27 aprile 2025

È stato un caso

"È stato un caso".
Quante volte abbiamo pronunciato questa frase?
Lo facciamo per deresponsabilizzarci: non è colpa mia, è stato il caso.
Per dare una spiegazione a eventi, incontri, situazioni - piacevoli o spiacevoli che siano - a cui sentiamo di dover dare una spiegazione che non riusciamo a trovare.
Lo facciamo per spiegare ciò che va al di là del nostro libero arbitrio.
Che poi, a pensarci bene, mi sto convincendo che noi, di libero arbitrio, ne abbiamo davvero pochino: non più di quanto ne avesse la Gertrude manzoniana il cui padre, dandole l'illusione di avere una possibilità di scelta, le lasciava scegliere il giorno in cui diventare monaca per sempre, senza interrogarsi sulle sue reali volontà.
Come lei, ci illudiamo di scegliere la direzione da dare alla nostra vita, ma il nostro potere di intervento è su cose minuscole.
L'etimologia - in questo - sembrerebbe darmi ragione.
"Caso", esattamente come "fato", sono due participi perfetti e ciò che è perfetto è concluso ed immodificabile.
Fato è ciò che è stato detto, stabilito; caso è ciò che è caduto dall'alto in basso.
E quando una cosa cade, certo, possiamo raccoglierla ma ormai è caduta.

Penso, però, alle persone che incrociamo per caso nel nostro cammino, ai libri che leggiamo e che non erano nella nostra lista, alle esperienze che viviamo e che ci toccano nel profondo.
Ogni volta che impieghiamo il tempo nel fare qualcosa.
Ogni volta che i nostri occhi restano impigliati negli occhi di qualcun altro.
Ogni volta che ascoltiamo, parliamo, andiamo.
Ogni volta stiamo imboccando una strada e, spesso inconsapevolmente, stiamo escludendo tutte le altre.
Sarebbero state più fruttuose? Più facili? Più dolorose?
Non lo sapremo mai. Per quanto possiamo chiedercelo, per quanto possiamo realisticamente immaginarci gli infiniti altri futuri possibili non potremo mai avere certezza di come sarebbero andate le cose se.

Ero perso in questi pensieri, quando sono andato a cercare conforto tra i libri e sono andato da uno dei miei punti di riferimento, Wislawa Szymborska, che sul caso scrive queste parole:

Poteva accadere.
Doveva accadere.
È accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
È accaduto non a te.

Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.

Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.

In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo
da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall’animo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì? Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.

Abbiamo sempre bisogno di darci una spiegazione razionale.
L'unico atteggiamento razionale è capire che questa spiegazione non sempre c'è.
Rileggo gli ultimi due versi della poesia, chiudo gli occhi e me li godo. In silenzio.

Franco126, Futuri possibili

13 aprile 2025

Strumenti di distruzione di massa: il ricevimento genitori.

L'ansia da prenotazione: "Sei riuscito a trovare posto? Guarda che se non fai presto non trovi più disponibilità"
L'impossibilità di trovare parcheggio.
Sapere dove andare leggendo dei tabelloni all'ingresso.
Vagare per corridoi affollati fino a trovare la porta giusta.
Attendere per un tempo pressoché infinito che arrivi il proprio momento.
No, non sto parlando di una partenza in aereo per le prossime vacanze ma di un momento che da docente temo quasi quanto un "poi passa nel mio ufficio?" della mia dirigente.
Il ricevimento dei genitori, che 'ntender no lo può chi no lo prova.

Guardo sconsolato le mie colleghe e i miei colleghi mentre saliamo insieme per le scale che ci portano alle aule a noi riservate: abbiamo lo stesso entusiasmo degli studenti che devono affrontare un compito di matematica alla prima ora del lunedì. E hanno passato la domenica a piangere perché non capiscono niente di numeri e di lettere messe a caso (ogni riferimento a fatti o persone - me, nello specifico - è puramente intenzionale)
Ci concediamo l'ultimo momento di disperazione prima di sfoggiare i nostri sorrisi migliori e tirare fuori il nostro campionario, fatto di:
- è intelligente. ma non si applica;
stringiamo i denti perché mancano ancora un po' di valutazioni;
- d'altra parte è così (quando vuoi chiudere la conversazione perché senti che fuori dalla porta sta iniziando una contestazione per il colloquio che si allunga troppo e intravedi genitori che stanno per indossare un passamontagna nero da black bloc con l'intenzione di spaccare le vetrine in cui ci sono esperimenti di scienze che credo nessuno abbia mai toccato.

