08 dicembre 2024

Di liceo classico e brain rot

Dicembre, andiamo! È tempo di orientare.
Il buon Gabry (D'annunzio) non mi maledirà se uso il verso di una sua poesia che avevo studiato alle elementari per descrivere quello che sto facendo da qualche settimana a questa parte, ovvero guidare genitori e studenti terrorizzati nel mare tempestoso della scelta delle superiori e mostrare loro la validità dell'offerta formativa della nostra scuola che, signora mia, non ha eguali in tutto il panorama della provincia, ma che dico della provincia? Dell'intero Granducato. 
Praticamente sono un mix tra Cristoforo Colombo e Giorgio Mastrota.
Poi l'altro giorno sono incappato nell'articolo di Silvia Avallone sul liceo classico (chi non lo ha letto, può farlo qui)
E mi sono imbestialito.

Ho frequentato anche io il liceo classico e so bene quanto quella formazione sia stata importante per me. Ricordo bene le lacrime versate sulle versioni di greco che non tornavano mai, sulla fisica studiata a memoria (che Newton mi perdoni), sulla filosofia che ogni tanto risultava un insieme di parole vuote, salvo poi capirne il significato guardandola da lontano, come un quadro astratto.
Far passare, però, il messaggio che il classico sia l'unico baluardo della cultura mi sembra veramente sbagliato: la scuola, qualunque essa sia, dovrebbe avere la funzione di preparare alla complessità e far diffidare dal tutto e subito. Il latino e la filosofia, citati da Avallone nell'articolo, si studiano in molti licei e non credo che la matematica abbia qualcosa in meno del greco nella formazione di persone di cultura.

Certo, è vero che la scuola non deve essere utile in senso stretto ma ha il ruolo fondamentale di dare a ragazze e ragazzi le coordinate per interpretare la complessità del mondo circostante.
Tante volte con le mie classi ho affrontato questo argomento, soprattutto quando ci si è interrogati sul senso di studiare le guerre puniche quando fuori dalle mura scolastiche ci sono guerre che si stanno combattendo in questo momento e di cui si vorrebbe comprendere il senso. 
Ho spiegato loro che la scuola non ha il compito di inseguire la contemporaneità ma persegue lo scopo  - utopico quanto si voglia - di fornire delle competenze per interpretare ciò che accade intorno a noi, anche se non è stato oggetto diretto di studio.
È come se, alla fine dei cinque anni, si ricevesse una cassetta degli attrezzi di cui si conosce il funzionamento ma i cui molteplici utilizzi sono ancora da scoprire.

Pensare che questa preparazione al mondo esterno sia propria solo di una certa formazione è fuorviante: oltretutto - e lo dicono le statistiche - questo indirizzo è frequentato per lo più da ragazze e ragazzi che appartengono a famiglie di classi sociali medio-alte, per cui è un ascensore sociale (per citare Avallone) che, però, per proseguire la metafora, è bloccato ad un attico con vista Colosseo. 
Una sgradevole percezione di un pensiero sottilmente classista mi pervade: la cultura può essere appannaggio solo dei più ricchi, mentre gli altri sono destinati semplicemente a imparare un mestiere.

Se un compito ha la scuola, ad ogni livello, in ogni indirizzo, con ogni mezzo, è quello di prevenire il brain rot, parola dell'anno secondo l'Oxford Dictionary: con questa espressione (che significa letteralmente putrefazione del cervello) si indica uno stato mentale di intorpidimento causato dall’esposizione ossessiva a contenuti digitali. Chi vuole approfondire trova informazioni a questo link.
Ovviamente sono già partite le crociate contro i social media, responsabili di questa condizione, senza pensare che la responsabilità è, almeno al 50%, di chi fruisce di quei contenuti e non solo di chi li produce.

