28 maggio 2023

M(‘)aggio scucciato*

“Va bene, abbiamo finito. Potete andare a posto”.

Siamo a maggio, il mese in cui buongiorno non è un saluto ma è un’utopia irrealizzabile, una esagerata dimostrazione di fiducia nel futuro, una evidente approssimazione per eccesso.
Siamo a maggio, su coraggio!, come cantava un profetico Umberto Tozzi ignaro di tutto, soprattutto di cosa sia questo mese a scuola: 31 giorni reali, 4356 giorni percepiti.

Ultimi compiti, ultime interrogazioni, ultime spiegazioni. Lacrime di coccodrillo di chi non ha studiato e tenta di recuperare con ogni metodo (commozione, corruzione, arrampicata libera sugli specchi); coccodrilli per coloro che ci hanno prematuramente lasciato perché tanto hanno capito che, non avendo studiato per otto mesi, è assolutamente privo di senso studiare il nono.

Caldo, insofferenza, perniciosi tormentoni estivi dietro l’angolo, maniche sempre più corte, centimetri di pelle scoperti in costante aumento. Se il padre Dante avesse visto tutto ciò, non dubito che avrebbe preso ispirazione per l’ambientazione di un girone infernale, di quelli in cui ci sono anime che si sono macchiati di peccati gravi, tipo condividere su Facebook post del tipo “NON AUTORIZZO FACEBOOK e bla bla bla” o mettere il parmigiano grattugiato sulle orecchiette e cime di rapa.

“Va bene, abbiamo finito. Potete andare a posto”, dico.
S. ha appena fatto la sua ultima interrogazione di latino.
Il latino allo scientifico è uno di quei misteri, una di quelle cose la cui motivazione va accettata per fede: certo, il ragionamento, le nostre radici, l’etimologia, Cicerone e Virgilio e tutto il resto… ma per i wannabe scienziati, ingegneri e medici del futuro è una palla (al piede) non indifferente, qualcosa che fa soffrire senza che questa sofferenza porti a nulla. Ne sono ormai consapevole e cerco (riuscendoci una volta su cento) a dare un senso anche se, per loro, un senso non ce l’ha.

Vedo S. un po’ turbata, con gli occhi un po’gonfi.
“Cosa c’è? Non sei contenta? È la tua ultima interrogazione di latino”
“Non so, prof, mi viene da piangere”
Lacrime di gioia? Di liberazione? Di consapevolezza della conclusione di un capitolo della propria vita?
Non lo so, ma mi fa riflettere su quanto la consapevolezza della fine di qualcosa ci faccia provare sempre un senso strano di nostalgia preventiva.
È raro, d’altra parte, avere la certezza che stiamo facendo una cosa, stiamo parlando con una persona, stiamo lottando con un nostro demone per l’ultima volta, anche se - essendo brutalmente realisti - è qualcosa con cui dovremmo quotidianamente fare i conti.

Tout casse, tout passe, tout lasse è stato (ed è) uno dei mantra della mia filosofa di riferimento, ovvero Madre: tutto si rompe, tutto passa, tutto stanca. Ho sempre fatto fatica ad accettarlo, nel bene e nel male: lasciar andare persone e situazioni negative, accettare con rassegnazione la fine di situazioni in cui ci si sente bene sono entrambe dimostrazioni di una grandissima forza di volontà che non si può dare per scontata.

Una sola cosa è certa: Maggio sta (finalmente) per finire. Finirà questo senso di stanchezza, di svogliatezza, di mancanza di stimoli. Forse no, ma è bello sperarlo.

* “mi sono stufato”

