19 maggio 2024

Adattarsi

Credo che quando Umberto Tozzi cantava Primo maggio, su coraggio! stesse pensando intensamente a studenti e docenti che in questo mese si trascinano sui gomiti pur di arrivare a fine anno scolastico prima dei famigerati tre-mesi-di-ferie di cui ho parlato in questo post di qualche mese fa. Maggio è accompagnato da una litania:
"prof, ha corretto le verifiche?"
"prof, possiamo non fare questa verifica?"
"prof, cosa mi mette in pagella?"
"prof, non ho fatto una mazzafionda durante l'intero anno scolastico. Mi fa recuperare ora negli ultimi 4 secondi che rimangono?"
"prof, se le do venti euro mi mette 6?"
e così via.
Sta di fatto che questo mese mi rende particolarmente polemico (sì, più del solito) e mi ha portato a riflettere su uno dei mali atavici della scuola: l'incapacità di fare sistema (e la spocchia di buona parte della classe docente).

L'idea comune è che il prof, una volta varcata la soglia dell'aula, chiusa la porta, diventi il monarca assoluto che esercita il suo brutale potere su sudditi spaventati e obbedienti, su cui ha potere di vita e di morte. In alcuni casi è vero anche se bisogna ricordarsi che nel segreto dell'aula il Dirigente non vede, ma le chat dei genitori sì.
Quello che ci si dimentica è che il suono della campanella determina per il docente la fine del suo potere sui poveri e indifesi fanciulli e lo fa diventare parte di un sistema in cui la coesistenza (per non parlare della collaborazione) è essenziale. Nel post della scorsa settimana ho scomodato Aristotele e la sua idea del tutto che è maggiore della somma delle parti che lo compongono: questo discorso si adatta perfettamente alla scuola: si può essere i più preparati, i più comunicativi, si può essere delle star come il fisico che parla come Lino Banfi o il glaucopide dispensatore di perle di saggezza dalle colonne del Corriere, ma tutto è inutile se non si cerca di perseguire un obiettivo comune con le colleghe e i colleghi. E l'obiettivo qual è? La formazione in ogni aspetto, personale e culturale, delle ragazze e dei ragazzi che abbiamo tra le mani. E pazienza se noi quando eravamo a scuola sapevamo molto di più di loro, se ora le famiglie sono assenti e non insegnano l'educazione e tocca a noi insegnargliela, se signora mia non ci sono più le mezze stagioni: la situazione è questa e in questa situazione lavoriamo.
Svuotare il mare con un cucchiaino è impossibile, dicono.
Magari anche svuotarlo con dieci, cinquanta, cento cucchiaini lo è, ma sicuramente ne svuoti di più.

Vedo e sento colleghe e colleghi che pensano di esprimere la propria superiorità disprezzando il sistema scolastico (che - ben inteso - ha le sue storture che non basterebbe la Treccani per elencarle tutte) o sottolineando l'ignoranza delle nuove generazioni: li sento dire pressappoco così: "io alla loro età già leggevo i romanzi russi in lingua originale e guardavo film croati di quattro ore con sottotitoli in lingua swahili". Ciò, però, significa non avere fiducia nella propria capacità di insegnare, significa aver mollato il colpo e soprattutto denota una mancanza di capacità di adattamento: fare ciò che si può con ciò che si ha dovrebbe essere il punto di partenza di tutto. E invece si pensa che adattarsi sia una parolaccia.

Prendere ispirazione dai liquidi potrebbe essere la soluzione e a chi pensa che prendere la forma del contenitore, come fa l'acqua,  sia svilente, voglio ricordare una cosa: che tu sia Tavernello o Barolo, anche se cambia la tua forma, non cambia la tua essenza. Chi vale, vale indipendentemente dal suo essersi adattato alla situazione: certo, per continuare l'allegoria enologica, a tutti piacerebbe stare in un decanter di cristallo, ma a volte ci dobbiamo accontentare di una vecchia, decorosa bottiglia, ricordandoci sempre che la nostra natura resta la stessa. 
Mi vengono in mente i versi di Dante:

Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
là giú, colà dove la batte l’onda,
porta di giunchi sovra ’l molle limo:

null’altra pianta che facesse fronda,
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch’a le percosse non seconda.

Sulla costa dell'isola del Purgatorio ci sono i giunchi, le uniche piante in grado di sopravvivere ai colpi delle onde perché, a differenza delle altre piante, quelle che fanno fronda o si indurano, cioè quelle che hanno rami o sono rigide, i giunchi si piegano, assecondando i movimenti del mare, ma non si spezzano mai.
Irrigidirsi od ostentare tutto ciò che si è, che si ha, che si fa, che si sa non servono a salvarci: a salvarci è la capacità di assorbire i colpi, di adattarci senza perdere la nostra natura.
Il giunco è, per Dante, il simbolo dell'umiltà, termine connesso etimologicamente ad humus, cioè terra.
È bello, bellissimo, egoisticamente soddisfacente volare, staccarsi da terra, guardare gli altri dall'alto in basso, ma, forse, è più utile e più produttivo non perdere mail contatto con la terra.

