21 aprile 2024

La sis di Monza (ovvero come provare a rendere Manzoni un po' meno indigesto)

Negli anni '90 ci aveva pensato il Trio Solenghi-Marchesini-Lopez a fare un'operazione simpatia e va detto che aveva funzionato, dato che le immagini dei loro "Promessi Sposi" (recuperabili ancora su Raiplay, unico vero motivo oltre Sanremo - ça va sans dire - per pagare il canone) balenano ancora negli occhi di noi diversamente giovani.

Dopodiché il vuoto.

I promessi sposi. Storia milanese del XVII secolo scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni campeggiano lì, sui banchi e sulle cattedre di tutte le classi seconde superiori dell'italico regno, minacciosi per la loro mole e per il loro contenuto. Spiegati spesso controvoglia dai prof, studiati ancor più controvoglia dalle ragazze e i ragazzi, vengono vissuti come una tassa da pagare, come qualcosa che è da fare perché si è sempre fatto, come una ripetizione di cose già note perché tanto "oh, profe, ma tanto lo sappiamo che alla fine si sposano. Il finale ce lo hanno già spoilerato".

Partiamo da un presupposto: questa tassa va pagata. 
Ora, lungi dal dire che le tasse sono una cosa bellissima, come affermò l'allora ministro delle finanze, il temerario Tommaso Padoa Schioppa, si può provare a cercare un senso, un significato a questo romanzo, interrogandosi su cosa possa dire ancora a dei quindicenni che non possono oggettivamente empatizzare con personaggi ormai anacronistici come Lorenzo o come dicevan tutti Renzo e Lucia che passa il suo tempo arrossendo, piangendo e pregando. E, onestamente, io, alla loro età, non provavo certo simpatia per questi due che ci mettono 800 pagine a sposarsi e venivano a turbare la mia sesta ora del martedì quando, spalmato sul banco, mi toccava l'ora di Promessi Sposi, durante la quale sentivo leggere con voce monocorde storie di peste, di spagnoli, di Innominati e compagnia bella.

Cosa si può fare allora? Innanzitutto leggere insieme ad alta voce il romanzo, trattandolo per quello che è, ovvero una bella storia e non un pretesto per svolgere banali esercizi. E poi ragionare, ragionare tanto ad alta voce per provare a far capire come si possa comprendere la psicologia di personaggi usciti dalla penna di uno che - oggettivamente - aveva il dono di soffermarsi su dettagli, apparentemente minuscoli, in grado però di far vedere mondi complessi eppure così vicini a noi perché profondamente umani.
Penso a Marianna de Leyva Marino, anche nota come Gertrude o ancora meglio come monaca di Monza: mi ha sempre affascinato il fatto che il Manzo (come chiamo nell'intimità il nobile autore), che pure è - diciamolo - un po' bacchettone e vuole insegnare a tutti ad essere dei bravi cristiani, parlando di lei sembri volerla giustificare per gli atti decisamente immorali che compie, come a dire che non è tutta colpa sua se ha avuto una tresca mentre era in convento ed è stata complice dell'omicidio di chi aveva scoperto questa tresca. Strano, vero?

Me la immagino, Marianna: siamo nel 1575 quando nasce a Palazzo Marino, l'attuale sede del comune di Milano, in Piazza della Scala, ed ha già un velo in testa ancora prima di venire alla luce perché il padre, potente signore spagnolo, vuole lasciare tutto il patrimonio al primogenito e l'unico modo che ha per realizzare ciò è inviare in convento tutti coloro che primogeniti non sono.
Le sento le voci intorno alla piccola Marianna, quelle che le prospettano un futuro da signora del convento, da badessa e glielo fanno sembrare desiderabile; alla bambina, che ha come giocattoli bambole vestite da suore, la strada del convento sembra l'unica giusta e percorribile. La percorre, quindi, ma in quel percorso inizia a vedere che esistono altre vite possibili: incontra, negli otto anni trascorsi in convento, altre bambine che prospettano una vita diversa, felice, fuori dal convento, fatta di matrimoni, passeggiate, vita mondana. 
A Marianna, che non è più una bambina a cui è sufficiente essere coccolata dagli adulti per sentirsi bene, queste idee iniziano a ronzare nella testa come delle api quando vedono un mazzo di fiori primaverili (l'efficace similitudine è di Manzoni): non riesce a dormire, pensa di non volersi più fare suora, si pente di questo pensiero e poi si pente di essersi pentita. È un groviglio di ragionamenti, il suo, e, se ci soffermiamo un attimo, è profondamente comprensibile: pensiamo a quando facciamo qualcosa per assecondare gli altri ma di cui non siamo intimamente convinti. Da una parte c'è il senso del dovere, il non voler deludere gli altri, il voler essere fedeli all'immagine che abbiamo sempre dato di noi; dall'altra c'è la nostra volontà che spinge, che vuole uscire, che ci urla che ciò che stiamo facendo non è giusto per noi. Chi non lo ha mai provato questo dissidio?

