Avrei dovuto fare una statistica fin da quando, vent'anni fa, ho messo piede in un'aula dirigendomi per la prima volta verso la cattedra e non verso i banchi.
Fare un segno su un foglio per ogni volta che in un tema scritto da un adolescente ho letto la frase "Quelli che sto vivendo sono gli anni migliori della mia vita".
Quest'unico foglio si sarebbe moltiplicato per dieci, cento, mille: ne sarei sommerso.
Eppure questa è una frase senza senso e aberrante: l'altro giorno ho provato a farlo notare a una mia studentessa che, per tutta risposta. mi ha guardato con gli occhi sgranati come se stessi ballando la Salsa in mutande nel corridoio della scuola.
Qualcosa mi ha fatto percepire che non l'ho convinta.
Proviamo a ragionarci a mente fredda.
Posso dire che un cibo è migliore di un altro solo dopo averli assaggiati entrambi; posso dire che una città è più bella di un'altra solo dopo averle visitate entrambe.
Penso che sia davvero deleterio, nel momento in cui si sta vivendo una qualunque esperienza, pensare che non ce ne possa essere una migliore nella propria vita: è come segnare un limite - inesistente - oltre il quale non si potrà più andare.
Se poi - come spesso accade - sono i genitori ad inculcare questa idea nei figli, credo che il danno sia ancora più grande.
Se poi questo ci viene detto in un momento traumatico come l'adolescenza, tutto peggiora ulteriormente.
Non so voi, ma io ho un ricordo terribile del periodo tra gli 11 e i 16 anni: mi sentivo brutto, ero emarginato, evitavo contatti con i miei coetanei (e a ragione, dato che da loro ricevevo offese e poco altro) eppure dentro di me percepivo una grande voglia di vivere, di essere, di esistere, che, però, era destinata a rimanere inespressa.
Se mamma e papà mi avessero detto: "Goditi questi anni perché saranno i migliori della tua vita" credo che li avrei guardati esattamente come mi ha guardato l'altro giorno la mia alunna.
Sì, è vero, sono gli anni in cui non si ha la preoccupazione del lavoro; ma noi non più adolescenti siamo davvero sicuri che lo studio, la scuola siano, per le ragazze e i ragazzi, fonte di minore angoscia di quanto non lo sia per gli adulti la propria occupazione?
Davvero pensiamo che sentire di avere le ali e non saperle o poterle usare sia meno frustante di percepire che le proprie ali non sono più forti come un tempo?
È più angosciante l'idea della bolletta da pagare o provare turbamenti o vere e proprie sofferenze, parlarne con altri e sentirsi dire semplicemente passerà come se davvero il tempo curasse le ferite e non si limitasse a ricoprirle di polvere fino a che non le vediamo più?
Nella retorica degli anni migliori, tutta questa sofferenza adolescenziale che credo chiunque di noi provi o abbia provato si troverebbe a coincidere - in maniera palesemente stridente - con l'idea secondo cui quella che si sta vivendo in quel momento è la primavera della vita, preparazione all'estate - il momento del massimo godimento - seguita poi inevitabilmente dall'autunno - la vecchiaia - e la morte, l'inverno.
Solo che, come ci insegna il poeta latino Orazio, gli uomini - a differenza della natura - non rinascono dopo l'inverno ma sono destinati ad essere pulvis et umbra, polvere ed ombra (la bellissima ode IV, 7 si può leggere qui e vi consiglio di farlo, qualora non la conosciate).
Trovo questa una visione della vita piuttosto disperante, ma si può provare a cambiare punto di vista.
Gli anni della adolescenza non sono i migliori ma sono quelli in cui tutte le possibilità sono aperte e durante i quali si può provare a disporre a proprio piacimento i pezzi sulla scacchiera o almeno avere l'illusione di poterlo fare.
Ho un'altra convinzione.
Si può continuare a crescere e a fiorire sempre, anche in momenti in cui apparentemente tutto tace, sembra senza speranza e destinato irrimediabilmente alla fine: grazie a questo suo potere, l'uomo può addirittura elevarsi al di sopra della natura e quasi ridersene perché, così facendo, non è il tempo a dettare i cicli della sua vita ma è l'uomo stesso a riportare le lancette sullo zero e a far ripartire il cronometro ogni volta che vuole. Se lo vuole.
Franco Battiato, Quand'ero giovane