Carmen Consoli, Guarda l’alba

21 maggio 2023

I giorni perduti

Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernst Kazirra, rincasando, avvistò da lontano un uomo che con una cassa sulle spalle usciva da una porticina secondaria del muro di cinta, e caricava la cassa su di un camion.
Non fece in tempo a raggiungerlo prima che fosse partito. Allora lo inseguì in auto. E il camion fece una lunga strada, fino all'estrema periferia della città, fermandosi sul ciglio di un vallone.
Kazirra scese dall'auto e andò a vedere. Lo sconosciuto scaricò la cassa dal camion e, fatti pochi passi, la scaraventò nel botro; che era ingombro di migliaia e migliaia di altre casse uguali.
Si avvicinò all'uomo e gli chiese:
- Ti ho visto portar fuori quella cassa dal mio parco. Cosa c'era dentro? E cosa sono tutte queste casse?
Quello lo guardò e sorrise:
- Ne ho ancora sul camion, da buttare. Non sai? Sono i giorni.
- Che giorni?
- I giorni tuoi.
- I miei giorni?
- I tuoi giorni perduti. I giorni che hai perso. Li aspettavi, vero? Sono venuti. Che ne hai fatto? Guardali, intatti, ancora gonfi. E adesso?
Kazirra guardò. Formavano un mucchio immenso. Scese giù per la scarpata e ne aprì uno. C'era dentro una strada d'autunno, e in fondo Graziella la sua fidanzata che se n'andava per sempre. E lui neppure la chiamava.
Ne aprì un secondo. C'era una camera d'ospedale, e sul letto suo fratello Giosuè che stava male e lo aspettava. Ma lui era in giro per affari.
Ne aprì un terzo. Al cancelletto della vecchia misera casa stava Duk il fedele mastino che lo attendeva da due anni, ridotto pelle e ossa. E lui non si sognava di tornare.
Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco. Lo scaricatore stava diritto sul ciglio del vallone, immobile come un giustiziere.
- Signore! - gridò Kazirra. - Mi ascolti. Lasci che mi porti via almeno questi tre giorni. La supplico. Almeno questi tre. Io sono ricco. Le darò tutto quello che vuole.
Lo scaricatore fece un gesto con la destra, come per indicare un punto irraggiungibile, come per dire che era troppo tardi e che nessun rimedio era più possibile. Poi svanì nell'aria, e all'istante scomparve anche il gigantesco cumulo delle casse misteriose. E l'ombra della notte scendeva.

È Dino Buzzati a raccontare mirabilmente in questo testo fulminante, I giorni perduti, un'esperienza comune, comunissima: guardarsi indietro e avere la chiara percezione di aver perduto irrimediabilmente qualcosa. L'amore, la famiglia, gli affetti incondizionati, nel caso di Kazirra.
Se avessi fatto, se avessi avuto il coraggio, se dicessi queste parole: il periodo ipotetico dell'irrealtà è uno degli inganni maggiori della nostra vita. Ragionare su cosa sarebbe successo se quel giorno - come mostrava il film Sliding doors - avessimo preso quel treno, fossimo stati sinceri, avessimo rivelato i nostri sentimenti, non serve - diciamocelo una volta per tutte -  assolutamente a niente se non ad alimentare rimorsi e a renderci perennemente insoddisfatti.
Altrettanto inutile è programmare il futuro: facciamo sogni, progetti, a breve e a lungo termine, ma poi, spesso, arriva qualcosa o qualcuno a sparigliare le nostre carte, a distruggere i nostri castelli che noi, imperterriti, ricominciamo a costruire. Una malattia, un lutto, un'alluvione.
Il presente raramente basta e altrettanto raramente ci soddisfa; se guardiamo al passato, spesso ci abbandoniamo al rimpianto (definito da D'Annunzio il vano pascolo di uno spirito disoccupato); quando ci rivolgiamo al futuro, non lo facciamo con la giusta disillusione, quella che ci permette di sapere che un lancio di dadi può mandare all'aria ogni nostro piano.
E allora?
Ponderare ogni scelta ragionando a lungo termine (me ne pentirò? Sono pronto a subirne le conseguenze), dire le parole - che siano d'amore o di odio - che abbiamo sulla punta della lingua aprendo un varco nel muro che ci blocca e ci impedisce di esprimerci liberamente, non rimandare quell'abbraccio, quella telefonata, quell'addio.
È facile? No.
È tardi per iniziare? No.
È risolutivo? Non lo so.
Aiuta? Sì.

Brunori Sas, Le quattro volte

18 maggio 2023

A 2 anni dalla morte di F.B.

Per me Battiato è mio padre che ascoltava chiuso nel suo studio i suoi cd e io che mi chiedevo cosa ci trovasse in quella musica strana e in quei testi incomprensibili, per capire i quali bisognava consultare enciclopedie.