Ritorniamo a Marianna: me la vedo mentre, al lume di una candela, scrive tremando una lettera al padre - dal cui sguardo si sente guidata come un burattino - in cui per la prima volta esprime la sua volontà, dice la sua sul proprio destino. E il padre cosa fa? La ghosta, si direbbe oggi, la ignora, scompare, non le dice neppure di no, come se avergli aperto il cuore non fosse neppure degno di un cenno di risposta. Quanto male fa una cosa del genere? Anche questo è nell'esperienza di tutti.
Arriva il momento in cui, prima di essere ammessa definitivamente nel monastero, Marianna - ormai quattordicenne - esce dal convento per passare un mese fuori dalle sue mura, per vedere a cosa dovrà rinunciare; la casa, però, le sembra meno desiderabile del convento. Nessuno le mostra affetto, nessuno la considera, nessuno la coccola. È vittima, Marianna, di un enorme ricatto morale: o fai ciò che vogliamo o dovrai vivere senza l'affetto e la considerazione della tua famiglia. Ci prova a resistere, la sventurata: prova ad essere più forte dell'indifferenza ma cede quando un giovane servo le dà finalmente attenzioni: gli scrive una lettera in cui, presumibilmente, dichiara il suo amore per lui (e quanto è umano scambiare per amore la gratitudine nei confronti di chi con una parola allevia la nostra solitudine?), ma questa lettera finisce nelle mani del padre che ha, finalmente, una potente arma di ricatto, concreta e pericolosa.
Come si sarà sentita Marianna in quel momento? Come ci saremmo sentiti se i nostri genitori avessero letto un messaggio whatsapp inviato da noi adolescenti alla persona amata? Quanta vergogna avremmo provato nel sapere che le parole d'amore o di passione hanno avuto come destinatario l'ultima persona che avremmo voluto che le leggesse?

A quel punto, di fronte ad oscure e potentissime minacce del padre, Marianna non può far altro che cedere:  gli occhi del padre le scavano dentro e guidano le sue azioni. E anche se lei ha ancora dubbi e ripensamenti sul suo destino e, come un'Annalisa qualunque, fa un passo avanti e uno indietro verso il monastero, il suo destino è ormai definitivamente segnato quando perde anche l'ultima occasione di dire la verità al vicario delle monache, l'uomo dabbene che sta esaminando la sua vocazione. 
Immaginate di essere entrati in un labirinto di cui all'inizio riuscite, guardando alle vostre spalle, a vedere la via di uscita; vi addentrate sempre di più, convinti che vi sarà sempre possibile tornare indietro, e invece ogni passo che fate vi allontana inesorabilmente dalla vostra salvezza. Immaginate di essere consapevoli di questo, di non poter fare niente per cambiarlo e di non essere Euridice con un Orfeo disposto almeno a tentare di salvarvi.
Ecco, così si doveva sentire, forse, Gertrude.  E fu monaca per sempre, conclude lapidario il Manzo.

Come non rimanere affascinati da suor Gertrude, da questa figura in bianco e nero (che di rosso ha solo le labbra, come la Lupa di Verga che decisamente una santa non era), dal ricciolo che esce dal velo in barba a tutte le regole del convento che voleva che i capelli fossero corti? Come resistere a quegli occhi che comunicano una svogliatezza orgogliosa e allo stesso tempo il travaglio di un pensiero nascosto?
Come rimanere indifferenti di fronte alla capacità di Manzoni di renderci visibili e vicini i personaggi, di descriverne la psicologia, di far capire con uno scambio di battute tutto il sottotesto, tutto il non detto, tutte le convenzioni sociali che regolavano e regolano tutt'ora le azioni?