Un po' di esperienza sul campo mi ha insegnato a riconoscere le tipologie di genitori più frequenti, che si possono categorizzare in questo modo:

- a casa la sapeva: un classico, come Via col vento o il trenino la notte di Capodanno. Il genitore è pronto a giurare sul fatto che lui stesso con le sue orecchie ha sentito la lezione al figlio e - a suo parere - era preparatissimo. Inutile spiegare che magari se fai tutt'altro lavoro non hai le competenze per valutare se il tuo pargolo è pronto o no per l'interrogazione e non sei diverso dall'umarell che guarda il cantiere affermando con una certa sicumera che lui il lavoro lo avrebbe fatto meglio. C'è una variante interessante che è mio figlio passa tutto il giorno in camera a studiare. Soprattutto quando si tratta di adolescenti in pieno tripudio ormonale, mi è necessario tutto il tatto del caso per spiegare che no, signora, se la porta è chiusa forse il bambino non sta studiando ma sta cercando nuovi modi per far esultare il proprio corpo. 

- premio Montessori: tratto da una storia vera/1.
io: "eh, signora, suo figlio ogni tanto avrebbe bisogno di una scossa". 
lei: "Lo picchi pure"
io: "Ma non posso"
lei: "Non si preoccupi, non la denuncio" 

- fammi i complimenti: lo riconosci subito. Si siede di fronte a te con un sorriso di plastica, solitamente sul bordo della sedia per permettere alla ruota del pavone di aprirsi completamente e mostrarsi in tutto il suo splendore. La cosa più imbarazzante è che ti guarda in silenzio, attendendo che tu inizi a parlare bene della figlia o del figlio e potresti andare avanti all'infinito: lui ha lo sguardo placido e la mancanza di fretta di chi sta facendo il pieno di benzina e aspetta di sentire il piccolo clic che ti avvisa che il serbatoio è pieno. Quando ormai sei allo stremo e hai già detto che il pargolo parla bene, scrive bene, studia, è corretto con i compagni, ha doti di santone, di guaritore e probabilmente riuscirà a riportare la Gioconda in Italia, il genitore, appagato da ciò che ha sentito, è pronto a librarsi verso gli altri docenti e a gonfiare ancora un po' il proprio ego.

- chiamami Maria: tratto da una storia vera/2
Era il 2005. Ero un giovane prof di belle speranze ed insegnavo in una scuola che si trovava in un paese sul mare (sospiro).
io: "Buonasera signora! Allora, cosa dire di sua figlia? È molto brava..."
lei (con fare sottilmente ammiccante): "Macché signora! Chiamami Maria"
Credo di aver sperimentato sul mio viso tutte le cinquanta sfumature di rosso.
No, alla fine non l'ho chiamata Maria.
Ovviamente, questo non succede più: al massimo ora dicono "Chiamo i carabinieri".

- avrei bisogno di uno psicologo (ma tu sei gratis)
io: "Allora, signora. Parliamo di suo figlio"
genitore: "Ah, non sa che situazione c'è in casa". E parte una disamina accuratissima - a cui per essere completa manca solo l'esposizione dell'albero genealogico -  sui parenti fino al quinto grado per poi passare a una descrizione delle dinamiche familiari, dei rapporti tra genitori e figli, tra genitore e genitore e anche tra genitore (solitamente l'altro) e amante.
Dopo aver dipinto una situazione rispetto alla quale la famiglia protagonista di Shameless è perfettamente funzionale, arriva la domanda: "Ma secondo lei il bambino va male in latino perché risente di tutto questo?"
No, signora: il bambino va male in latino perché non studia.

- garante della privacy: sono, solitamente, madri che ti parlano del ciclo della figlia o dello sviluppo ancora non avvenuto del figlio, che ti raccontano ogni episodio della loro vita, che tu avresti voluto continuare ad ignorare per vivere sereno. Quando il giorno dopo li vedi in classe, non hai il coraggio di guardarli in faccia per paura di scoppiare a ridere perché conosci alcuni segreti che pensavano sarebbero morti con loro nella tomba.

Alla fine delle ore di ricevimento, camminiamo come zombie per i corridoi, privati delle nostre energie; ci guardiamo senza vederci, aspettando solo di aprire la macchina, richiudere la portiera e cercare di elaborare questa esperienza antropologica estrema, chiedendoci se ciò che abbiamo vissuto sia stata realtà o fantasia.