Abituare al senso critico e fornire stimoli in questa direzione, spingere ragazze e ragazzi alla lettura, farli innamorare della complessità, far vedere loro le donne e gli uomini dietro i romanzi, le poesie, le scoperte scientifiche, gli eventi storici e le dottrine filosofiche. 
Spiegare loro la bellezza di porsi nuove sfide, di immaginare soluzioni alternative a problemi atavici, mettersi in gioco, insegnare loro a sollevare la testa dai libri e ad utilizzare quelle parole scritte per dare un senso al mondo esterno che nelle materie scolastiche non c'è, domandarsi cosa avrebbero fatto loro in quella situazione.

Lo si può fare solo al classico? Non credo.

Roberto Vecchioni, Sogna ragazzo sogna

01 dicembre 2024

Guido, Camillo e l'amore

Guido parte da Firenze, mentre Camillo parte da Santa Margherita Ligure.
Li separano circa 225 km, facilmente percorribili con due autostrade.
Li separano anche circa 600 anni, e questo è un ostacolo un po' più difficile da superare, finché qualcuno non inventerà una macchina del tempo.
Ogni tanto, nel boschetto della mia fantasia (solo i migliori coglieranno questa citazione altissima), mi piace far incontrare persone distanti nel tempo e nello spazio, farli dialogare, far sentire loro che non sono soli, che il loro pensiero è condiviso e che esistono altre angolazioni per vederlo.
Ho dimenticato di dire i cognomi di Guido e Camillo: parlo di Cavalcanti e di Sbarbaro.

Guido Cavalcanti, amico fraterno di Dante (che non per questo gli risparmia l'Inferno... vai a fidarti del nasone), poeta stilnovista, uno di quelli che credeva che amare fosse un mezzo per elevare il proprio spirito, ma anche che l'amore fosse una delle esperienze più traumatiche per l'uomo, scrive questo:

Tu m’ài sì piena di dolor la mente
che l’anima si briga di partire,
e li sospir che manda il cor dolente
mostrano a li occhi che non pon soffrire.

Amor, che lo tuo grande valor sente,
dice: — mi duol che ti convien morire
per questa fera donna, che niente
par che pietade di te voglia udire.

Io vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, c’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno,

che sè conduca sol per maestria,
e porti ne lo core una ferita
che sia, com’egli è morto, aperto segno.

La donna fiera, crudele, che non vuole sentire parole di pietade , di compassione sull'uomo che la ama, ha riempito a tal punto l'uomo di sofferenza che l'unico desiderio che l'uomo è in grado di concepire è la morte. L'uomo - cosa rara nella poesia dell'epoca - si rivolge con il tu alla donna (che solitamente era la signora a cui rivolgersi con il voi) e questo dimostra la condizione disperata dell'uomo che ormai non è più in grado di ragionare lucidamente e non può far altro che sospirare, ovvero rinunciare alla comunicazione verbale, affidando ad un fiato ciò che vorrebbe dire.
Ormai l'uomo è una statua di rame, di pietra o di legno, è fuor di vita, è un morto che cammina, che si conduce solo per maestria, come fosse una marionetta o un robot e mostra, attraverso la ferita che porta nel cuore, che la sua morte è dovuta all'amore.
Una visione tragica, devastante: andrebbe detto a chiare lettere - come sui pacchetti di sigarette - che l'amore nuoce gravemente alla salute e che porta alla morte.

Ci spostiamo nel 1914. Circa 600 anni dopo i versi di Cavalcanti, Camillo Sbarbaro - uno dei miei poeti preferiti del primo Novecento ma citato solo di sfuggita nei testi di letteratura, chissà perché - capovolge completamente il punto di vista.
Sbarbaro scrive questi versi:

Io che come un sonnambulo cammino
per le mie trite vie quotidiane,
vedendoti dinanzi a me trasalgo.

Tu mi cammini innanzi lenta come
una regina.
Regolo il mio passo
io subito destato dal mio sonno
sul tuo ch’è come una sapiente musica.
E possibilità d’amore e gloria
mi s’affacciano al cuore e me lo gonfiano.
Pei riccioletti folli d’una nuca
per l’ala d’un cappello io posso ancora
alleggerirmi della mia tristezza.
Io sono ancora giovane, inesperto
col cuore pronto a tutte le follie.