Leggere i capitoli 9 e 10 dei Promessi Sposi può essere anche una bella esperienza. Ma non diciamolo ai quindicenni (o forse sì).



14 aprile 2024

Non siete James Joyce

"Punto. Due punti. Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in adbondandum"
Quando penso alle mie alunne e ai miei alunni che mettono la punteggiatura nei compiti in classe, li immagino esattamente come Totò e Peppino alle prese con la lettera nella famosissima scena del film "Totò, Peppino e la... malafemmina" (vi consiglio di rivederla cliccando qui perché fa sempre molto ridere). Segni da mettere a caso sulla carta, sperando di intercettare gusti di chi spiega - inascoltato come se fosse nel deserto - che ci sono delle regole nell'uso della punteggiatura. E che queste regole vanno rispettate.

Invece, cosa mi trovo davanti quando apro quei fogli strappati con violenza dal quaderno e che spesso sembra che siano stati utilizzati per incartare un panino con il lardo? Flussi di coscienza, trascrizioni fedeli di sedute psicanalitiche e poemi futuristi.
Ed è inutile provare a spiegare che loro non sono James Joyce, José (my love) Saramago o Giuseppe Berto (a proposito, se avete rapporti conflittuali con vostro padre e volete un salutare pugno nello stomaco, vi consiglio di leggete "Il male oscuro", romanzo ingiustamente dimenticato); superfluo ricordare che non puoi dire "Aboliamo la punteggiatura" a meno che tu non sia Filippo Tommaso Marinetti che scrive il Manifesto tecnico della letteratura futurista; pleonastico sottolineare che non diventerebbero Ungaretti neppure se andassero a combattere sul Carso e fossero costretti a scrivere poesie sulla carta che avvolge i proiettili.
E se poi diventeremo dei grandi scrittori? Sarò felice di essermi sbagliato.
 
Penso che loro considerino la punteggiatura un piccolo fastidio, una cosa a cui dare poco rilievo, come quell'insetto che ti ronza attorno, come quella piccola incombenza che ti tocca e non sai anche bene perché, come quella regola da rispettare di cui non capisci la ragione, tipo il check in sui biglietti del treno acquistati on line.

E invece no.
Ecco una piccola rassegna con suggerimenti rigorosamente non richiesti.

Virgola. Trauma giovanile: ogni volta che la sento nominare, nella mia mente parte un ritornello indecente: Mi chiamo virgola, sono un gattino. Sono la stella del telefonino. Se questa frase non ti dice niente, significa che sei troppo giovane o che hai passato una vita felice fino a questo momento (se poi volete rovinarvi la vita perché essere tristi fa più figo potete ascoltare qui l'abominio a cui mi sto riferendo). 
E no, non vale la regola che - mi dicono - viene insegnata nella scuola primaria secondo la quale la virgola si mette quando si respira, altrimenti un bambino, con l'asma, dovrebbe, scrivere, in questo, modo.
Capita, al contrario, di leggere pensieri che tolgono il fiato, non per la loro bellezza, per la loro profondità o per il modo in cui ci risuonano dentro: no, semplicemente perché qualcuno mette su carta i propri pensieri in libertà - con associazioni di idee e voli pindarici che farebbero inorridire un qualunque psicanalista -  e quando si pensa, si sa, non si mettono le virgole.
Cerchiamo una sana via di mezzo: mettiamole negli elenchi, mettiamole quando ci sembra che ci voglia una pausa, non mettiamola mai tra soggetto e predicato, dove risulta piacevole ed opportuna come la suocera durante la prima notte di nozze.

Punto. Bello, forte, semplice. Chiude una frase. Se poi si va anche a capo, significa che con quello che c'è dopo non c'è niente da spartire. Se, invece, inizi la frase successiva con una congiunzione, sei come quelli che, alla fine di una discussione, dicono non ne parliamo più e dopo 27 secondi li senti pronunciare la frase  E comunque...
 
Punto e virgola. È un po' il Sergio Cammariere della punteggiatura: elegante, distinto ma in fondo non se lo calcola nessuno. Eppure è bellissimo: serve a dire che tra le due frasi c'è una relazione. Non è un punto (che significa non voglio avere più niente a che fare con te), non è una virgola (prendiamoci una pausa, ma in fondo ci vogliamo ancora bene); la verità è che nessuno sa davvero come usarlo, a meno che non si ruoti di 90º e si usi come un occhiolino (bentornati negli anni '90)

Puntini di sospensione. Quante sono le persone della Trinità? Quante sono le Cantiche di cui è composta la Divina Commedia? Tre, porca miseria, TRE. Non due, non quattro. Inoltre, metterli più volte in una frase non fa di chi li usa un grande scrittore, ma solo uno che non sa come andare avanti e prende tempo.

