28 maggio 2023
M(‘)aggio scucciato*
21 maggio 2023
I giorni perduti
18 maggio 2023
A 2 anni dalla morte di F.B.
Per me Battiato è mio padre che ascoltava chiuso nel suo studio i suoi cd e io che mi chiedevo cosa ci trovasse in quella musica strana e in quei testi incomprensibili, per capire i quali bisognava consultare enciclopedie.
Per me Battiato è un’estate siciliana (forse il 2003) accompagnata da un doppio cd live ascoltato fino allo sfinimento, capendoci poco ma trovando ugualmente una consonanza spirituale.
Per me Battiato è la scoperta dell’esistenza di una spiritualità nuova, lontana dai dogmi imposti dalla società occidentale, così difficile da comprendere eppure così desiderabile.
Per me Battiato è il genio musicale che ti stupisce ogni volta e ti fa venire voglia di scoprire cose nuove tra cui i maledetti 7/8 al cui ritmo ballano coppie di anziani.
Per me Battiato è il maestro che mi insegnò (mi insegna e continuerà ad insegnarmi) com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire.
Ho un gran vuoto dentro, ma mi consolo pensando che noi non siamo mai morti e non siamo mai nati.
Franco Battiato, E ti vengo a cercare
14 maggio 2023
Gli ultimi saranno gli ultimi (se i primi continuano a giudicare)
L'altro giorno stavo preparando una lezione su Umberto Saba e la sua Città vecchia: sì, preparo ancora le lezioni nonostante il prossimo sarà il ventesimo anno di insegnamento, perché ho una pessima memoria, ma soprattutto perché negli anni cambio io, cambiano gli alunni, cambia la scuola e fare le stesse lezioni che ho fatto dieci anni fa sarebbe come indossare, nel 2023, le spalline che si portavano negli anni '80.
Preparando la lezione, dicevo, con un'idea non proprio originale, ho pensato di accostare la lettura della poesia all'ascolto di La città vecchia di De André, ancora suggestionato dal week end passato in Liguria poche settimane fa, con indispensabile tappa in Via del Campo.
Cercando in rete, ho trovato le parole che Faber ha utilizzato una volta per presentare questa canzone durante un concerto:
Certe volte ci sono dei comportamenti anomali che non si riescono a spiegare e quindi io ho sempre pensato che ci sia ben poco merito nella virtù e poca colpa nell'errore, anche perché non ho mai capito bene cosa sia la virtù e cosa sia l'errore.
Virtù ed errore, merito e colpa.
E la mentalità borghese con cui si tende a giudicare gli ultimi, quelli che abitano nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi.
Impossibile non riflettere su questo aspetto, su sé stessi e sul modo che si ha di guardare agli altri, giudicandoli secondo canoni che noi crediamo granitici e immutabili che, invece, probabilmente non sono tali.
Prima di giudicare qualcuno cammina tre lune nelle sue scarpe: diceva questo (o qualcosa di simile) un proverbio Sioux ma è così difficile farlo per cui giudichiamo incessantemente, diamo consigli e pareri non richiesti, dimenticando quello che Caparezza dice, magari male, ma in maniera molto efficace in Vengo dalla luna: "Tu sei nato qui perché qui ti ha partorito una fi*a".
Se solo pensassimo a quanto la nostra nascita e la nostra vita siano determinate da fattori casuali o al fatto che è solo fortuna se non siamo costretti a lottare con malattie o ad affidare la nostra vita ad un barcone forse impareremmo a tacere. E impareremmo che la vicinanza non si esprime con formule di convenienza, mandate a memoria e legate - magari aridamente - alla pietas cristiana, ma con il silenzio, con la commozione profonda e con la simpatia, intesa nel suo significato etimologico di soffrire insieme.
Ma, purtroppo, quando ci si trova in una situazione di privilegio, dall'altro del proprio scranno, poggiato, però, su qualcosa di estremamente fragile, non giudicare e tacere è difficile. Molto difficile.
Fabrizio de André, Città vecchia
10 maggio 2023
Convivere con la morte
Ciò che ha principalmente colpito (e forse irritato) l'opinione pubblica nell’intervista rilasciata da Michela Murgia al Corriere della Sera è stata – a mio modo di vedere – la serenità con cui, almeno apparentemente, la scrittrice sta affrontando la consapevolezza di avere ancora pochi mesi di vita.