Franco Battiato, Caliti junku

12 maggio 2024

Vocali

Qualcuno potrebbe pensare che il post sia un omaggio a Rimbaud, il poeta con il cognome la cui pronuncia mette in difficoltà chiunque non abbia un dottorato in letteratura francese (quasi come la pronuncia di enjambement). 
Qualcun altro potrebbe credere più realisticamente, conoscendomi, che io stia celebrando il ritorno de "La ruota della fortuna" su Canale 5 (ma quanto ci piace il vintage?).
E invece no.
Aristotele, nella Metafisica diceva: "πάντων γὰρ ὅσα πλείω μέρη έχει καὶ μὴ ἔστιν οἶον σωρὸς τὸ πᾶν ἀλλ᾽ἔστι τι τὸ ὅλον παρὰ τὰ μόρια, ἔστι τι αἴτιον" e chi siamo noi per dargli torto?
Ma facciamo un passo indietro.

Ci stiamo confrontando in classe sul racconto Il corridoio del grande albergo di Buzzati (sì, sempre lui) che racconta la storia (che si può leggere qui) di un uomo alto e barbuto che, di notte, in un albergo, esce dalla propria stanza per andare nel bagno che si trova nel corridoio; vedendo, però, un uomo in tutto e per tutto uguale a lui che, a propria volta, si sta recando alla toilette, decide di desistere e di aspettare di essere solo per poter assecondare i suoi bisogni fisiologici. Questa solitudine - purtroppo - tarda ad arrivare. 

Dopo aver fatto la mia filippica sull'hotel come luogo inquietante per eccellenza e aver citato l'inarrivabile Shining, dopo esserci interrogati su quanto sia pericoloso l'albergo in quanto, dormendo lì, ci mettiamo nella massima condizione di vulnerabilità in un luogo a noi estraneo e insicuro (e so che dopo questa affermazione la Federalberghi verrà a cercarmi sotto casa per scambiare quattro chiacchiere amichevoli), un punto ha attirato l'attenzione della nostra piccola comunità di lettori: la mancanza di dialogo.
Non c'è alcuna interazione tra i personaggi di questo racconto, che si limitano ad evitare qualunque contatto.

È stata questa l'occasione per riflettere con ragazze e ragazzi sulla difficoltà di comunicare che caratterizza - soprattutto ultimamente - l'essere umano e per verificare se davvero, come si leggeva sui giornali qualche giorno fa (ad esempio in questo articolo) i più giovani, per tenere a freno l'ansia, evitano persino di rispondere alle telefonate, preferendo la comunicazione scritta a quella a voce.
"Ma profe, non è vero! - insorge S. - Io amo i vocali, mi piace parlare"
Credevo fosse semplice - e invece non lo è stato - far capire a lei, e a chi come lei sosteneva che usare i messaggi i vocali sia equivalente a parlare, che la somma di due monologhi non è un dialogo.
Io parlo da solo, senza contraddittorio, senza poter vedere le reazioni dell'altro o  - se siamo al telefono - senza ascoltare le sue obiezioni, i suoi silenzi, le sue esitazioni; concluso il mio messaggio, l'altro mi risponderà secondo le stesse modalità. Questo è assimilabile ad uno scambio di messaggi sui walkie-talkie, usando i quali ognuno deve rispettare il proprio turno per parlare: con questo strumento, però, si impartiscono ordini, si danno informazioni sulla propria posizione, certamente non si parla dei propri sentimenti.
I messaggi vocali, dunque, negano l'interazione in tempo reale e quindi non permettono che nasca un dialogo, se con questo termine si intende il frutto di uno scambio di idee, qualcosa di vivo e mutevole che permette a chi sta parlando di cambiare direzione, di adeguare le parole alla reazione dell'interlocutore, mettendo anche in campo l'empatia. Qualcosa che, quindi, è più della somma delle sue parti, come diceva il buon Aristotele citato all'inizio: a dire il vero, la traduzione esatta del testo è: "Infatti, di tutte le cose che hanno molte parti, e il cui insieme non è come un ammasso e il cui intero è qualcosa di più delle parti, c'è una causa (dell’unità)" (Aristotele, Tutte le opere, traduzione di Giovanni Reale, Rusconi, Milano, 1997³, p. 387) ma il riassunto il tutto è maggiore della somma delle sue parti è sicuramente più chiaro anche se non esaustivo. Lo ha usato anche Battiato come sottotitolo per un suo album: e di Battiato ci si fida senza discussioni (anche quando parla dell'odore che gli asparagi danno all'urina, e non sto scherzando).