Punto esclamativo e punto interrogativo. Uno e uno solo, a meno che non siate sceneggiatori di Topolino o leoni da tastiera che vogliono esprimere il proprio disappunto contro la Ka$tA!!!111!

Trattino. Chi era costui? Dimenticato e maltrattato, serve per delimitare gli incisi (e state pur tranquilli che ci sarà l'aspirante concorrente di LOL che fingerà di confondere l'inciso con l'incisivo).

Virgolette. No. A meno che non stiate scrivendo il titolo di qualcosa oppure si stia introducendo un discorso diretto. Se poi fate il segno delle virgolette con le dita mentre parlate sarete depennati dalla lista dei miei eredi quando diventerò ricco (e cioè mai)

Sergio Cammariere, Cantautore piccolino

10 aprile 2024

Questo non è un post



Mi capita talvolta di pensare al racconto che avrei voluto scrivere: non quello perfetto, senza sbavature, ma quello che mi risuona dentro . E il racconto è questo: Inviti superflui del mio adorato Dino Buzzati.
Spesso, sui social che tutto sminuzzano, si trovano solo le prime righe e l’idea che passa è che si tratti di un racconto d’amore. E invece, non lo è. O meglio lo è, ma è molto diverso da ciò che si potrebbe immaginare.
Ogni tanto bisogna farsi sovrastare dalla bellezza, senza troppe parole, senza troppi ragionamenti.
E spero che succeda a chi legge questo racconto così com’è successo a me.

Vorrei che tu venissi da me una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi, per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l'un l'altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d'Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d'inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti. 

Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell'anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l'anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all'ora giusta l'incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti d'essere stanca; solo questo e nient'altro. 

Vorrei anche andare con te d'estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l'acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello!" Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.  Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un'altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. 

Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell'uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall'estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d'oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E' inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d'estate o d'autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all'amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. 

Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose. 

Francesco de Gregori, Rimmel


07 aprile 2024

Sopravvissuto

Ci sono cose a cui bisogna dire no senza accettare alcun compromesso: il razzismo, il gender gap, la disonestà, il parmigiano sulla pasta col tonno, "Uomini e donne".
Io, lo confesso, ieri ho ceduto ad una di queste cose da rifiutare, facendomi abbagliare da una lusinga a cui era per me impossibile sottrarsi: "andiamo a cena al mare se prima mi accompagni all'Ikea".
Una cena al mare val bene una visita in quell'inferno giallo blu che vende cose dal nome impronunciabile.

Penso che sia una follia andare all'Ikea,
c'è sempre una gran confusione anche di sabato sera.
E poi lo sai mi fa tristezza vedere la gente
che sogna di comprarsi tutto e si accontenta di niente.

Brunori ha capito tutto e io spero che la mia playlist su Spotify mi proponga esattamente questo brano in modo da far arrivare al destinatario un messaggio subliminale (che poi non è subliminale neanche un po'). E invece neanche Spotify mi dà soddisfazione. Confido nel traffico, in un meteorite, in un caso di intossicazione da pølpëttê che mi costringa a tornare indietro, ma niente. Tutto va per il verso giusto: tocca soffrire in silenzio fino alla maestosa enclave svedese. 

Salgo le scale con l'entusiasmo di un condannato nel braccio della morte: arrivo persino a percepire un clang clang di catene come sottofondo dei miei passi mentre vedo gente che rimane affascinata da un prodotto che si chiama åkēkätzøsęrvæ e mi viene in mente una similitudine manzoniana

queste immagini cagionarono [...] quel movimento, quel brulichio che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messo davanti ad un alveare.

La gente ronza attorno agli oggetti come api attorno ai fiori e io vorrei per un attimo essere un soggetto allergico alle punture: mi sfiora anche l'idea di imboscarmi nello Småland e darmi eroicamente la morte nel mare di palline colorate, ma poi desisto, temendo di dovermi poi montare la bara in cui sarà deposta la mia salma.