Per me Battiato è un’estate siciliana (forse il 2003) accompagnata da un doppio cd live ascoltato fino allo sfinimento, capendoci poco ma trovando ugualmente una consonanza spirituale.

Per me Battiato è la scoperta dell’esistenza di una spiritualità nuova, lontana dai dogmi imposti dalla società occidentale, così difficile da comprendere eppure così desiderabile. 

Per me Battiato è il genio musicale che ti stupisce ogni volta e ti fa venire voglia di scoprire cose nuove tra cui i maledetti 7/8 al cui ritmo ballano coppie di anziani.

Per me Battiato è il maestro che mi insegnò (mi insegna e continuerà ad insegnarmi) com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire.

Ho un gran vuoto dentro, ma mi consolo pensando che noi non siamo mai morti e non siamo mai nati.

Franco Battiato, E ti vengo a cercare

14 maggio 2023

Gli ultimi saranno gli ultimi (se i primi continuano a giudicare)

L'altro giorno stavo preparando una lezione su Umberto Saba e la sua Città vecchia: sì, preparo ancora le lezioni nonostante il prossimo sarà il ventesimo anno di insegnamento, perché ho una pessima memoria, ma soprattutto perché negli anni cambio io, cambiano gli alunni, cambia la scuola e fare le stesse lezioni che ho fatto dieci anni fa sarebbe come indossare, nel 2023, le spalline che si portavano negli anni '80.

Preparando la lezione, dicevo, con un'idea non proprio originale, ho pensato di accostare la lettura della poesia all'ascolto di La città vecchia di De André, ancora suggestionato dal week end passato in Liguria poche settimane fa, con indispensabile tappa in Via del Campo.

Cercando in rete, ho trovato le parole che Faber ha utilizzato una volta per presentare questa canzone durante un concerto:

Certe volte ci sono dei comportamenti anomali che non si riescono a spiegare e quindi io ho sempre pensato che ci sia ben poco merito nella virtù e poca colpa nell'errore, anche perché non ho mai capito bene cosa sia la virtù e cosa sia l'errore.

Virtù ed errore, merito e colpa.

E la mentalità borghese con cui si tende a giudicare gli ultimi, quelli che abitano nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi.

Impossibile non riflettere su questo aspetto, su sé stessi e sul modo che si ha di guardare agli altri, giudicandoli secondo canoni che noi crediamo granitici e immutabili che, invece, probabilmente non sono tali.

Prima di giudicare qualcuno cammina tre lune nelle sue scarpe: diceva questo (o qualcosa di simile) un proverbio Sioux ma è così difficile farlo per cui giudichiamo incessantemente, diamo consigli e pareri non richiesti, dimenticando quello che Caparezza dice, magari male, ma in maniera molto efficace in Vengo dalla luna: "Tu sei nato qui perché qui ti ha partorito una fi*a".

Se solo pensassimo a quanto la nostra nascita e la nostra vita siano determinate da fattori casuali o al fatto che è solo fortuna se non siamo costretti a lottare con malattie o ad affidare la nostra vita ad un barcone forse impareremmo a tacere. E impareremmo che la vicinanza non si esprime con formule di convenienza, mandate a memoria e legate - magari aridamente - alla pietas cristiana, ma con il silenzio, con la commozione profonda e con la simpatia, intesa nel suo significato etimologico di soffrire insieme.

Ma, purtroppo, quando ci si trova in una situazione di privilegio, dall'altro del proprio scranno, poggiato, però, su qualcosa di estremamente fragile, non giudicare e tacere è difficile. Molto difficile.


Fabrizio de André, Città vecchia

10 maggio 2023

Convivere con la morte

 

Ciò che ha principalmente colpito (e forse irritato) l'opinione pubblica nell’intervista rilasciata da Michela Murgia al Corriere della Sera è stata – a mio modo di vedere – la serenità con cui, almeno apparentemente, la scrittrice sta affrontando la consapevolezza di avere ancora pochi mesi di vita.