Una luce si fa nel dormiveglia.
Tutto è sospeso come in un’attesa.
Non penso più. Sono contento e muto.
Batte il mio cuore al ritmo del tuo passo.

Basterebbe l'ultimo verso a farci innamorare di questa poesia: batte il mio cuore al ritmo del tuo passo.
Da una condizione di sonnambulismo, dal percorrere le solite vie, l'uomo passa a concepire possibilità d'amore e gloria, si alleggerisce della sua tristezza e smette di pensare. E tutto questo avviene grazie alla donna, ai suoi riccioletti folli: ci sembra quasi di immaginare la scena. L'uomo trasale vedendola dinanzi a sé: la vede di spalle, vede i suoi capelli, il suo cappello, sente il suo passo lento e regale. Improvvisamente il suo mondo si illumina e torna a vivere, il cuore torna a battere; l'uomo è muto, ma, pur simile, la sua condizione è diversa da quella descritta da Cavalcanti perché cambia radicalmente il segno dell'esperienza.

Mi piace immaginarli, Guido e Camillo, che, mentre mangiano una Rustichella in un rumoroso autogrill sulla A12 discutono su cosa sia l'amore.

I giganti, Tema

24 novembre 2024

Il patriarcato non esiste

Ha ragione il ministro: il patriarcato non esiste.
Parlarne è inutile ed è sbagliato ricondurre a questa ideologia il numero impressionante di femminicidi che si consumano quotidianamente nel nostro Paese. 
Parlarne è una perdita di tempo, simile a quella che si ha quando si parla dei dinosauri nella scuola primaria.
È dal 1975 che la nostra società non è più patriarcale grazie alla revisione del diritto di famiglia che ha sancito che donne e uomini hanno gli stessi diritti all'interno delle famiglie. 
Perché parlarne ancora?
D'altra parte la nostra Costituzione sancisce, nell'articolo 3, che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso e nell'articolo 37 che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.
Quindi, perché parlarne?

È probabile che il ministro non si sia mai sentito un uomo migliore per il semplice fatto di fare cose che. solitamente, fanno le donne: fare la spesa, cucinare, accudire i figli, riordinare la casa.
A me - lo ammetto - capita e mi sento in colpa per il solo fatto che questo pensiero mi abbia sfiorato. A lui evidentemente non capita.
Forse il ministro non ha mai sentito storie di donne che hanno subito violenza e abusi da parte di parenti, amici, insegnanti e che con le lacrime agli occhi trovano giustificazioni per loro e colpe per sé stesse. Avrebbe capito, altrimenti, che tutto questo affonda le proprie radici nell'idea dell'uomo cacciatore e della donna preda indifesa, dell'uomo che ha sempre una giustificazione e della donna che, se guardi bene, in fondo qualche colpa ce l'ha sempre.
Il ministro non ha mai parlato con donne che non si sentono libere di vestirsi come vorrebbero, di tornare a casa da sole, di andare a correre, di frequentare zone della propria città; avrebbe capito, altrimenti, che queste persone subiscono una grave limitazione della propria libertà
Al ministro forse non hanno detto che esiste un gender pay gap, cioè una differenza salariale tra uomo e donna, che secondo alcune stime arriva a circa 8000 euro all'anno; non gli hanno detto neppure che solo 17 donne su 100 ricoprono ruoli dirigenziali. Avrebbe capito, altrimenti, che queste persone sono vittime di una grave disuguaglianza. 

Ha ragione il ministro: il patriarcato non esiste, ma purtroppo esistono persone che negano la sua esistenza, che negano che ci siamo ancora immersi e che anche inconsapevolmente perpetriamo dei modi di pensare e di agire che affondano le proprie motivazioni proprio in quella visione del mondo.
Ed è molto più pericoloso. 