Senza voler prendere la deriva dell' eh signora mia, si stava meglio quando si stava peggio, non posso non notare che in nome della comodità pian piano stiamo rinunciando all'interazione: vuoi mettere com'è comodo mandare i messaggi vocali che l'altro può ascoltare quando ha tempo? Guardare i programmi tv on demand quando ci aggrada maggiormente? Acquistare case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale senza muoversi da casa propria? Indubbiamente è comodo: ma, senza andare indietro agli anni Cinquanta del Novecento, quando le tv erano poche e guardare il Rischiatutto di Mike Bongiorno diventava un rito collettivo da celebrare nei bar, mi sembra sia evidente, per fare un esempio, il valore aggiunto che ha la visione all'unisono di uno dei pochi eventi che riesce ad ottenere ancora tanta contemporanea attenzione, ovvero Sanremo. 
Ci siamo mai interrogati sul modo in cui utilizziamo il tempo e le energie non spesi nell'interazione? Che fine fanno? Non stiamo, forse, perdendo uno dei tratti della nostra umanità?

P.S. Visto che la Ringkomposition ci piace tanto, quasi quanto il vintage e che credo che una buona poesia al giorno possa essere la cura a molti mali, non posso che concludere così:

A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu: voyelles,
Je dirai quelque jour vos naissances latentes:
A, noir corset velu des mouches éclatantes
Qui bombinent autour des puanteurs cruelles,

Golfes d’ombre; E, candeurs des vapeurs et des tentes,
Lances des glaciers fiers, rois blancs , frissons d’ombelles;
I, pourpres, sang craché, rire des lèvres belles
Dans la colère ou les ivresses pénitentes;

U, cycles, vibrements divins des mers virides,
Paix des pâtis semés d’animaux, paix des rides
Que l’alchimie imprime aux grands fronts studieux;

O, suprême Clairon plein des strideurs étranges,
Silences traversés des Mondes et des Anges:
– Ô l’Oméga, rayon violet de Ses Yeux!

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
Io dirò un giorno le vostre nascite latenti:
A, nero corsetto villoso di mosche splendenti
che ronzano intorno a crudeli fetori,

golfi d’ombra; E, candori di vapori e tende,
lance di fieri ghiacciai, bianchi re, brividi d’umbelle;
I, porpora, sangue sputato, risata di belle labbra
nella collera o nelle ubriachezze penitenti;

U, cicli, vibrazioni divine dei verdi mari,
pace di pascoli seminati d’animali, pace di rughe
che l’alchimia imprime nelle ampie fronti studiose;

O, suprema Tromba piena di strani stridori,
xilenzi attraversati da Angeli e Mondi:
– O l’Omega, raggio viola dei suoi Occhi!

Franco Battiato, Un'altra vita

05 maggio 2024

La fisica e l'ineluttabilità del destino

Non chiedetemi perché, ma una delle due cose di fisica che mi è rimasta inspiegabilmente nella memoria è l'effetto Doppler, quello che fa sì che, quando sentiamo un'ambulanza allontanarsi, noi percepiamo un cambiamento del suono. Non chiedetemi il perché neanche di questo.
Mi è venuto in mente l'altro giorno quando stavo scappando dall'aula dopo aver raccolto tutte le mie cianfrusaglie sulla cattedra: scappavo perché sono sempre in ritardo come il Bianconiglio e non ero pronto a subire lo sguardo di riprovazione della collega dell'ora seguente che, per non perdere secondi preziosi, inizia a far lezione già nel tragitto che la conduce dalla porta alla cattedra.
Mentre fuggivo, ho sentito S. che dice qualcosa di cui colgo solo il finale "...etico".
Non posso non tornare indietro, anche se intravedo che dalle scale si sta avvicinando minacciosa la criniera corvina della collega Medusa, pronta a pietrificarmi con il suo sguardo: pur non essendo Perseo, torno indietro e chiedo ad S. cosa abbia detto e lei me lo ripete: "È stato poetico". E io mi allontano felice, salutando con un sorrisone Medusa, ma nel dubbio evitandone lo sguardo ché non si sa mai.

Può essere poetica una interrogazione di italiano?
Ma soprattutto può uscire una frase come questa dalla bocca di S.? Non so come sia possibile, ma lei, pur essendo alta, dà sempre la sensazione di guardarti dal basso, con quegli occhi scuri che sembrano scusarsi perché non si sente mai abbastanza.
Non me lo aspettavo da S., studentessa in difficoltà che, nel corso delle ultime settimane, sta attraversando le quattro stagioni degli studenti  (non me ne frega niente - non capisco niente - forse ho capito - ce la posso fare) passando in un modo repentino e inaspettato dall'una all'altra come il meteo nelle scorse giornate.
Una interrogazione di italiano può essere poetica se l'oggetto dell'interrogazione è uno dei racconti più famosi di uno dei miei autori-feticcio, ovvero Dino Buzzati.