  

06 aprile 2025

Elogio dell'imprecisione

Finalmente riesco a capire quale impatto possa aver avuto l'invenzione del fuoco sull'uomo preistorico.
Me li immagino, le donne e gli uomini dei tempi, che con il loro linguaggio primordiale si comunicano le esperienze vissute, si confrontano sui pericoli e iniziano a interrogarsi sulla grande novità che sentono sconvolgerà le proprie vite.
Come potremo gestire il fuoco? Ci aiuterà o ci danneggerà? E se qualcuno ne usasse la forza distruttrice contro di noi, come faremo a difenderci?
Ho sostituito alla parola "fuoco" la parola "intelligenza artificiale" ed ho avuto l'illuminazione.
La svolta è, indubbiamente, epocale e noi - nonostante i corsi di formazione, le rassicurazioni, l'ostentata indifferenza da parte di alcuni e la paura incontrollabile da parte di altri - non siamo pronti perché, sostanzialmente, come gli antichi credevano che il fuoco fosse una prerogativa degli dei e che un eroe - Prometeo - fosse andato a rubarlo loro per donarlo agli uomini, allo stesso modo crediamo che dietro l'IA ci sia qualcosa di divino a cui è impossibile opporsi.
Ma un rimedio c'è, ed è l'imprecisione.

Preciso, etimologicamente, vuol dire privato di tutto ciò che è superfluo.
Preciso è, quindi, qualcosa dai confini netti, dai margini invalicabili che distinguono nettamente ciò che è da ciò che non è.
Il chimico cerca spesso la precisione perché cambiare le proporzioni tra gli elementi che maneggia può significare far fallire un esperimento.
Tutti noi, io per primo, cerchiamo spesso la precisione perché probabilmente ricomponiamo - o cerchiamo di ricomporre -  i nostri profondi conflitti interiori curando maniacalmente i particolari esteriori: compensiamo con l'ordine esterno il disordine interno.

Ma l'imprecisione è ciò che ci rende umani: ciò che è troppo preciso nasconde un artificio, un intervento ragionato. Definire tutto ciò che facciamo e ciò che siamo in modo netto è qualcosa che costa fatica, che spesso non ripaga e che richiederebbe - volendo essere onesti - una continua revisione e ridefinizione.
Io sono questo
No, tu oggi sei questo perché qui ti hanno portato le esperienze che hai vissuto, gli incontri che hai fatto, le occasioni che hai sprecato, le strade che hai scelto di percorrere quando ti sei trovato di fronte ad un bivio.
Domani cosa sarai? 
Non si può dire con certezza perché il futuro pone sfide talvolta inimmaginabili in cui sei costretto a rivederti, a ripensarti, a ridefinirti anche in maniera totalmente inaspettata.

La precisione nella definizione di sé è, quindi, una scelta sbagliata da un punto di vista evolutivo: se ci specializziamo, ovvero se ci diamo dei confini precisi, siamo destinati a soccombere perché non in grado di adattarci ai cambiamenti. Come diceva Italo Svevo nel suo saggio L'uomo e la teoria darwiniana solo chi non è ben definito ed è aperto al cambiamento, l'abbozzo di uomo, è destinato a sopravvivere.

E in ambito scolastico?

Quando una studentessa o uno studente mi presenta un lavoro senza sbavature mi insospettisco; quando li vedo ossessionati dalla pulizia del foglio che non deve avere cancellature o pieghe mi pongo una domanda: è davvero questo ciò che insegna - o deve insegnare - la scuola?
Mi vengono in mente queste parole di Italo Calvino:

«Il diavolo oggi è l'approssimativo. Per diavolo intendo la negatività senza riscatto, da cui non può venir nessun bene. Nei discorsi approssimativi, nelle genericità, nell'imprecisione di pensiero e di linguaggio, specie se accompagnati da sicumera e petulanza, possiamo riconoscere il diavolo come nemico della chiarezza, sia interiore sia nei rapporti con gli altri, il diavolo come personificazione della mistificazione e dell'automistificazione. [...] Riuscire a definire i propri dubbi è molto più concreto che qualsiasi affermazione perentoria le cui fondamenta si basano sul vuoto, sulla ripetizione di parole il cui significato si è logorato per il troppo uso.»

Essere imprecisi, però, non vuol dire per forza essere approssimativi.

Chiaramente, non si può e non si deve dare spazio all'idea - già diffusa a tutti i livelli della società - che, ad esempio, le parole non hanno un peso e che, quindi, usarne una o un'altra è indifferente; non va normalizzata la faciloneria con cui vengono spesso liquidate le questioni importanti; non va difesa l'idea per cui è sufficiente dare l'idea agli altri di essere in possesso di conoscenze per essere considerato uno che sa.

La precisione e la chiarezza di pensiero sono fondamentali; l'approssimazione è, invece, cialtroneria, è mostrarsi in grado di saper fare qualcosa che non si sa fare. È copiare gli esercizi dal compagno di banco per mostrare di aver fatto i compiti a casa, è cercare di gettare fumo negli occhi altrui, confondere le acque per ritrovarsi, però, con un pugno di mosche.
L'imprecisione di cui parlo è qualcosa si può profondo: è l'ammissione dei propri limiti, è la volontà di non cercare la perfezione a tutti i costi, è la rinuncia all'ossessione per la forma.
È qualcosa, come dicevo, di profondamente umano e questo non può essere replicato da nessuna intelligenza artificiale che, invece, com'è giusto che sia, punta alla precisione estrema, che umana non è.