Per distogliere lo sguardo da Billy, Kallax e altri oggetti sulla cui effettiva utilità sono stati fatti studi rispetto ai quali gli studi sulla questione omerica sono roba da principianti, mi soffermo a guardare le persone, immagino le loro vite, i loro desideri e le turbe psichiatriche che li hanno portati a trascorrere qui con me un pomeriggio di sole. Colpiscono in particolare la mia fantasia tre soggetti:
  • il temerario: già indossare una felpa gialla indica, in generale, un certo livello di sprezzo del pericolo. Se poi la indossi all'ikea, dove ad indossarla sono i commessi, allora bisogna solo ammettere di avere delle tendenze masochistiche che portano a provare un brivido di piacere quando si è inseguiti dal cliente che vuole sapere in quale settore trova quell'oggetto indispensabile che risponde al nome di nönšærveåniêntē
  • i commessi: da loro bisogna imparare l'arte del dissimulare. Perennemente impegnati a fare altro, non sono mai loro gli addetti del reparto ma danno indicazioni vaghissime per far capire ai clienti chi sia la persona giusta a cui chiedere informazioni. Vorrebbero palesemente essere altrove. Vi capisco, bro. 
  • l'arredatore di interni: cerca il mobile che sia lungo esattamente 47,65 cm per incastrarlo in quell'angolo della sua casa che non può per nessuna ragione rimanere vuoto. Mentre fa una attenta disamina di tutte le migliorie che si potrebbero apportare al proprio appartamento, valutando costi e benefici, ipotizzando spostamenti di mobili e abbattimento di pareti, la famiglia - giustamente - lo abbandona e lo lascia a parlare da solo.
Prosegue il mio cammino inesorabile: inizio a vedere la luce in fondo al tunnel tra fodere di cuscini belle come un cinepanettone degli anni '90 e piante finte adatte a chi ha un finto pollice verde.
L'ultimo tratto è l'unico in cui mi diverto: il magazzino, quello in cui ci sono scaffali altissimi e corsie larghe lungo le quali sfrecciare usando il carrello come un monopattino.
Poi, improvvisamente, ricordo che forse, da qualche parte, mi è rimasto ancora un briciolo di dignità da conservare.
Sfreccio attraverso le patatine ricavate dagli scarti della lavorazione dei mobili e i miei occhi rivedono finalmente la luce.
Sono sopravvissuto, potete farcela anche voi.
(E comunque a cena al mare ci sono andato) 




31 marzo 2024

Rinascere

Rinasci quando lasci andare.
Quando non ti fa più male un vecchio pensiero che ti portavi sulle spalle.
Quando capisci che non vale la pena lottare sempre, per tutto e per tutti, rinasci.
Rinasci quando impari a valorizzarti e superi la sindrome dell'impostore.
È la tua rinascita quando capisci che tu sei e agisci nel presente e che il passato e il futuro sono fuori dal tuo controllo: sul primo non hai più potere, sul secondo non hai ancora potere.
Rinasci quando non ti appiattisci sul presente, ma ricordi sempre da dove vieni e dove vorresti andare.
Quando smetti di rimpiangere un attimo di felicità provato nel passato perché non perdi la lucidità per ricordare che quell'attimo è rimasto tale e non ha portato con sé altro che sofferenza. 
Rinasci quando smetti di giustificare chi ti ha fatto del male.
Quando smetti di aver paura del silenzio delle persone.
Quando parlare sinceramente con le persone non ti fa paura, rinasci.
Rinasci quando dai il giusto valore al vicino e al reale.
Quando decidi di dedicare il tuo tempo solo a ciò che ha consistenza ed è reciproco, tralasciando le costruzioni mentali, quello che vorresti che fosse e invece non è.
Quando riesci a non guardare indietro con rabbia.
Rinasci quando accetti il dolore, la fragilità, le lacrime, che vengano da te o dagli altri.
Quando impari a perdonarti, quando accetti di non essere perfetto, quando smetti di dipendere dal giudizio degli altri, rinasci.
Rinasci quando non rinneghi la malinconia, ma la consideri un'amica che ogni tanto incontri volentieri.
Quando capisci che trovare l'alba dentro l'imbrunire è difficile ma non impossibile, rinasci.
Rinasci quando accetti l'idea che è necessario morire per rinascere.

