24 novembre 2024

Il patriarcato non esiste

Ha ragione il ministro: il patriarcato non esiste.
Parlarne è inutile ed è sbagliato ricondurre a questa ideologia il numero impressionante di femminicidi che si consumano quotidianamente nel nostro Paese. 
Parlarne è una perdita di tempo, simile a quella che si ha quando si parla dei dinosauri nella scuola primaria.
È dal 1975 che la nostra società non è più patriarcale grazie alla revisione del diritto di famiglia che ha sancito che donne e uomini hanno gli stessi diritti all'interno delle famiglie. 
Perché parlarne ancora?
D'altra parte la nostra Costituzione sancisce, nell'articolo 3, che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso e nell'articolo 37 che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.
Quindi, perché parlarne?

È probabile che il ministro non si sia mai sentito un uomo migliore per il semplice fatto di fare cose che. solitamente, fanno le donne: fare la spesa, cucinare, accudire i figli, riordinare la casa.
A me - lo ammetto - capita e mi sento in colpa per il solo fatto che questo pensiero mi abbia sfiorato. A lui evidentemente non capita.
Forse il ministro non ha mai sentito storie di donne che hanno subito violenza e abusi da parte di parenti, amici, insegnanti e che con le lacrime agli occhi trovano giustificazioni per loro e colpe per sé stesse. Avrebbe capito, altrimenti, che tutto questo affonda le proprie radici nell'idea dell'uomo cacciatore e della donna preda indifesa, dell'uomo che ha sempre una giustificazione e della donna che, se guardi bene, in fondo qualche colpa ce l'ha sempre.
Il ministro non ha mai parlato con donne che non si sentono libere di vestirsi come vorrebbero, di tornare a casa da sole, di andare a correre, di frequentare zone della propria città; avrebbe capito, altrimenti, che queste persone subiscono una grave limitazione della propria libertà
Al ministro forse non hanno detto che esiste un gender pay gap, cioè una differenza salariale tra uomo e donna, che secondo alcune stime arriva a circa 8000 euro all'anno; non gli hanno detto neppure che solo 17 donne su 100 ricoprono ruoli dirigenziali. Avrebbe capito, altrimenti, che queste persone sono vittime di una grave disuguaglianza. 

Ha ragione il ministro: il patriarcato non esiste, ma purtroppo esistono persone che negano la sua esistenza, che negano che ci siamo ancora immersi e che anche inconsapevolmente perpetriamo dei modi di pensare e di agire che affondano le proprie motivazioni proprio in quella visione del mondo.
Ed è molto più pericoloso. 

Brunori Sas, La ghigliottina


17 novembre 2024

Diverse lingue, orribili favelle

L'altro giorno leggevo in classe i Promessi Sposi quando, ad un certo punto, incappo nella parola "creditore": per puro scrupolo, chiedo ai malcapitati venticinque lettori (sono diciannove, ma Manzoni non lo deve sapere) se conoscano il significato di questo termine.
Improvvisamente trentotto occhietti impauriti si bloccano su di me come se avessi chiesto la classifica finale di Sanremo 1974 o una panoramica sulla letteratura bulgara del diciannovesimo secolo.
Nessuno conosceva il significato di questo termine.
A quel punto le reazioni possibili erano tre: uscire dall'aula sbraitando come Tarzan nella foresta, aprire un profilo LinkedIn per cercare lavoro come lavapiatti nelle isole Fær Øer oppure mantenere la calma e spiegare loro il significato del termine.
Mancandomi le physique du rôle per vagare nei corridoi della scuola aggrappandomi alle liane e non avendo contezza della presenza di ristoranti nel noto arcipelago situato tra Norvegia e Islanda, ho scelto la terza opzione, con non poco sgomento.
Questa cosa, però, ha continuato a ronzarmi in testa.
Com'è possibile che non si conosca un termine che ovviamente non entra nella comunicazione quotidiana di persone adolescenti ma che pure - credo - sia una parola piuttosto diffusa?
La sensazione, ormai sempre più netta, è quella della presenza di due lingue, distinte e separate, in cui la discriminante non è l'origine geografica o la classe sociale di appartenenza, quanto piuttosto l'età.

Immagino lo sforzo titanico a cui si devono sottoporre ragazze e ragazzi che cercano di usare - com'è normale che sia, com'è sempre stato e come sempre sarà - il linguaggio che vogliono gli adulti nel momento in cui devono fare un'interrogazione o devono scrivere un compito, raggiungendo talvolta risultati ai limiti del grottesco.
È esattamente la stessa cosa che facevo io quando dovevo tradurre le versioni di greco ed usavo un vocabolario che ancora oggi si usa - il famigerato Rocci, chi ha fatto il classico lo sa - ma che ai tempi proponeva traduzioni dei lemmi greci in un italiano incomprensibile, ma che mi affascinava.
Usando imperocchè o fo da mallevadore pensavo che le mie traduzioni sarebbero state più eleganti o almeno avrebbero dato l'impressione che avevo capito qualcosa di quel testo di Senofonte o del temutissimo Tucidide.