E allora preserviamola questa imprecisione, accettiamo il fatto che i bordi non sono sempre netti e che ciò che divide il sé e l'altro da sé, il giusto e lo sbagliato, il positivo e il negativo è un confine che può e deve essere spesso valicato. È lo stesso Calvino ad insegnarci - nel suo romanzo Il visconte dimezzato - che un uomo è completo solo quando conserva in sé il lato buono e il lato cattivo e che la loro netta separazione, causata da un colpo di cannone che colpisce il visconte Medardo, non porta l'uomo da nessuna parte.

Nella sua raccolta Nature e venature, Valerio Magrelli inserisce questi versi

Amo i gesti imprecisi,
uno che inciampa, l’altro
che fa urtare il bicchiere,
quello che non ricorda,
chi è distratto, la sentinella
che non sa arrestare il battito
breve delle palpebre,
mi stanno a cuore
perché vedo in loro il tremore,
il tintinnio familiare
del meccanismo rotto.
L’oggetto intatto tace, non ha voce
ma solo movimento. Qui invece
ha ceduto il congegno,
il gioco delle parti,
un pezzo si separa,
si annuncia.
Dentro qualcosa balla.

E lasciamo che quel qualcosa balli.

Calcutta, Tutti

30 marzo 2025

Piccolo spazio pubblicità (sottotitolo: ogni tanto i sogni si avverano)

"Discomaster della settimana. Discomaster, Discomaster"
Mi risuona ancora nelle orecchie il jingle sparato a tutto volume nelle cuffie.
1998: per me, giovane studente in lettere classiche, si aprono le porte di una radio locale.
Inizio leggendo le previsioni del tempo rubate da qualche giornale, passo poi a declamare con aria ispirata l'oroscopo (su cui facevo una disperata operazione di taglia e cuci dato che avevo a disposizione solo degli oroscopi giornalieri che improvvisamente dovevano diventare settimanali) fino a quando non faccio il grande salto: tutti giorni in diretta, dalle 18 alle 20, insieme a Loris a dire cose.
Letteralmente a dire cose perché non ci si preparava niente, leggevamo le notizie dal Televideo o dalle riviste di gossip, fornivamo informazioni di traffico assolutamente non in tempo reale e nell'angolo intitolato "Le canzoni da dimenticare" - di cui sono l'orgoglioso inventore - davamo spazio a canzoni come "Skizzo skizzo" di Jo Squillo.
In tutto questo, nelle pause musicali, ricordo ancora che cercavo di preparare il temutissimo esame di Letteratura greca 1 con l'intero primo libro delle "Storie" di Erodoto da tradurre. Chi ci è passato sa di cosa sto parlando.
Poi, finita quella stagione, il nulla.
Ho preso una strada diversa, ho studiato, mi sono laureato, specializzato, ho iniziato ad insegnare.
Ma quel sogno è rimasto lì: come un bacio dato alla persona di cui sei innamorato e che non sai se rivedrai ancora - ma in fondo ci speri sempre ed è quella speranza a tenerti vivo.
E poi.

E poi capita che un giorno, in maniera totalmente inattesa, scopri che qualcuno legge il tuo blog, lo apprezza e te lo dice (cosa rara, perché solitamente per calcolo o per pudore non si è mai propensi a mostrare apertamente la propria approvazione per gli altri) e vorrebbe coinvolgerti in un progetto radiofonico.

La radio, il mio grande amore messo da parte perché nella vita ad un certo punto senti di dover scegliere una strada e mantenerti coerente.
La radio, quella che spesso mi trovo a simulare in macchina quando, ascoltando canzoni improponibili a volumi altrettanto improponibili, annuncio e disannuncio pezzi con la voce impostata da speaker anni '80, tipo Claudio Cecchetto.
La radio, lo strumento di comunicazione che prediligo perché in un mondo di immagini dà spazio alla parola.

Sono confuso? Sì. Sono felice? Sì.
Me la sto facendo sotto? Assolutamente sì, soprattutto perché, per continuare la similitudine di prima, è come se avessi ritrovato la persona di cui sono innamorato - e che non speravo di ritrovare, persa in mezzo a milioni di altre persone - e avessi scoperto che l'amore è sempre lì, nonostante il tempo e le difficoltà.