Trovo suggestivo il fatto che le due feste centrali del Cristianesimo, il Natale e la Pasqua, abbiano rispettivamente una data fissa e una data mobile: sappiamo quando siamo nati, ma non sappiamo quando rinasceremo. 
Quello che è certo è che per rinascere bisogna prima vivere, sbagliare, sporcarsi le mani e la coscienza e poi morire: d'altra parte, come insegna il maestro Battiato, vivere non è difficile potendo poi rinascere.

David Bowie, Changes

24 marzo 2024

Facciamo che io ero...

Un fazzoletto rosso, un mazzo di carte truccate, una bacchetta magica nera con le estremità bianche. E poi dadi, una scatolina e tanti altri piccoli oggetti.
Ricordo ancora l'avidità con cui avevo aperto la scatola dei giochi di magia che mi era stata regalata per un Natale di troppi anni fa e gli innumerevoli tentativi  - brutalmente falliti - di esercitare la mia manualità che è rimasta scarsa esattamente come allora.
Ai tempi, se si pensava all'illusionismo la mente non poteva che andare ad un unico nome: David Copperfield. Non il protagonista del romanzo di Charles Dickens, ma l'uomo in grado di far sparire la Statua della libertà, di fuggire da Alcatraz, di attraversare la Muraglia cinese.
I miei occhi di bambino lo guardavano con grande ammirazione: come era possibile illudere in questo modo gli spettatori? Come si poteva creare una realtà inesistente e a convincere tutti che quello che i loro occhi vedevano era vero anche se era palesemente impossibile? 
Forse è da quel momento che ho iniziato ad illudermi.

Illudere, letteralmente, significa far entrare in gioco qualcuno ed è etimologicamente connesso al termine latino ludus che significa gioco, ma anche inganno.
Perché ci si illude? Forse perché siamo convinti che  - parafrasando Montale - la realtà non sia solo quella che si vede, oppure perché dalla realtà cerchiamo una via di fuga, pur essendo consapevoli che non stiamo facendo altro che gonfiare un'enorme bolla di sapone all'interno della quale ci rifugeremo come se fosse un castello inespugnabile. 

Uno dei giochi più belli di quando si è bambini è legato all'illusione: facciamo che io ero...? Il gioco si mescola con la finzione e con la recitazione e mi viene in mente il verbo inglese to play che - non è un caso - significa sia giocare sia recitare. Ancora una volta gioco e finzione, gioco e inganno.
Quando si gioca, ed è evidente a tutti coloro che sono coinvolti che quello che si sta facendo è un gioco, l'illusione è divertente perché crea un mondo fittizio in cui si possono immaginare situazioni ed essere per un po' di tempo chi non si è. L'illusione è, in questo caso, costruzione di sé.

Ma cosa succede quando si è in qualche modo vittime di questa illusione? Quando del ludus resta solo l'inganno? Quando le regole del gioco non sono condivise? 
L'illuso costruisce un mondo irreale, fatto di specchi che non riflettono la realtà, ma solo l'immagine che di quella realtà l'illuso si è costruito. Vedere attorno a sé immagini che gli confermano ciò che lui ritiene vero, non gli permette di mettere in dubbio la propria idea sulle cose per cui non fa altro che alimentare l'inganno in cui è invischiato.
Ciò che chi si illude crea è, ai suoi occhi, reale, concreto: mi vengono in mente versi di L'infinito di Leopardi in cui il poeta scrive e sovrumani / silenzi e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo: il verbo fingere fa venire in mente la creazione di qualcosa che non esiste -  e questo è indubbiamente vero - ma il verbo, in latino, rimanda all'azione dell'artigiano che crea con le mani, alludendo, dunque, a qualcosa di estremamente concreto, manuale, tangibile. L'illusione, in questo caso, è distruzione di sé.

Poi, improvvisamente, arriva la consapevolezza: talvolta basta una parola, un piccolo gesto, uno sguardo, come quel rumore quasi impercettibile che, nel silenzio della casa del primo mattino, ci sveglia. Da un momento all'altro ci si rende conto che l'illusione è, come si diceva prima, una enorme bolla di sapone che da una parte ci protegge ma dall'altra ci acceca. La realtà ci colpisce, ci prende a sberle, noi siamo disorientati e proviamo un senso di vuoto, ci sentiamo stupidi ad aver dato peso a parole e gesti che invece erano privi di consistenza. La disillusione ci fa mancare il fiato per un attimo, ma poi ricominciamo a respirare.

