Mi è capitato di pensarci tante volte, ultimamente.
Una persona che piange ci mette in difficoltà: ci sentiamo impotenti, impacciati, vorremmo che finisse subito e che tutto tornasse com'era prima per ristabilire l'equilibrio che le lacrime inevitabilmente rompono. E forse fa poca differenza se le lacrime sono di gioia, di dolore, di sfinimento: quelle gocce d'acqua sono un temporale e noi siamo quelli senza ombrello e lontani da casa.
Anche chi piange, subito dopo, si sente in difficoltà e spesso chiede scusa, consapevole, forse, della sensazione di disagio generata in chi gli era di fronte.
Fin da bambini, ci sentiamo dire: "dài, non piangere" o, ancora peggio, "se piangi diventi brutto" e forse questa idea si radica in noi. Che poi, a voler dirla tutta, per citare Jorge da Burgos, il terribile monaco cieco protagonista del romanzo "Il nome della rosa", non è che quando si ride le cose vadano molto meglio: "Il riso squassa il corpo, deforma i lineamenti, rende l'uomo simile alla scimmia". Nonostante questo, gli inviti a non ridere sono sempre bonari e legati a circostanze in cui la risata non è conveniente. Ripenso anche alla saggezza della mia amatissima nonna che mi metteva in guardia dalla probabile cattiveria delle persone che, ridendo, imbruttivano invece che diventare più belle.
Quindi, il pianto è qualcosa da evitare perché ci rende brutti, perché mette a disagio gli altri, perché, in qualche modo, ci espone: non parliamo poi della questione di genere, quella per cui se sei fallodotato e piangi, sembri una femminuccia. E poi ci si meraviglia dei maschi che - come categoria - risultano poco empatici e inadeguati ad esprimere le proprie emozioni.
Nell'ultimo anno mi è capitato - com'è normale che sia - di piangere, ma due occasioni sono state per me fonte di riflessione perché sono avvenute in classe: mi sono commosso leggendo il finale, delicato e tragico, di Io e te di Ammaniti e spiegando un'ode di Orazio per la prima volta dopo la morte del mio professore di letteratura latina dell'università che amava (e mi aveva fatto amare) questo testo. È stata una sensazione stranissima: sentirsi nudo e non trovare vestiti per coprirsi, ma la cosa inaspettata è stata un'altra. Nella mia classe prima, in cui leggevo la storia di Lorenzo e Olivia, ho percepito il bisbiglio delle studentesse e degli studenti che hanno accolto questa mia reazione con tenerezza (mentre razionalmente temevo - quanto meno - lo sbigottimento, se non il dileggio... io da studente, probabilmente, lo avrei fatto); nella quinta nessuna reazione al momento, ma nel pomeriggio mi ha scritto una studentessa che mi ha detto di aver notato la mia difficoltà ad andare avanti ed ha commentato così: "Penso che se quest'uomo è stato in grado di farle nascere la passione per il latino doveva essere proprio bravo". La mia felicità è dipesa dal fatto di essere riuscito, in qualche modo, a trasmettere il mio debito di riconoscenza nei suoi confronti e a perpetuarne in qualche modo il ricordo.
Dicevo, questi due episodi sono stati significativi perché mi sono sentito nudo, ma non ho visto di fronte a me persone che, di fronte alla mia nudità, scappavano o si stringevano maggiormente nei propri vestiti o ancora cercavano di coprirmi, ma persone che si sono in qualche modo spogliate per farmi sentire meno solo.
Da allora sto provando - senza riuscirci sempre - ad eliminare dal mio vocabolario la frase "non piangere" e ad accogliere le lacrime altrui, siano adulti o bambini, senza parlare, senza spiegare, senza razionalizzare, senza cercare ossessivamente una soluzione per far smettere, lasciando che il pianto si sfoghi così come si sfoga una sonora risata fatta in compagnia. È umano piangere, si piange appena nati (sperando davvero che non sia come diceva Lucrezio, secondo cui il neonato piange perché già sa quali sventure lo aspettano) e non accettare in noi o negli altri questa emozione non ci rende più forti o più felici, ma solo più poveri.
Janis Joplin, Cry baby