I primi giorni di giugno sono una lista di cose da fare.
Hai corretto gli ultimi compiti, lottando con la penna rossa che, ovviamente, ha esalato l'ultimo respiro quando te ne mancavano solo due; tu, però, imperterrito vai avanti ugualmente, convinto che le ultime correzioni potranno essere comunque lette dagli studenti, anche se sono praticamente solo impresse sul foglio perché di inchiostro non ce n'è più. Useranno i polpastrelli, come se fossero scritti in Braille.
Hai interrogato gli ultimi eroi rimasti, quelli che vogliono evitare di passare un'estate sui libri: alcune volte li guardi con ammirazione per la tenacia, altre volte li guardi con tenerezza per l'assoluta inconsapevolezza, simile a quella di chi, a tavola, dopo aver mangiato primo, secondo, contorno, dolce, posate e aver anche assaggiato un commensale, chiede il caffè ma rigorosamente senza zucchero perché vuole tenersi in forma.
Hai formulato le tue proposte di voto, per citare Philip Roth, "con la collera del Dio del Vecchio Testamento e la misericordia del Nuovo"; praticamente hai fatto una tale opera di equilibrismo che aspetti solo di iniziare una tournée mondiale con Cirque du Soleil. Hai tenuto conto della media aritmetica ma senza tenerne conto perché non siamo burocrati ma un po' sì; hai messo da parte ogni considerazione personale dettata da simpatie e antipatie (perché, diciamolo una volta per tutte, ogni tanto ci sono alunne e alunni nei confronti dei quali proviamo la stessa attrazione che Dracula prova per i paletti di frassino); hai valutato i miglioramenti, l'originalità delle scuse per sottrarsi all'interrogazione, i biechi e malriusciti tentativi di corruzione. Alla fine sei riuscito, forse, a far quadrare i conti, a valutare non dico in modo giusto, ma almeno rispondente all'idea - riassunta in un numero - che tu hai di ciascuno di loro; nel dubbio, una volta formulati i giudizi - veri capolavori dell'arte dell'uso dell'avverbio per giustificare l'ingiustificabile e per dare l'impressione di non aver scritto sempre la stessa cosa - chiudi il registro elettronico e non lo guardi più fino al giorno dello scrutinio per evitare ripensamenti.
Poi arriva il momento tragico: la stesura dei programmi.
Quelli bravi scrivono i programmi finali man mano che fanno lezione.
Quelli furbi riciclano gli stessi programmi da anni, cambiando - quando se lo ricordano - solo l'anno scolastico.
Quelli cialtroni si riducono all'ultimo istante e poi sono costretti a scrivere tutto di corsa con gli occhi gonfi di lacrime di disperazione.
Serve, per caso, dire qual è la categoria a cui appartengo?
Con dieci libri aperti sulla scrivania, ieri provavo a mettere ordine in ciò che ho fatto nelle mie classi negli ultimi nove mesi, provando a ricordarmi quali testi avevo letto o di quali autori avevo parlato cercando di trasmettere la mia passione agli studenti che, per tutta risposta, mi guardavano con l'entusiasmo di una cassiera dell'Esselunga che, al momento del pagamento, attende che ti ricordi il PIN del bancomat.
Questa poesia non l'ho letta perché - in fondo - non l'ho capita mai bene neanche io, a quell'autore ho rinunciato perché lo trovo borioso, inutile, sopravvalutato.
Una volta fatta questa attenta selezione, guardo il frutto del lavoro di quest'anno riassunto in un file word e mi chiedo se davvero quelle righe contengono tutto ciò che ho fatto. Davvero è tutto qui?
Penso a ciò che avrei voluto fare, ai bei programmi che avevo in mente, ai libri che avrei voluto far leggere, all'insegnante che avrei voluto essere, a tutto ciò che avrei voluto trasmettere alle mie alunne e ai miei alunni.
Come quando stai iniziando qualcosa di nuovo, stai andando ad abitare in un nuova casa, stai iniziando una nuova relazione, stai per scrivere il tuo nome su un quaderno ancora intatto: ti riprometti che questa volta sarà diverso, che non commetterai i soliti errori, che sarai ordinato, preciso, disponibile ma rigoroso.
Questi sono i bei sogni, la famiglia del Mulino Bianco, il pranzo della domenica, la scuola delle fiction di Rai1.
Poi arriva la realtà, ti travolge e tu non puoi far altro che cercare, se non di dominarla, almeno di provare a darle ordine. E la realtà arriva sotto tante forme: magari ci sono volte in cui è più importante parlare di altro in classe piuttosto che di enjambement e di participi perfetti; ci sono volte in cui non sei in vena e fai una lezione confusa (e poco felice); ci sono volte in cui ti rendi conto che ciò che è chiarissimo per te non lo è affatto per chi hai di fronte e allora ti tocca fare il funambolo per trovare mille modi diversi per spiegare la stessa cosa che - probabilmente - alla fine impareranno a memoria senza capirci nulla.
E poi c'è tutto quello che nei programmi non si può scrivere perché non ha una consistenza reale, quantificabile e verificabile: c'è tutto quello che hai cercato di trasmettere attraverso lo scambio di opinioni, gli sguardi o i silenzi, c'è una visione del mondo che hai provato a condividere nel tentativo di fornire almeno qualche strumento, se non per comprendere, almeno per affrontare il reale che è mutevole e sempre più complesso.
C'è un'altra cosa che nei programmi non ha spazio: tutto quello che ho imparato io.
Ho scoperto che si dice trénta (e la cosa mi fa soffrire), ho capito cos'è un beef, ho ammirato in silenzio la forza di chi, al di là delle apparenze, affronta con dignità un passato doloroso e un presente difficile.
Ho imparato a farmi sorprendere dalle insospettabili capacità, dalla profondità, dalle storie personali delle giovani donne e dei giovani uomini che incrocio nel mio cammino.
Questo non può essere registrato e rendicontato da nessuna parte, sfugge alla burocrazia e agli adempimenti di fine anno. E forse, proprio per questo, è la parte più preziosa. O sicuramente quella che resiste al tempo.
Gazzelle, Tutto qui
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