in bancarotta.

Dall'altra parte sento la Giulietta shakespeariana che dice the more I give to thee / the more I have, che Salvatore Quasimodo traduce con "più a te ne concedo [di amore], più ne possiedo".
Un'idea di dare ed avere, quindi, sostanzialmente diversa: più io do, più possiedo: fin troppo palese che se l'amministratore di un'azienda ragionasse così, verrebbe licenziato in tronco dopo quattordici secondi netti.

Noi, però, non siamo aziende e il nostro funzionamento è diverso. O meglio, non dovremmo essere aziende e il nostro funzionamento dovrebbe essere diverso.
La mia speranza è di essere sempre altro rispetto a quelli che benpensano a cui Frankie Hi-Nrg MC oltre 25 anni fa dedicava questi versi:

Sono intorno a noi, in mezzo a noi
In molti casi siamo noi a far promesse
Senza mantenerle mai se non per calcolo
Il fine è solo l'utile, il mezzo ogni possibile
La posta in gioco è massima, l'imperativo è vincere
E non far partecipare nessun altro
Nella logica del gioco la sola regola è esser scaltro
Niente scrupoli o rispetto verso i propri simili
Perché gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili

Quando arriva la fine della scuola, il proprio compleanno, la fine dell'anno si sente sempre la necessità di fare bilanci. Quanto ho dato? Quanto ho ricevuto? Sono in bancarotta emotiva?

Provo a ragionare in maniera diversa, lasciando spazio alla gratitudine per ciò che ho ricevuto da chi mi circonda. 

Penso a chi c'è sempre, pronto a sostenermi e a incoraggiarmi, a ridere con me e a condividere le mie innumerevoli paranoie.
Penso alle poche persone che posso considerare amiche (di conoscenti ce ne sono in abbondanza), la cui presenza si sente anche quando non ci si vede per mesi.
Penso a chi mi fa sentire la sua fiducia.
Penso a chi mi regala sorrisi e gentilezza.
Penso a chi, vedendomi con le spalle curve sotto il peso di un fardello troppo pesante, ha deposto il proprio e mi ha aiutato a togliere il troppo e 'l vano dal mio.
Penso alla mia ex studentessa  - con cui ho litigato per cinque anni - che viene a scuola per portarmi una copia della sua tesi su Calvino, nei cui ringraziamenti ha trovato un posto per me.
Penso alle persone con cui scambio messaggi chilometrici, vocali che assumono le sembianze di podcast, persone che pensavo distanti anni luce da me e che invece sono vicinissime.
Penso ai pranzi fatti a scuola, alle risate fino a star male, ai linguaggi in codice per non farsi capire, ma anche ai discorsi seri, profondi, quelli che ti scavano dentro. Questi scavi sono più leggeri se trovi accanto a te, negli abissi, qualcuno che ti tenga una luce e provi a cercare con te una strada.
Penso anche alle persone che compaiono, scompaiono e ricompaiono nella vita.
Penso alle persone che vorrei abbracciare e che abbraccio appena posso per trasformare in vicinanza fisica la vicinanza spirituale.
Penso a chi mi ritiene antipatico, egocentrico, supponente e - fortunatamente - mi tiene a distanza da sé.
Penso a chi mi ha scritto queste parole: "Per favore, prof, si dia due o anche tre pacche sulla spalla perché ha fatto un ottimo lavoro sia a livello scolastico che non. Spero sia fiero di ciò, perché io lo sono"

Penso a tutto questo e mi chiedo cosa abbia fatto per meritarmelo.
Realizzo, poi, che i comportamenti degli altri sono - non sempre, purtroppo o per fortuna - uno specchio del nostro comportamento; ribalto, quindi, il punto di vista e penso che potrei essere io per gli altri quello che gli altri sono per me.
Dare e avere diventano, quindi, non le voci di un bilancio da far tornare per evitare la chiusura dell'azienda ma le due metà di un cerchio così perfetto da far invidia anche a Giotto.

Frankie Hi-Nrg MC, Quelli che benpensano


Una zattera col tetto

Adolescente e adulto sono due facce della stessa medaglia. Hanno addirittura la medesima radice. Però adulto è un participio passato. Mentre...