Brunori Sas, La ghigliottina


17 novembre 2024

Diverse lingue, orribili favelle

L'altro giorno leggevo in classe i Promessi Sposi quando, ad un certo punto, incappo nella parola "creditore": per puro scrupolo, chiedo ai malcapitati venticinque lettori (sono diciannove, ma Manzoni non lo deve sapere) se conoscano il significato di questo termine.
Improvvisamente trentotto occhietti impauriti si bloccano su di me come se avessi chiesto la classifica finale di Sanremo 1974 o una panoramica sulla letteratura bulgara del diciannovesimo secolo.
Nessuno conosceva il significato di questo termine.
A quel punto le reazioni possibili erano tre: uscire dall'aula sbraitando come Tarzan nella foresta, aprire un profilo LinkedIn per cercare lavoro come lavapiatti nelle isole Fær Øer oppure mantenere la calma e spiegare loro il significato del termine.
Mancandomi le physique du rôle per vagare nei corridoi della scuola aggrappandomi alle liane e non avendo contezza della presenza di ristoranti nel noto arcipelago situato tra Norvegia e Islanda, ho scelto la terza opzione, con non poco sgomento.
Questa cosa, però, ha continuato a ronzarmi in testa.
Com'è possibile che non si conosca un termine che ovviamente non entra nella comunicazione quotidiana di persone adolescenti ma che pure - credo - sia una parola piuttosto diffusa?
La sensazione, ormai sempre più netta, è quella della presenza di due lingue, distinte e separate, in cui la discriminante non è l'origine geografica o la classe sociale di appartenenza, quanto piuttosto l'età.

Immagino lo sforzo titanico a cui si devono sottoporre ragazze e ragazzi che cercano di usare - com'è normale che sia, com'è sempre stato e come sempre sarà - il linguaggio che vogliono gli adulti nel momento in cui devono fare un'interrogazione o devono scrivere un compito, raggiungendo talvolta risultati ai limiti del grottesco.
È esattamente la stessa cosa che facevo io quando dovevo tradurre le versioni di greco ed usavo un vocabolario che ancora oggi si usa - il famigerato Rocci, chi ha fatto il classico lo sa - ma che ai tempi proponeva traduzioni dei lemmi greci in un italiano incomprensibile, ma che mi affascinava.
Usando imperocchè o fo da mallevadore pensavo che le mie traduzioni sarebbero state più eleganti o almeno avrebbero dato l'impressione che avevo capito qualcosa di quel testo di Senofonte o del temutissimo Tucidide.

Solo dopo ho scoperto  - a mie spese - che le cose non stavano così.

Al momento della verifica, dicevo, gli studenti devono usare un linguaggio che non appartiene loro, che fanno fatica a padroneggiare, abituati ad esprimersi in un modo non migliore, non peggiore ma semplicemente diverso rispetto a quello degli adulti. 

È pacifico il fatto che termini come boomer, cringiare, snitchare, chillare, bro, giga chad non sono utilizzabili mentre si parla dello Stilnovo o della poesia ermetica, mentre si raccontano le imprese di Orlando o i dolori di Jacopo Ortis.
È altrettanto pacifico che non è accettabile il fatto che si parli di Accademia della Carruba (invece di accademia della Crusca) e si confonda giudizioso con giudicante o caffetteria e caffettiera.
Trovo, però, incomprensibile lo sdegno, manifestato solitamente con atteggiamenti teatralmente tragici, da parte di colleghe e colleghi - ma anche di adulti in generale - che ritengono inaccettabile questo imbarbarimento della lingua che chissà dove ci porterà, signora mia.

Accettare il cambiamento, sedersi - metaforicamente - ad un tavolo da cui si lasciano lontani pregiudizi e pretese superiorità per confrontarsi sulla lingua e provare a trovare un terreno comune, tramite di comunicazione intergenerazionale.
Io, adulto, mi impegno a spiegare parole che appaiono desuete o difficili in modo che possano essere comprese da chi a quelle parole non associa alcun significato; tu, adolescente, ti sforzi di spiegarmi con parole per me comprensibili la tua lingua, così da poter facilitare la comunicazione, anche ad un livello più profondo. E no, non basta leggere per migliorare la lingua se non si è curiosi di scoprire il significato delle parole che non si conoscono. E la curiosità non nasce spontanea, ma ha bisogno di essere stimolata costantemente.