Solo dopo ho scoperto  - a mie spese - che le cose non stavano così.

Al momento della verifica, dicevo, gli studenti devono usare un linguaggio che non appartiene loro, che fanno fatica a padroneggiare, abituati ad esprimersi in un modo non migliore, non peggiore ma semplicemente diverso rispetto a quello degli adulti. 

È pacifico il fatto che termini come boomer, cringiare, snitchare, chillare, bro, giga chad non sono utilizzabili mentre si parla dello Stilnovo o della poesia ermetica, mentre si raccontano le imprese di Orlando o i dolori di Jacopo Ortis.
È altrettanto pacifico che non è accettabile il fatto che si parli di Accademia della Carruba (invece di accademia della Crusca) e si confonda giudizioso con giudicante o caffetteria e caffettiera.
Trovo, però, incomprensibile lo sdegno, manifestato solitamente con atteggiamenti teatralmente tragici, da parte di colleghe e colleghi - ma anche di adulti in generale - che ritengono inaccettabile questo imbarbarimento della lingua che chissà dove ci porterà, signora mia.

Accettare il cambiamento, sedersi - metaforicamente - ad un tavolo da cui si lasciano lontani pregiudizi e pretese superiorità per confrontarsi sulla lingua e provare a trovare un terreno comune, tramite di comunicazione intergenerazionale.
Io, adulto, mi impegno a spiegare parole che appaiono desuete o difficili in modo che possano essere comprese da chi a quelle parole non associa alcun significato; tu, adolescente, ti sforzi di spiegarmi con parole per me comprensibili la tua lingua, così da poter facilitare la comunicazione, anche ad un livello più profondo. E no, non basta leggere per migliorare la lingua se non si è curiosi di scoprire il significato delle parole che non si conoscono. E la curiosità non nasce spontanea, ma ha bisogno di essere stimolata costantemente.

Poi, ognuno può tornare alla propria lingua, arricchito, però, dalla conoscenza della lingua dell'altro, nella consapevolezza che ogni sistema linguistico è espressione di una cultura e di un modo particolare, non migliore né peggiore, di vedere le cose.

10 novembre 2024

La società degli incompresi

Come mi capita spesso, quando non trovo le parole, sono le parole a trovare me.

L'incomprensione regna sovrana. 
Ognuno di noi si sente capito da pochissime persone e solo ogni tanto. 
Anche quelli che ci capiscono, non sempre hanno voglia di farlo. 
Tutta questa enorme massa di comunicazione e tentativi di farci capire, di farci avvistare, alla fine si conclude con la consapevolezza che è difficilissimo essere compresi e ancora di più avvistati. 
Le incomprensioni riguardano sia la Rete sia la cosiddetta realtà. La gente non ci capisce perché è nervosa, ha troppi fuochi accesi, nessuno può essere esaminato con attenzione benevola. Ognuno di noi è condannato per direttissima o rinviato a giudizio. Nessuno è disposto a giurare sulla nostra innocenza, nemmeno la persona che ci ama.
L'età dell'incomprensione produce depressioni e malattie fisiche. [...] Negli ospedali c'è il reparto per i cardiopatici, non c'è il reparto per gli incompresi. 
Sarebbe ora di istituire una sorta di pronto soccorso psicologico in cui poter andare e dire: nessuno mi capisce, provate a farlo voi. 
Tutte le discussioni che facciamo sull'emergenza climatica e su altri disastri provocati dall'uomo sono destinate a rimanere senza risposta se non ci occupiamo dello stato delle anime. 
Primo punto: le persone hanno il diritto di essere almeno vagamente capite per quelle che sono. Sembra facile e invece non accade quasi mai. 
Anche nelle scuole bisognerebbe occuparsi di questo problema: l'ora di religione non riscuote molto interesse, ci vorrebbe un tempo in cui sin da bambini si facciano esercizi per capire ed essere capiti.
Non si tratta di accrescere i nostri saperi, ma la nostra comprensione ed empatia.
Gli altri non sono morti e invece noi ci comportiamo come se questo fosse già accaduto, già assodato.