Ma ora, giustamente, il temerario che è arrivato a leggere fino a questo punto, potrebbe chiedersi cosa vado a fare lì. E chi sono io per non premiarlo per questo sacrificio?
Chi mi conosce lo sa: tra le grandi passioni della mia vita ci sono le lingue ugrofinniche, la cucina in lavastoviglie e il lifestyle.
Bocciati i primi due argomenti perché è difficile trovare un finlandese a Firenze e perché mi hanno spiegato che i programmi di cucina in radio funzionano poco, non è rimasto che il terzo, di cui sono il massimo esperto riconosciuto nell'ascensore di casa (e a casa non ho un ascensore).

Cialtronate a parte, Controradio - una bella e consolidata realtà fiorentina - ospiterà me che, insieme a due persone che la radio sanno farla, ovvero Viola e Pierluigi, parlerò di moda e di lifestyle ovviamente a modo mio, cercando connessioni con musica, cinema, arte, letteratura, in pratica con ciò di cui cerco di nutrirmi ogni giorno, al netto dei veleni della vita quotidiana.
Venti minuti, dalle 15.35, una volta a settimana a partire dal 10 aprile e ogni giovedì fino a metà luglio (se non schianto prima).
Se siete a Firenze o in Toscana, sapete come ascoltare questa radio. 
Se siete fuori dal Granducato (e questo mi crea dispiacere per voi), potete ascoltare la radio in diretta streaming cliccando qui.
Se giustamente alle 15.35 di giovedì pomeriggio lavorate (ah, questa plebe che non riesce a vivere senza lavorare), ci sarà anche il podcast che vi raggiungerà in ogni dove, anche quando non lo vorrete.

Paura, dicevo prima, ma anche tanta gratitudine: per chi ha creduto in me, per chi mi sta permettendo di fare questa esperienza, per le pochissime persone con cui ho condiviso già da tempo questo segreto - così bello che solo a parlarne sembrava di rovinarlo - e per voi che tutte le settimane leggete queste righe, facendomi sentire meno solo nei miei deliri.

Mi impegnerò a fare del mio meglio e, se vi annoierò, credete che non s'è fatto apposta (cit.)

The Cranberries, Dreams



23 marzo 2025

Quanto vale l'ira

Non posso farci niente.
La visione che le studentesse e gli studenti hanno di me cambia sensibilmente in base alla materia che sto spiegando in quel momento: quando parliamo di letteratura, mi vedono carino e coccoloso come Winnie the Pooh; quando si fa latino o grammatica italiana credo che, nella loro testa, il mio ingresso in aula sia accompagnato dalla colonna sonora del film "Lo squalo".
Temutissima verifica di analisi del periodo, l'altro giorno: sto consegnando i fogli e mi sembra di essere in chiesa visto che c'è chi si fa il segno della croce, chi prega e chi, mentre passo tra i banchi, cerca di darmi un'offerta.
Arrivo al suo banco: mi accorgo che sul suo foglio protocollo (cioè, sul foglio strappato dal centro del quaderno che fingiamo sia protocollo) ha segnato in matita una serie di informazioni che avrebbe dovuto conoscere.
Mi guarda. La guardo. 
A quel punto mi sono trovato davanti ad un bivio: do il via ad una scena madre sulla correttezza, la fiducia e blablabla oppure le tolgo il foglio senza dire una parola.
L'istinto mi avrebbe suggerito di seguire la prima via, la ragione la seconda.
Ho seguito la seconda, non lasciando spazio all'ira.

Mi sono tornate in mente le parole del mio saggio di riferimento, ovvero Seneca a cui era capitato di avere a che fare con gente che tendeva a farsi prendere un tantino da questo sentimento (per non dire pazzi furiosi). Due nomi su tutti: Caligola e Nerone.

Scrive Seneca:

Alcuni saggi definiscono l'ira "un momento di pazzia": come quella, infatti, è incapace di controllarsi, incurante delle convenienze, insensibile ai rapporti sociali, cocciuta ed ostinata nelle sue iniziative, preclusa alla ragione ed alla riflessione, pronta a scattare per motivi inconsistenti, inetta a distinguere il giusto e il vero, quanto mai somigliante a quelle macerie che si frantumano sopra ciò che hanno travolto.

Nessun vizio, continua il filosofo, è più detestabile o schifoso di questo che - a differenza degli altri - non può essere nascosto ma si manifesta nel viso e negli atti di chi lo prova.

Nessuna calamità è costata più cara al genere umano. Vedrai uccisioni ed avvelenamenti, reciproche infamie di colpevoli, distruzioni di città e stragi di intere popolazioni, vite di capi di Stato messe in vendita all'asta pubblica, fiaccole gettate nelle case, incendi non limitati alla cerchia delle mura, ma immense distese di territorio, rilucenti di fiaccole nemiche.