Poi, ognuno può tornare alla propria lingua, arricchito, però, dalla conoscenza della lingua dell'altro, nella consapevolezza che ogni sistema linguistico è espressione di una cultura e di un modo particolare, non migliore né peggiore, di vedere le cose.

10 novembre 2024

La società degli incompresi

Come mi capita spesso, quando non trovo le parole, sono le parole a trovare me.

L'incomprensione regna sovrana. 
Ognuno di noi si sente capito da pochissime persone e solo ogni tanto. 
Anche quelli che ci capiscono, non sempre hanno voglia di farlo. 
Tutta questa enorme massa di comunicazione e tentativi di farci capire, di farci avvistare, alla fine si conclude con la consapevolezza che è difficilissimo essere compresi e ancora di più avvistati. 
Le incomprensioni riguardano sia la Rete sia la cosiddetta realtà. La gente non ci capisce perché è nervosa, ha troppi fuochi accesi, nessuno può essere esaminato con attenzione benevola. Ognuno di noi è condannato per direttissima o rinviato a giudizio. Nessuno è disposto a giurare sulla nostra innocenza, nemmeno la persona che ci ama.
L'età dell'incomprensione produce depressioni e malattie fisiche. [...] Negli ospedali c'è il reparto per i cardiopatici, non c'è il reparto per gli incompresi. 
Sarebbe ora di istituire una sorta di pronto soccorso psicologico in cui poter andare e dire: nessuno mi capisce, provate a farlo voi. 
Tutte le discussioni che facciamo sull'emergenza climatica e su altri disastri provocati dall'uomo sono destinate a rimanere senza risposta se non ci occupiamo dello stato delle anime. 
Primo punto: le persone hanno il diritto di essere almeno vagamente capite per quelle che sono. Sembra facile e invece non accade quasi mai. 
Anche nelle scuole bisognerebbe occuparsi di questo problema: l'ora di religione non riscuote molto interesse, ci vorrebbe un tempo in cui sin da bambini si facciano esercizi per capire ed essere capiti.
Non si tratta di accrescere i nostri saperi, ma la nostra comprensione ed empatia.
Gli altri non sono morti e invece noi ci comportiamo come se questo fosse già accaduto, già assodato.

Le parole di Franco Arminio sono, come sempre, balsamo e sale sulle ferite.
Rifletto seriamente sul presente e sul futuro, su quello che vorrei fare e vorrei essere e su quello che sono e faccio.
Ultimamente ho la sensazione di infilare azioni e parole sbagliate come perline in un braccialetto, con metodo e concentrazione, e di errare - nella duplice accezione di sbagliare e di vagare - senza un fine e senza una fine. 
Mi sembra di non saper fare anche quello che fino a ieri mi riusciva e di non avere più certezze su quello che avevo conquistato con fatica.
Accolgo lacrime ma penso di non avere gli strumenti per farlo e ripenso, sempre più convinto, alla necessità di un fronte comune per la difesa della parlarsi di persona: stiamo perdendo l'abitudine di guardarci negli occhi, preferendo sempre di più la via facile della comunicazione a distanza, anche con le persone a cui vogliamo bene. Ci schermiamo, sentiamo sempre di aver bisogno di protezione e non capiamo che lo spazio vuoto che noi creiamo e che ci fa sentire sicuri diventa spesso una voragine, impossibile da attraversare. 
Infine arriva la razionalità che mi dà una pacca sulla spalla e mi dice che è tutto a posto, che è tutto risolvibile, che sono tante piccole cose che si possono mettere a posto: non sempre ci credo, ma annuisco.