Era il 1937 quando viene pubblicato per la prima volta sulla rivista La lettura il racconto Sette piani (che vi consiglio di leggere  - o rileggere - qui).
In queste pagine si racconta la storia di Giuseppe Corte che si reca in un ospedale, noto perché cura esclusivamente la malattia di cui lui è affetto in forma lievissima.

Quando lo scorse da lontano – e lo riconobbe per averne già visto la fotografia in una circolare pubblicitaria Giuseppe Corte ebbe un’ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga d’albergo. Tutt’attorno era una cinta di alti alberi.

Sembra bello, il sanatorio, che, inoltre, ha una strana caratteristica che Giuseppe viene a scoprire parlando con le persone che sono lì.

I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l’ultimo, era per le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile sperare.
Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un’atmosfera omogenea. D’altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto.
Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste. Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affidato a un medico diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso all’istituto un unico fondamentale indirizzo.

Corte viene inizialmente messo al settimo piano in quanto le sue condizioni di salute non destano alcuna preoccupazione, salvo poi trovarsi, dopo poche settimane, per una serie di coincidenze sfortunate quanto inevitabili, a scendere sempre di più fino al finale che tutti i lettori si attendono ma nessuno accetta:

Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In quanti anni, sì, bisognava pensare proprio ad anni, in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all’orlo di quel precipizio?
Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l’orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall’altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce.

Con la classe ci siamo interrogati sul senso di questo racconto ed è stato bello sentire quindicenni dialogare con un testo che di anni ne ha ormai 87 ma che sembra perfettamente in grado di parlare con loro.
Abbiamo parlato della struttura dell'ospedale, che a qualcuno ha ricordato la struttura dell'Inferno dantesco (ormai lo sanno tutti: almeno una volta per ogni lezione, Dante va citato) e di quanto siano importanti i particolari, soprattutto il fatto che il percorso si configuri come una discesa e non come una salita. Raccontare un passaggio dal primo al settimo piano avrebbe avuto tutto un altro sapore e questo ci ha portato a riflettere su quanto siamo inconsciamente condizionati e condizionabili dai luoghi comuni e da meccanismi di pensiero, per cui al concetto di discesa associamo qualcosa di negativo.
Ci siamo interrogati sul significato allegorico del testo: cosa ci vuole raccontare realmente Buzzati? Cosa rappresenta l'ospedale? È stato un momento di confronto anche emozionante perché S., un'altra S., che ha avuto un lutto molto grave in famiglia, quasi con le lacrime agli occhi ha detto che forse i medici hanno detto una bugia a Corte, non avendo il coraggio di dirgli che le sue condizioni non erano così buone come gli avevano fatto credere collocandolo nel settimo piano dell'ospedale. I medici - continua S. - dovrebbero essere in grado di dire la verità. 
A quel punto distolgo lo sguardo dai suoi occhi che stanno diventando acquosi e sfodero la seconda mia conoscenza di fisica: il moto su un piano inclinato. Tocca a me raccontare il mio punto di vista.
L'ospedale - apparentemente bellissimo ma in realtà sottilmente disturbante fin dall'inizio - è una metafora della nostra vita: tutti siamo destinati alla morte, inizialmente la guardiamo da lontano e crediamo di poterla evitare, ma il tempo passa inesorabile e, come una pallina su un piano inclinato, non possiamo fermare la nostra corsa. Talvolta abbiamo la sensazione di essere di fronte a bivi risolutivi, qualcosa che ci permetta di tornare indietro e nutriamo la speranza che questo sia possibile, ma fisicamente non lo è e continuiamo la nostra folle corsa che, per caso e per necessità, ci porta più o meno velocemente al primo piano, dove le serrande scorrevoli chiudono il passo alla luce.

È stato poetico? Forse sì.
Ho capito ancora una volta che posso preparare ogni minimo dettaglio di lezioni del genere, organizzare tempi e modi, preparare slides, ma niente, e dico niente, è potente quanto pensare ad alta voce con ragazze e ragazzi, ascoltare ciò che hanno da dire su temi che, spesso sbagliando, non sono ritenuti alla loro portata, ma soprattutto essere disposti a condividere con loro le mie sensazioni di lettura che, nella maggior parte delle volte, saranno diverse da quelle che ho avuto tutte le altre volte che ho letto lo stesso testo, da solo alla mia scrivania o in altre aule, in altri anni, in altre città. 

E mentre fuggo nel corridoio, penso sia valsa la pena rischiare la pietrificazione.

Angelo Branduardi, Ballo in Fa Diesis minore



Adattarsi

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