Le parole di Franco Arminio sono, come sempre, balsamo e sale sulle ferite.
Rifletto seriamente sul presente e sul futuro, su quello che vorrei fare e vorrei essere e su quello che sono e faccio.
Ultimamente ho la sensazione di infilare azioni e parole sbagliate come perline in un braccialetto, con metodo e concentrazione, e di errare - nella duplice accezione di sbagliare e di vagare - senza un fine e senza una fine. 
Mi sembra di non saper fare anche quello che fino a ieri mi riusciva e di non avere più certezze su quello che avevo conquistato con fatica.
Accolgo lacrime ma penso di non avere gli strumenti per farlo e ripenso, sempre più convinto, alla necessità di un fronte comune per la difesa della parlarsi di persona: stiamo perdendo l'abitudine di guardarci negli occhi, preferendo sempre di più la via facile della comunicazione a distanza, anche con le persone a cui vogliamo bene. Ci schermiamo, sentiamo sempre di aver bisogno di protezione e non capiamo che lo spazio vuoto che noi creiamo e che ci fa sentire sicuri diventa spesso una voragine, impossibile da attraversare. 
Infine arriva la razionalità che mi dà una pacca sulla spalla e mi dice che è tutto a posto, che è tutto risolvibile, che sono tante piccole cose che si possono mettere a posto: non sempre ci credo, ma annuisco.

Niccolò Fabi, Offeso

03 novembre 2024

L'amuleto

Di moltissimi momenti della mia infanzia e della mia adolescenza non conservo alcuna traccia. 
Uno, però, si è affacciato l'altro giorno, prepotente e immotivato. alla mia mente: sto ancora cercando di capire il perché ma credo che lascerò perdere, perché è bello lasciarlo galleggiare così.

C'era un'aria fredda, quel giorno. Solo qualche anno dopo avrei scoperto che il freddo della mia Puglia non era freddo, ma a 15 anni non potevo saperlo.
Due colori: il grigio e il blu. 
Il grigio chiaro e il grigio scuro di una camicia che avevo ereditato da mio fratello: una camicia che ricordo di una bruttezza imbarazzante ma che indossavo con molto orgoglio perché mi faceva sentire grande.
Il blu scuro del vocabolario di greco, il famigerato Rocci: pesava, a portarlo in mano, forse ancora di più che mettendolo nello zaino. Ma mostrarlo al mondo era un segno di riconoscimento, era l'attestazione del fatto che frequentavi il classico e che quel giorno avresti avuto la versione: come a dire "ho una pistola e non ho paura di usarla".

In realtà, quel giorno di paura ne avevo e anche parecchia.
Sarà che i miei occhi insicuri andavano poco d'accordo con i caratteri minuscoli di quel vocabolario.
Sarà che avevo - ed ho ancora - una tendenza alla cialtroneria che prima o poi arriva sempre a chiedermi il conto.
Sarà che non ho mai avuto - e non ho ancora - consapevolezza di ciò che posso fare.
Sta di fatto che ero meno tranquillo del solito.

Ricordo ancora il gesto di mia madre che mi passa, quasi di nascosto, una piccola fodera di plastica trasparente, di quelle che servivano per proteggere la carta di identità, al cui interno era conservato un foglietto a quadretti un po' ingiallito. 
Questo è un amuleto - c'era scritto - non aprirlo se non vuoi che perda il suo potere.

Non ho assolutamente memoria di come sia andato quel compito, ma ricordo distintamente la sensazione di potere con cui sono uscito di casa.
Ho conservato quel foglietto religiosamente chiuso in un cassetto per mesi, temendo che davvero potesse perdere il suo potere se ne avessi letto il contenuto.

Poi un giorno non ce l'ho fatta e la curiosità ha avuto la meglio.

L'ho estratto dalla sua custodia, l'ho aperto con delicatezza e l'ho letto. 
Gli occhi, alla lettura di quelle parole, scritte con la grafia ampia e talvolta spigolosa di mia madre, mi si sono inumiditi. 
Con gli anni ho scoperto un'altra cosa: lo svelamento non ha fatto perdere all'amuleto il suo potere, ma, anzi, lo ha reso ancora più forte. Mi si affaccia alla memoria quella scritta e mi accarezza, ora come allora.

I genitori sono la mano, forte e accogliente talvolta, insicura e ruvida altre volte, su cui si poggiano farfalle.
Basta poco a danneggiarne le ali: un gesto avventato, anche involontario, un gesto di stizza, le dita che si stringono sul palmo in un breve accesso di rabbia.
Basta poco, un gesto di attenzione, uno sguardo amorevole, una carezza appena accennata, a far sì che la farfalla possa volare sicura, allontanarsi dalla mano ma senza dimenticarla mai.

Jacques Brel, Ne me quitte pas

Questo vento agita anche me

Generazione X e millennials, indossate le cuffie. È il momento di un quiz rivolto a voi. (Musica tensiva, tipo "Chi vuol essere miliona...