Sbaglia chi confonde l'ira con lo slancio e la decisione così come sbaglia chi pensa che l'ira possa essere controllata: questo sentimento, infatti, non accetta regole e non può - proprio per sua natura - essere sottoposto alla ragione, perché - dice Seneca - la sua caratteristica è la ribellione.
Oltretutto, una volta che si è impossessata del nostro corpo, è quasi impossibile sottrarvisi: l'ira ci pervade, ci comanda e ci spinge a commettere atti inumani.
Cosa fare allora?

Combatti tu contro te stesso; se vuoi vincere l'ira, essa non può vincere te. Cominci a vincere quando rimane nascosta, quando non le dai sfogo. Seppelliamone i segni e, per quanto possibile, teniamola occulta, segreta. Ciò comporterà per noi grave molestia, perché essa desidera balzare fuori, accenderci gli occhi e mutarci il volto, ma se le permettiamo di uscire da noi, diventa più forte di noi. Nascondiamola nel più profondo recesso del petto e portiamola con noi, non lasciamoci portare. Anzi volgiamo al contrario tutti i suoi indizi: il volto sia disteso, la voce si faccia più blanda, il passo più lento; l'interno, a poco a poco, si plasma sull'esterno.

Tutto ciò sembra inapplicabile in un mondo in cui - in maniera quasi animalesca - vige la legge del più forte, vince chi fa la voce più grossa, in cui la mitezza e la gentilezza sono oggetto di stupore e considerati spesso segni di debolezza.
Eppure basterebbe leggere - ancora una volta e sempre - Dante e le sue parole rivolte agli iracondi per capire quanto questo vizio ci renda inumani.
Queste anime sono immerse nello Stige, una palude infernale e così ci vengon descritte

vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte con sembiante offeso.

Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co' denti a brano a brano.

Si picchiano, questi peccatori: colpiscono sé stessi e gli altri con tutti i mezzi che hanno a disposizione.
Fra questi emerge una figura, quella di Filippo Argenti, che provoca Dante (che con lui - forse - aveva un conto in sospeso nella vita reale) e che addirittura vorrebbe salire sulla barca che sta trasportando il poeta e la sua guida Virgilio attraverso la palude verso la città di Dite.
La guida lo caccia malamente e rassicura Dante che vorrebbe vederlo punito dalle altre anime.

Dopo ciò poco vid'io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

Tutti gridavano: "A Filippo Argenti!";
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si voleva co' denti.

Dante, quindi, risponde all'ira con altrettanta ira e questo passaggio mi stupisce ogni volta perché ci mostra un lato più umano di Dante, che in qualche modo è vittima degli stessi peccati che lui sta additando e condannando. 
Proprio come Seneca, il poeta sa di non essere esattamente il modello perfetto da seguire: la perfezione è come l'orizzonte, qualcosa a cui tendere costantemente senza avere la certezza di poterlo raggiungere.

Pensare di riuscire a controllare l'ira è - realisticamente - inutile.
Essere consapevoli di poterlo fare è un'altra cosa.
Riuscire a farlo, anche solo una volta, dà una grande soddisfazione.

Ho cancellato ciò che la studentessa aveva scritto sul foglio e gliel'ho reso.
Al suono della campanella, è venuta alla cattedra.
Mi ha guardato. L'ho guardata.
"Mi scusi" mi ha sussurrato a mezza voce.
Ho sorriso.

Caparezza, Argenti vive
 

16 marzo 2025

Andare via lontano

Ci sono due cose in cui credo profondamente: alla capacità della letteratura di parlare a chi la legge cercando di non fermarsi alla superficie e alla bellezza di cogliere richiami tra testi di autori distanti tra loro per trovare quanto di umano c'è in essi.
Alessandro e Luigi: il primo nato a Milano nel 1785, il secondo a Cassine, in Piemonte nel 1937.
Manzoni e Tenco: uno scrittore e un poeta che raccontano cosa voglia dire andar via dalla propria casa.

Ottavo capitolo dei Promessi Sposi.
Renzo e Lucia hanno tentato in tutti i modi di sposarsi ugualmente: hanno provato a ricorrere alla legge, a far ragionare - tramite Fra Cristoforo - chi si opponeva al matrimonio, hanno tentato anche di percorrere una via meno giusta moralmente, quella del matrimonio lampo.
Ogni tentativo è andato male per cui non resta altra scelta che separarsi, prendere strade diverse per aspettare che tutto passi, confidando nel fatto che prima o poi si potrà tornare insieme.
La scena si svolge sulla riva del lago di Como, di notte. Lucia, salita sulla barca che la separerà da ogni suo affetto, poggia la testa sul braccio, piange e pensa:

Addio, monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto de' suoi più familiari; torrenti, de' quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d'essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso.
Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell'ampiezza uniforme; l'aria gli par gravosa e morta; s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a' suoi monti. 

