20 ottobre 2024

Anche Dante aveva paura

Per un attimo mi sono sentito il prof. Keating - per intendersi, Robin Williams in "L'attimo fuggente" - ma in versione orecchiette e cime di rapa.
L'altro giorno avevo in programma di spiegare il secondo canto dell'Inferno e, come sempre, il giorno prima, preparando la lezione, mi interrogavo su come avrei potuto iniziare.
Sì, perché la cosa più difficile è attirare l'attenzione delle ragazze e dei ragazzi che hai davanti, che sono lì ma che palesemente vorrebbero essere altrove, che hanno appena letto un messaggio che li ha resi tristi o felici, che hanno appena incrociato il proprio sguardo con quello della persona che occupa i loro pensieri, che stanno ancora cercando di capire la spiegazione appena fatta da chi c'è stato prima di te o che stanno pensando alla verifica che avranno all'ora dopo la tua.
Non basta dire "A me gli occhi, please" per attirare gli sguardi di nutriti gruppi di adolescenti. Non ha mai funzionato e non funzionerà mai, accettiamo la cosa con serena rassegnazione.
Entro in classe, sondo il terreno con gli occhi, mi informo su come stanno, raccogliendo più che altro silenzio, e poi scrivo sulla lavagna una sola parola: PAURA.

"A voi cosa fa paura?"
Una voce coraggiosa si leva in fondo a destra: ho paura di non realizzare niente nella vita.
Poi scopro che c'è chi ha paura dei ladri, chi ha paura del futuro, chi ha paura dei ragni.
"E a lei cosa fa paura?" mi chiedono.
Il professor Keating del Tavoliere non aveva considerato l'ovvio, cioè che qualcuno gli avrebbe posto questa domanda.
Non posso chiederlo a loro senza dirglielo: allora dichiaro la mia paura, sinceramente, senza troppi fronzoli.
Loro ascoltano, rimuginano e poi possiamo iniziare la lezione.

Anche Dante aveva paura, paura di non essere all'altezza di un compito così importante come quello a cui era stato chiamato: compiere una simpatica escursione tra i dannati per vedere quale orrenda fine tocca a chi pecca e non si pente, poi arrampicarsi tipo Reinhold Messner sul monte del Purgatorio per vedere quelli che si sono comportati un po' meglio, infine trovare Beatrice e subire una cazziata colossale prima di salire tipo razzo nell'Empireo per vedere il Boss (no, non Bruce Springsteen, proprio il Boss Boss).
Ma la cosa non era finita qui: una volta finito il viaggio, avrebbe dovuto raccontare tutto ciò che aveva visto per mostrare ai suoi contemporanei la via della salvezza e, collateralmente, essere odiato da generazioni di studenti costretti a studiare controvoglia il frutto di questo suo lavoro che talvolta sembra l'opera di un fondamentalista cristiano sotto effetto di qualche droga pesante.

Stupefacenti a parte, il secondo canto dell'Inferno mi piace particolarmente perché più che altrove in questi versi emerge il lato umano di Dante che ragiona con Virgilio e con noi suoi lettori di qualcosa che ci riguarda tutti.

"S’i’ ho ben la parola tua intesa",
rispuose del magnanimo quell’ombra,
"l’anima tua è da viltade offesa; 

la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand’ombra.

Sono queste le parole che la magnanima guida rivolge a Dante quando quest'ultimo esprime il suo senso di inadeguatezza per il viaggio che sta per intraprendere: è la viltade che colpisce la sua anima, quel vizio che ingombra l'omo  e gli impedisce di compiere le nobili azioni a cui pure sarebbe chiamato, ottenendo lo stesso effetto che ha sugli animali il falso veder ovvero la sensazione di aver visto qualcosa che non c'è. La paura ci fa tornare indietro, ci fa perdere quella spinta che ci porterebbe su strade nuove, ci costringe a rimanere in situazioni che non ci piacciono e ci impedisce di andare a cercare la soluzione.

Ma come si fa a superare la paura? Sono le parole di Beatrice - riportate sempre dal solito Virgilio - a guidarci in questo senso.
Tu, Dante, stai compiendo questo viaggio - gli spiega il suo maestro - perché quella donna che hai amato in vita e che ormai da 10 anni non c'è più, vedendoti in difficoltà, mossa dall'amore, è venuta da me, dal Paradiso all'Inferno, a chiedere di portarti aiuto.
A lei Virgilio chiede come mai non abbia avuto paura di compiere questa discesa vertiginosa dal regno della salvezza al regno del peccato.

"Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch’i’ non temo di venir qua entro. 

Temer si dee di sole quelle cose
c’ hanno potenza di fare altrui male;
de l’altre no, ché non son paurose. 


Bisogna temere solo le cose che ci possono nuocere, non le altre perché quelle non fanno paura.

Apparentemente sembra un'ovvietà sconvolgente, utile come la ricetta del pollo alla piastra di Elisabetta Canalis (ai pochi eretici che non sanno a cosa io mi stia riferendo, dico pentitevi e informatevi cliccando qui); se invece ci si sofferma un attimo, le parole di Beatrice (che poi sta citando Aristotele) ci aprono un mondo. 
Non dobbiamo fare come gli animali che, presi dalla paura, tornano indietro per un falso veder; non lasciamoci sopraffare ma piuttosto usiamo la razionalità, anche se è molto difficile quando si è invischiati in questo sentimento.
Ciò che ci blocca in un punto, che ci impedisce il cammino è qualcosa che ha davvero il potere di farci male? È qualcosa che davvero non possiamo affrontare? Oppure a farci stare fermi è solo la nostra pigrizia, il nostro non voler uscire dalla comfort zone, il nostro volerci crogiolare nel dolore che in fondo un po' ci piace?

Spoiler: alla fine Dante supera la sua paura e inizia il viaggio anche perché altrimenti la Divina Commedia sarebbe finita qui
E comunque no, non ve lo dico qual è la mia paura.

Lucio Dalla. Futura
 

2 commenti:

  1. Caro Luca, D'avenia a te ti fa na pippa, e Dante sarebbe senz'altro fiero di te. Complimenti. E un abbraccio

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  2. Fosse solo una la paura (parlo per me), ma poi Beatrice fa luce, e le paure si riducono forse a una sola, e anche io, come te, non la dico. Grazie. Un caro abbraccio.

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