La nostra società fa fatica ad accettare l’idea della morte (nonostante il saggio Svevo scrivesse ormai quasi cento anni fa “A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale) e tutti noi continuiamo a vivere nella convinzione che esisteremo per sempre, non rendendoci conto di quanto limitato sia lo spazio di tempo che abbiamo a disposizione, di quanto l’importanza, i premi, la considerazione di cui possiamo godere in questa vita siano relativi e limitati, di quanto sarebbe meglio non tenersi niente dentro, non rimandare ciò che vorremmo fare, non tacere le cose che vorremmo dire, di quanto sarebbe preferibile – in una parola – vivere.

E invece no, della morte non si parla se non in termini tragici e attraverso perifrasi: una persona non muore, ma viene a mancare, non è più tra noi, per chi è credente torna alla casa del Padre. Crediamo in questo modo di esorcizzare la morte e invece le diamo ancora più potere ed importanza perché la circondiamo dell’aura propria del tabù. Parlare di morte è quasi come parlare di sesso: tutti – in un modo o nell’altro – ne sono coinvolti, ma solo in pochi hanno il coraggio di parlarne pubblicamente e in modo esplicito.

E allora ben vengano (se non sono solo un fenomeno di costume) i Death cafè come quello nato a Torino, in cui si parla della morte tra un bicchier di vino ed un caffè per citare un Gino Paoli d’annata ma non troppo; ben vengano interviste come quelle di Michela Murgia in cui si sottolinea l’ineluttabilità della morte ma anche l’importanza di vivere appieno la propria vita; ben vengano i libri di poesia che affrontano questo tema, come la classica Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters o, in tempi molto più recenti, Cartoline dai morti di Franco Arminio. In questa raccolta, talvolta sul filo dell’ umorismo nero, si immaginano le ultime parole pronunciate da chi è in procinto di passare tra i più (per usare ancora una perifrasi, questa volta tratta dal mondo greco). Tra questi brevissimi componimenti ce n’è uno che mi commuove ogni volta che lo leggo e che voglio condividere, perché la bellezza va condivisa:

Volevo conservare per te un’ultima goccia di sangue, figlio mio. Sapevo che eri partito da Losanna per venire a trovarmi ancora viva. Mi sono punta con un ago la punta del dito. Ho messo la goccia di sangue sul comodino.

Bisogna imparare a morire durante la vita, come diceva Seneca; concedersi, proprio nei momenti di maggiore vitalità, qualche minuto di riflessione sul momento in cui non ci saremo più, per imparare ad affrontare la morte, per citare Orazio, con l’animo di un commensale che si alza, sazio, da tavola dopo un lauto banchetto.

Ma, forse, non basta una vita intera per imparare a morire.

Caparezza, La certa

07 maggio 2023

In difesa delle maschere (o forse no?)


"I maschi non piangono mai.
I maschi sono dei combattenti.
I maschi sono guerrafondai.
I maschi premono il grilletto.
I maschi prendono le cose di petto.
I maschi devono essere virili.
I maschi provano sempre attrazione,
I maschi non sono gracili.
I maschi amano le ragazze facili.
I maschi hanno sempre ragione"

La quarta di copertina di un libro conosciuto l'altro ieri e acquistato ieri ("Un ragazzo è quasi niente" di Lisa Balavoine) è un pugno nello stomaco: il romanzo, scritto in poesia - esperimento incredibilmente riuscito - racconto di Romeo, ragazzo di 16 anni, che non sente di aderire - neppure in minima parte - agli stereotipi di genere, alla maschera che ci si sente quasi in dovere di indossare per essere socialmente accettati. Ovviamente, non vale solo per gli adolescenti, non vale solo per i maschi.

La maschera è una difesa, è un modo per nascondere una parte di noi stessi che temiamo non piaccia agli altri, per preservare il nostro tallone d'Achille, quel piccolo appezzamento di anima che sappiamo essere vulnerabile. E a nessuno di noi piace esserlo, nessuno ama essere in balia degli altri, pochi accettano l'idea che per la propria salvezza non passa solo attraverso le proprie mani.