I monti, i torrenti, le case tra cui ha vissuto per anni, che hanno fatto da sfondo agli anni della sua infanzia, si allontanano lentamente ma inesorabilmente per essere sostituiti dall'ampiezza uniforme della pianura in cui nasce la città. Manca il respiro a chi vede che agli elementi consueti si sostituiscono strade che sboccano nelle strade, a case aggiunte a case: il caos metropolitano fa nascere forte il desiderio  - in chi si è allontanato volontariamente - di ritornare in paese, ricco, e acquistare quella casa, quel campo che desiderava da tempo.
La prospettiva del ritorno rende tutto più sopportabile.

Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire, e n'è sbalzato lontano, da una forza perversa!
Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que' monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l'immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere dal rumore de' passi comuni il rumore d'un passo aspettato con un misterioso timore.
Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l'animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov'era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.

Tutto questo non vale per chi è stato strappato alla propria terra, alla propria casa natia: chi non desiderava altro che la tranquillità è turbato dall'andare incontro a sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, non sapendo neppure se e quando tornerà. La propria casa, la casa in cui avrebbe vissuto  dopo il matrimonio, la chiesa in cui si sarebbe dovuto celebrare il rito diventano luoghi della memoria e della nostalgia, a cui tornare solo con la speranza di chi crede che Dio abbia un piano per ognuno degli uomini e che il bravo cristiano non possa far altro che accettare ciò che è stato stabilito per lui.

Siamo ora nel 1967.
 
La solita strada
bianca come il sale. 
Il grano da crescere
i campi da arare. 
Guardare ogni giorno
se piove o c'è il sole
per saper se domani
si vive o si muore
E un bel giorno dire basta e andare via
Ciao amore, ciao amore
Ciao amore, ciao
Ciao amore, ciao amore
Ciao amore, ciao 

Gli anni sono diversi, ma la situazione è simile: è un allontanamento, questa volta volontario, dalla solita strada di campagna, dalla vita contadina che è regolata dalla natura. 
Posso solo immaginare quanto profondo fosse il divario tra campagna e città in quegli anni, quanto potesse essere ammaliante l'idea di trasferirsi nei centri urbani pieni di vita, fulcro del futuro, distanti anni luce dalle consuetudini rurali.
"Sai cosa si fa quando non se ne può più? Si cambia" scrive Alberto Moravia in uno dei miei romanzi preferiti, Gli indifferenti e questo sembra proprio il sentimento che anima chi decide di andar via.

Andare via lontano
A cercare un altro mondo
Dire addio al cortile
Andarsene sognando
E poi mille strade
Grigie come il fumo
In un mondo di luci
Sentirsi nessuno
Saltare cent'anni
In un giorno solo
Dai carri dei campi
Agli aerei nel cielo
E non capirci niente e aver voglia di tornare da te

Ma la fantasia si scontra con la realtà: al cortile si sostituiscono le mille strade grigie come il fumo e soprattutto nasce prepotente l'idea di aver perso la propria identità, di sentirsi nessuno. E quindi le luci della città, gli aerei nel cielo perdono anche di attrattiva.

Non saper fare niente in un mondo che sa tutto
E non avere un soldo nemmeno per tornare

La condanna ultima: dopo aver perso la propria identità ci si rende conto di essere incapaci di vivere in questo mondo nuovo e di non poter neppure tornare indietro. Un senso di impotenza che, se nelle parole di Manzoni era mitigato dalla fiducia in Dio, qui non trova una soluzione possibile.

Certo, ormai l'esperienza dell'allontanamento dalla propria città di nascita per andare altrove - per studio, per lavoro, per motivi personali - è comune e generalmente meno traumatica; penso però ai migranti, a chi non avrebbe mai desiderato andarsene, a chi aveva immaginato la vita in un luogo e poi i piani sono stati stravolti.
Ancora una volta la letteratura e l'arte in generale ci permettono di sviluppare l'empatia, a metterci nei panni dell'altro e a diventare un po' più umani.

Luigi Tenco, Ciao amore ciao

09 marzo 2025

Forse

"Sai, stiamo pensando di fare una rimpatriata con i vecchi compagni di classe. Vieni anche tu?"
"Forse"
Lo sappiamo tutti: quel forse significa "no, ma visto che me lo stai proponendo con tanto entusiasmo non ho il coraggio di dirti che non ho voglia di rivedere gente che odiavo già venticinque anni fa e quindi lascio accesa una tenue speranza".
"Forse" è un avverbio che usiamo spesso ed ha una eleganza, una potenza e - come dicono quelli bravi - una polisemia (cioè la possibilità di assumere più significati) notevoli.
È un'arma e allo stesso tempo è un silenziatore.
È una carezza e allo stesso tempo uno schiaffo.
Eppure talvolta lo usiamo inconsci del suo valore.