Niccolò Fabi, Offeso

03 novembre 2024

L'amuleto

Di moltissimi momenti della mia infanzia e della mia adolescenza non conservo alcuna traccia. 
Uno, però, si è affacciato l'altro giorno, prepotente e immotivato. alla mia mente: sto ancora cercando di capire il perché ma credo che lascerò perdere, perché è bello lasciarlo galleggiare così.

C'era un'aria fredda, quel giorno. Solo qualche anno dopo avrei scoperto che il freddo della mia Puglia non era freddo, ma a 15 anni non potevo saperlo.
Due colori: il grigio e il blu. 
Il grigio chiaro e il grigio scuro di una camicia che avevo ereditato da mio fratello: una camicia che ricordo di una bruttezza imbarazzante ma che indossavo con molto orgoglio perché mi faceva sentire grande.
Il blu scuro del vocabolario di greco, il famigerato Rocci: pesava, a portarlo in mano, forse ancora di più che mettendolo nello zaino. Ma mostrarlo al mondo era un segno di riconoscimento, era l'attestazione del fatto che frequentavi il classico e che quel giorno avresti avuto la versione: come a dire "ho una pistola e non ho paura di usarla".

In realtà, quel giorno di paura ne avevo e anche parecchia.
Sarà che i miei occhi insicuri andavano poco d'accordo con i caratteri minuscoli di quel vocabolario.
Sarà che avevo - ed ho ancora - una tendenza alla cialtroneria che prima o poi arriva sempre a chiedermi il conto.
Sarà che non ho mai avuto - e non ho ancora - consapevolezza di ciò che posso fare.
Sta di fatto che ero meno tranquillo del solito.

Ricordo ancora il gesto di mia madre che mi passa, quasi di nascosto, una piccola fodera di plastica trasparente, di quelle che servivano per proteggere la carta di identità, al cui interno era conservato un foglietto a quadretti un po' ingiallito. 
Questo è un amuleto - c'era scritto - non aprirlo se non vuoi che perda il suo potere.

Non ho assolutamente memoria di come sia andato quel compito, ma ricordo distintamente la sensazione di potere con cui sono uscito di casa.
Ho conservato quel foglietto religiosamente chiuso in un cassetto per mesi, temendo che davvero potesse perdere il suo potere se ne avessi letto il contenuto.

Poi un giorno non ce l'ho fatta e la curiosità ha avuto la meglio.

L'ho estratto dalla sua custodia, l'ho aperto con delicatezza e l'ho letto. 
Gli occhi, alla lettura di quelle parole, scritte con la grafia ampia e talvolta spigolosa di mia madre, mi si sono inumiditi. 
Con gli anni ho scoperto un'altra cosa: lo svelamento non ha fatto perdere all'amuleto il suo potere, ma, anzi, lo ha reso ancora più forte. Mi si affaccia alla memoria quella scritta e mi accarezza, ora come allora.

I genitori sono la mano, forte e accogliente talvolta, insicura e ruvida altre volte, su cui si poggiano farfalle.
Basta poco a danneggiarne le ali: un gesto avventato, anche involontario, un gesto di stizza, le dita che si stringono sul palmo in un breve accesso di rabbia.
Basta poco, un gesto di attenzione, uno sguardo amorevole, una carezza appena accennata, a far sì che la farfalla possa volare sicura, allontanarsi dalla mano ma senza dimenticarla mai.

Jacques Brel, Ne me quitte pas

27 ottobre 2024

I migliori anni della nostra vita?

Avrei dovuto fare una statistica fin da quando, vent'anni fa, ho messo piede in un'aula dirigendomi per la prima volta verso la cattedra e non verso i banchi.
Fare un segno su un foglio per ogni volta che in un tema scritto da un adolescente ho letto la frase "Quelli che sto vivendo sono gli anni migliori della mia vita".
Quest'unico foglio si sarebbe moltiplicato per dieci, cento, mille: ne sarei sommerso.
Eppure questa è una frase senza senso e aberrante:  l'altro giorno ho provato a farlo notare a una mia studentessa che, per tutta risposta. mi ha guardato con gli occhi sgranati come se stessi ballando la Salsa in mutande nel corridoio della scuola.
Qualcosa mi ha fatto percepire che non l'ho convinta.