Scegliere di mostrarsi per ciò che si è è un atto di coraggio e di fiducia, in sé stessi e negli altri: ma, come diceva Manzoni, il coraggio, uno, se non ce l'ha mica può darselo

Non è una colpa non avere coraggio, così come non lo è non avere fiducia in sé e negli altri: la sopravvivenza, a quel punto, richiede l'assunzione di una identità comoda, prêt-à-porter, già collaudata. Sono il maschio alpha e perfettamente concluso e sicuro di sé, sono la donna bella e stronza, sono il maschio calcio-birra-fi*a, sono la donna mamma. Facile, no?

Ma cosa succede quando poi la distanza tra ciò che mostriamo e ciò che siamo diventa incolmabile? O se ci immedesimiamo tanto nel nostro ruolo che la maschera modella la nostra identità al punto da farci dimenticare chi siamo realmente? Ma soprattutto, saremmo pronti ad un mondo in cui ognuno si mostra per ciò che è, abdicando a ruoli e a convenzioni ancestrali? Immagino un mondo in cui tutti ci dicono la verità, in cui non c'è filtro, protezione, difesa. 

Nel 1977, nella raccolta Diario di quattro anni, Montale scriveva così:

Chissà se un giorno butteremo le maschere
che portiamo sul volto senza saperlo.
Per questo è tanto difficile identificare
gli uomini che incontriamo.
Forse tra i tanti, fra i milioni c'è
quello in cui viso e maschera coincidono
e lui solo potrebbe dirci la parola
che attendiamo da sempre. Ma è probabile
che egli stesso non sappia il suo privilegio.
Chi l'ha saputo, se uno ne fu mai,
pagò il suo dono con balbuzie o peggio.
Non valeva la pena di trovarlo. Il suo nome
fu sempre impronunciabile per cause
non solo di fonetica. La scienza
ha ben altro da fare o da non fare.

Saremmo pronti? Credo di no. 

Nirvana, Come as you are

01 maggio 2023

La fortuna di incontrarsi

"Essa dunque ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve, che non s’intendeva come si fosse arrivati a darsi del tu dopo non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non rivedersi mai più per un altro infinito tempo"

Rileggevo l'altro giorno in classe queste parole tratte da "La coscienza di Zeno" di Italo Svevo, uno di quei romanzi imprescindibili nonostante il timore che incute per la mole, per il tipo di scrittura, per il coinvolgimento che richiede nel lettore.

Riflettevo proprio sui casi che ci permettono di incontrare persone preziose nel nostro cammino, che sono in grado di influire sul nostro umore, sulla nostra vita. Quelle persone dagli occhi più fuggitivi che ridenti che, nonostante l'estrema fatica che fanno a parlare di sé, decidono di condividere con te, per un istante, quello che sono per poi richiudersi a riccio senza pensare a quanto quelle parole ti possano aver arricchito; quelle persone che, incrociando solo il tuo sguardo, hanno già capito tutto di te e te lo dicono con un abbraccio, con un sorriso, con una mezza parola tra i denti; quelle persone con cui ridi, ridi apertamente, liberamente e chi se ne frega se gli altri che vi vedono comunicare quasi senza parlare pensano che siate matti.

Il caso ogni tanto ci vuole bene e ce li fa incontrare.

Il fato è crudele e, che noi vogliamo o no, ce li sottrae in maniera irrevocabile.

Cosa si può fare? Scegliere le persone con estrema cura, coltivare i rapporti con dedizione, superare le asperità che si incontrano lungo il percorso e che, ogni tanto, ci fanno venire voglia di mollare tutto e tutti. Ed imparare ad accettare serenamente che tutto ciò che è vivo è destinato a finire, a morire. 

Scrive Valerio Magrelli nella sua ultima raccolta di poesie dal titolo Exfanzia

Ci incroceremo in treno.
a metà tratta,
tu verso Sud, io al Nord,
sulla stessa linea,
ma senza neanche accorgercene.
Sarà un momento,
i due vagoni passeranno vicini,
senza neanche accorgersene.
Mentre lo scrivo, mi riempio di tristezza,
e invece bisogna sorridere
all'infinita crudeltà della vita.


Non c'è altro da aggiungere.

Francesco Guccini, Incontro

La fisica e l'ineluttabilità del destino

Non chiedetemi perché, ma una delle due cose di fisica che mi è rimasta inspiegabilmente nella memoria è l'effetto Doppler, quello che f...