Il forse è la parola più bella del vocabolario italiano. Perché apre delle possibilità, non certezze. Perché non cerca la fine, ma va verso l’infinito.

Google e gli utenti della rete hanno deciso di attribuire questa frase a Giacomo Leopardi che, insieme a Bukowski e a Jim Morrison avrebbe pronunciato tutte le frasi possibili ed immaginabili secondo uno schema di questo tipo: a Giacomino toccherebbero le frasi poetiche o tristi, a Bukowski quelle sporcaccione e a Jim Morrison resterebbero le considerazioni filosofiche sulla morte.
Basta fare una piccola ricerca per capire che Leopardi non ha mai scritto la frase in questione e che questa attribuzione non è meno credibile della poesia che Flavia Vento ha raccontato esserle stata dettata in sogno dal poeta stesso (se non sapete a cosa io mi stia riferendo, potete colmare questo enorme vuoto cliccando qui). Un orecchio più fine saprebbe anche che l'aggettivo bella è troppo generico per essere leopardiano ma ciò che conta è il messaggio: il forse apre possibilità e se, come dice il poeta recanatese, il vero è brutto (e sulla paternità di questa citazione non vi è alcun dubbio), l'orizzonte indefinito aperto da questo avverbio è sicuramente più suggestivo.

Si può partire dall'etimologia di questa parola, che fornisce notevoli spunti di riflessione: forse deriva dal latino forsit che, a sua volta, deriva dall'espressione fors sit, ovvero sia il destino. La parola suona dunque come un affidarsi al caso che sceglie per noi e su cui noi non abbiamo alcun potere.

Penso poi alle varie declinazioni possibili di questa parola: può essere un riparo per chi lo dice e al contempo una condanna per chi lo ascolta. Forse provo questo sentimento per te: io che lo dico copro le mie carte; tu che lo ascolti ti maceri all'idea che quello che io dichiaro può essere vero e può non esserlo.

Penso ancora una volta a Leopardi, al forse che - pur non nominato - percorre quel capolavoro assoluto che è L'infinito (che vale sempre la pena rileggere)

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Forse dietro la siepe c'è tutto ciò che è negato all'uomo e la tensione verso questo altrove, infinito e indefinito nel tempo e nello spazio, è ciò che permette di toccare la felicità, costituzionalmente negata all'essere umano. Ed è questa la speranza che anima uomo e che è proprio aperta da questo forse inespresso.

Sempre Leopardi, nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, fa dire al pastore

Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.

La possibilità di volare, la realizzazione del desiderio più profondo dell'uomo che affonda le radici già nel mito (basti pensare ad Icaro), forse, potrebbe rendere la vita dell'uomo più sopportabile. O forse no, non muterebbe di un millimetro la vita dell'uomo, destinata all'infelicità. Il forse, in questo caso, apre una strada che questa volta, però, non è percorribile dall'uomo: l'uomo non è destinato a volare - la speranza è destinata ad essere frustrata - e quindi gli è preclusa la possibilità di felicità legata a questo sogno.

Penso poi a Montale, e all'attesa della rivelazione del senso della vita dell'uomo

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

Forse, ma non è detto che ciò accada, un giorno qualunque, inaspettatamente, all'uomo sarà possibile conoscere la realtà delle cose e si svelerà davanti ai suoi occhi quello che Calvino definisce il miracolo del nulla. Possiamo solo attendere questa sconvolgente rivelazione, ma non è detto che ciò accada. In questo caso vedo proprio il significato etimologico del termine: ciò accadrà se sarà il destino.

Penso, ancora, ad un altro forse che porta con sé sofferenza: è quello di Farinata degli Uberti, superbo capo ghibellino che Dante incontra tra gli eretici. Il politico, completamente calato nei ricordi della sua vita terrena tanto da ignorare la sofferenza che dovrebbe derivargli dalla tomba infuocata a cui è destinato per l'eternità, si rammarica dell'impossibilità per i suoi discendenti di tornare nell'amata Firenze. Appena vede Dante che, ancora vivo, cammina all'interno della città di Dite e lo sente parlare, gli si rivolge così:

«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto». 

Essere stato forse troppo dannoso per la propria patria è ciò che rende la pena di Farinata insopportabile: il non poter più tornare indietro e il dubbio di aver danneggiato quella città per cui ha speso la sua vita sono la sua condanna più difficile da sopportare.

Le parole nascondono mondi: sta solo a noi avere la voglia di esplorarli.

È stato un caso

"È stato un caso". Quante volte abbiamo pronunciato questa frase? Lo facciamo per deresponsabilizzarci: non è colpa mia, è stato i...