Proviamo a ragionarci a mente fredda.
Posso dire che un cibo è migliore di un altro solo dopo averli assaggiati entrambi; posso dire che una città è più bella di un'altra solo dopo averle visitate entrambe.
Penso che sia davvero deleterio, nel momento in cui si sta vivendo una qualunque esperienza, pensare che non ce ne possa essere una migliore nella propria vita: è come segnare un limite - inesistente - oltre il quale non si potrà più andare.
Se poi - come spesso accade - sono i genitori ad inculcare questa idea nei figli, credo che il danno sia ancora più grande.
Se poi questo ci viene detto in un momento traumatico come l'adolescenza, tutto peggiora ulteriormente. 

Non so voi, ma io ho un ricordo terribile del periodo tra gli 11 e i 16 anni: mi sentivo brutto, ero emarginato, evitavo contatti con i miei coetanei (e a ragione, dato che da loro ricevevo offese e poco altro) eppure dentro di me percepivo una grande voglia di vivere, di essere, di esistere, che, però, era destinata a rimanere inespressa. 
Se mamma e papà mi avessero detto: "Goditi questi anni perché saranno i migliori della tua vita" credo che li avrei guardati esattamente come mi ha guardato l'altro giorno la mia alunna.

Sì, è vero, sono gli anni in cui non si ha la preoccupazione del lavoro; ma noi non più adolescenti siamo davvero sicuri che lo studio, la scuola siano, per le ragazze e i ragazzi, fonte di minore angoscia di quanto non lo sia per gli adulti la propria occupazione?
Davvero pensiamo che sentire di avere le ali e non saperle o poterle usare sia meno frustante di percepire che le proprie ali non sono più forti come un tempo?
È più angosciante l'idea della bolletta da pagare o provare turbamenti o vere e proprie sofferenze, parlarne con altri e sentirsi dire semplicemente passerà come se davvero il tempo curasse le ferite e non si limitasse a ricoprirle di polvere fino a che non le vediamo più?

Nella retorica degli anni migliori, tutta questa sofferenza adolescenziale che credo chiunque di noi provi o abbia provato si troverebbe a coincidere - in maniera palesemente stridente - con l'idea secondo cui quella che si sta vivendo in quel momento è la primavera della vita, preparazione all'estate - il momento del massimo godimento - seguita poi inevitabilmente dall'autunno - la vecchiaia - e la morte, l'inverno.
Solo che, come ci insegna il poeta latino Orazio, gli uomini  - a differenza della natura - non rinascono dopo l'inverno ma sono destinati ad essere pulvis et umbra, polvere ed ombra (la bellissima ode IV, 7 si può leggere qui e vi consiglio di farlo, qualora non la conosciate).

Trovo questa una visione della vita piuttosto disperante, ma si può provare a cambiare punto di vista. 
Gli anni della adolescenza non sono i migliori ma sono quelli in cui tutte le possibilità sono aperte e durante i quali si può provare a disporre a proprio piacimento i pezzi sulla scacchiera o almeno avere l'illusione di poterlo fare.
Ho un'altra convinzione.
Si può continuare a crescere e a fiorire sempre, anche in momenti in cui apparentemente tutto tace, sembra senza speranza e destinato irrimediabilmente alla fine: grazie a questo suo potere, l'uomo può addirittura elevarsi al di sopra della natura e quasi ridersene perché, così facendo, non è il tempo a dettare i cicli della sua vita ma è l'uomo stesso a riportare le lancette sullo zero e a far ripartire il cronometro ogni volta che vuole. Se lo vuole.

Franco Battiato, Quand'ero giovane


Di liceo classico e brain rot

Dicembre, andiamo! È tempo di orientare. Il buon Gabry (D'annunzio) non mi maledirà se uso il verso di una sua poesia che avevo studiato...