L'esperienza, però, in questo caso insegna poco. Dopo esserci illusi una volta smettiamo di farlo? No.
E forse la spiegazione del motivo di questa coazione a ripetere si trova nelle righe dello Zibaldone del già citato Leopardi:

Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni. Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale, stante ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell’uomo e voluti dalla natura e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa ec. Onde sono necessari ed entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose

Giacomino, come sempre, ci sorprende: l'illusione, nelle sue parole, diventa gioia per il presente. Certo, è un piacere vano, ma è un pur sempre il più solido piacere, e questo è ciò che  l'uomo, per sua natura, cerca instancabilmente.

Come quello che mi dava, da bambino, guardare a bocca aperta David Copperfield farsi segare in due o fuggire da un palazzo un attimo prima che questo esplodesse. 

Giuni Russo, Illusione

17 marzo 2024

I ricordi sono bastardi

I ricordi sono bastardi.
Sei convinto che le cose siano andate esattamente così come la tua mente te le racconta, ma poi, razionalmente, ti rendi conto che forse non è così, che forse esiste un'altra versione che fa parte dei ricordi di qualcun altro e che ha lo stesso valore del tuo.
Nel frattempo, però, quel ricordo si è sedimentato in te e ti ha condizionato anche se non lo sai, anche se pensi di averlo rimosso: i tuoi comportamenti dipendono dalla tua versione dei fatti, che non è detto che sia vera.

Venerdì a scuola c'è stato un brevissimo laboratorio di scrittura autobiografica.
Studentesse e studenti sono stati invitati a scrivere un proprio ricordo legato alla madre, al colore rosso e alla solitudine.
Non ho fatto al momento l'esercizio, ma immediatamente è emerso un ricordo.

Sono un bambino di 7 o 8 anni, non di più.
Un giornata infrasettimanale e grigia.
Esco da scuola alle 10.30 perché c'è un assemblea sindacale: ai tempi ignoravo completamente il significato di questa espressione, ma ricordo ancora la scritta sul quaderno (o forse era un tagliando incollato malamente) che doveva essere firmato dai genitori.
Ho avuto educazione fisica: il maestro urla, ci spaventa, ricordo anche che era piuttosto manesco: ho un ricordo di calci in culo.
Esco da scuola: deve venire a prendermi qualcuno, non ricordo chi.
Fermo davanti al cancello della scuola, vedo i miei compagni che si allontanano con i rispettivi genitori; si allontanano ad uno ad uno e io resto lì.
Mi sposto dal cancello, nella direzione da cui credo debba arrivare qualcuno.
Inizio a piangere.
Se ci penso sento le mie urla (ma erano poi urla), ma ricordo la disperazione che ho provato in quel momento. La sento distintamente, ancora adesso che ne sto scrivendo.
So che ad un certo punto arriva qualcuno: mio padre? mia nonna? A quel punto si interrompe il ricordo.

Ovviamente questo ha scoperchiato un vaso di Pandora.

Mi ricordo la solitudine provata in quel momento, ma non ricordo il sollievo provato dopo.
Pur sforzandomi, non ricordo momenti felici della mia infanzia, momenti di calore: dovessi dire con certezza che non ci sono stati, non lo farei.
Ricordo che materialmente non mi è mancato niente, ma il perenne senso di competizione.
Però ricordo l'invidia nei confronti di altri bambini.
La mia incapacità in qualunque sport.
Il mio essere spesso a disagio.
Le attenzioni non gradite.
Il mio sentirmi ignorato.
Il mio non sentirmi abbastanza.
La tendenza ad idealizzare chi non mi ignorava.
Il profondo senso di solitudine.
La paura di essere abbandonato (e la tendenza ad abbandonare per non dover subire l'abbandono)
La cattiveria dei miei compagni di classe delle medie.
La mia cattiveria nei confronti dello sfigato quando lo sfigato non ero io.

Questi ricordi sono affidabili? Non lo so.
Sono andate davvero così le cose? Non lo so.
La cosa che so è che sento che sono lì e che mi hanno condizionato. E che forse è il momento di farci i conti.


La sis di Monza (ovvero come provare a rendere Manzoni un po' meno indigesto)

Negli anni '90 ci aveva pensato il Trio Solenghi-Marchesini-Lopez a fare un'operazione simpatia e va detto che aveva funzionato, dat...