La nostra società fa fatica ad accettare l’idea della morte (nonostante il saggio Svevo scrivesse ormai quasi cento anni fa “A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale) e tutti noi continuiamo a vivere nella convinzione che esisteremo per sempre, non rendendoci conto di quanto limitato sia lo spazio di tempo che abbiamo a disposizione, di quanto l’importanza, i premi, la considerazione di cui possiamo godere in questa vita siano relativi e limitati, di quanto sarebbe meglio non tenersi niente dentro, non rimandare ciò che vorremmo fare, non tacere le cose che vorremmo dire, di quanto sarebbe preferibile – in una parola – vivere.
E invece no, della morte non si parla se non in termini tragici e attraverso perifrasi: una persona non muore, ma viene a mancare, non è più tra noi, per chi è credente torna alla casa del Padre. Crediamo in questo modo di esorcizzare la morte e invece le diamo ancora più potere ed importanza perché la circondiamo dell’aura propria del tabù. Parlare di morte è quasi come parlare di sesso: tutti – in un modo o nell’altro – ne sono coinvolti, ma solo in pochi hanno il coraggio di parlarne pubblicamente e in modo esplicito.
E allora ben vengano (se non sono solo un fenomeno di costume) i Death cafè come quello nato a Torino, in cui si parla della morte tra un bicchier di vino ed un caffè per citare un Gino Paoli d’annata ma non troppo; ben vengano interviste come quelle di Michela Murgia in cui si sottolinea l’ineluttabilità della morte ma anche l’importanza di vivere appieno la propria vita; ben vengano i libri di poesia che affrontano questo tema, come la classica Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters o, in tempi molto più recenti, Cartoline dai morti di Franco Arminio. In questa raccolta, talvolta sul filo dell’ umorismo nero, si immaginano le ultime parole pronunciate da chi è in procinto di passare tra i più (per usare ancora una perifrasi, questa volta tratta dal mondo greco). Tra questi brevissimi componimenti ce n’è uno che mi commuove ogni volta che lo leggo e che voglio condividere, perché la bellezza va condivisa:
Volevo conservare per te un’ultima goccia di sangue, figlio mio. Sapevo che eri partito da Losanna per venire a trovarmi ancora viva. Mi sono punta con un ago la punta del dito. Ho messo la goccia di sangue sul comodino.
Bisogna imparare a morire durante la vita, come diceva Seneca; concedersi, proprio nei momenti di maggiore vitalità, qualche minuto di riflessione sul momento in cui non ci saremo più, per imparare ad affrontare la morte, per citare Orazio, con l’animo di un commensale che si alza, sazio, da tavola dopo un lauto banchetto.
Ma, forse, non basta una vita intera per imparare a morire.
Caparezza, La certa
07 maggio 2023
In difesa delle maschere (o forse no?)
"I maschi non piangono mai.
I maschi sono dei combattenti.
I maschi sono guerrafondai.
I maschi premono il grilletto.
I maschi prendono le cose di petto.
I maschi devono essere virili.
I maschi provano sempre attrazione,
I maschi non sono gracili.
I maschi amano le ragazze facili.
I maschi hanno sempre ragione"
La quarta di copertina di un libro conosciuto l'altro ieri e acquistato ieri ("Un ragazzo è quasi niente" di Lisa Balavoine) è un pugno nello stomaco: il romanzo, scritto in poesia - esperimento incredibilmente riuscito - racconto di Romeo, ragazzo di 16 anni, che non sente di aderire - neppure in minima parte - agli stereotipi di genere, alla maschera che ci si sente quasi in dovere di indossare per essere socialmente accettati. Ovviamente, non vale solo per gli adolescenti, non vale solo per i maschi.
La maschera è una difesa, è un modo per nascondere una parte di noi stessi che temiamo non piaccia agli altri, per preservare il nostro tallone d'Achille, quel piccolo appezzamento di anima che sappiamo essere vulnerabile. E a nessuno di noi piace esserlo, nessuno ama essere in balia degli altri, pochi accettano l'idea che per la propria salvezza non passa solo attraverso le proprie mani.
Scegliere di mostrarsi per ciò che si è è un atto di coraggio e di fiducia, in sé stessi e negli altri: ma, come diceva Manzoni, il coraggio, uno, se non ce l'ha mica può darselo.
Non è una colpa non avere coraggio, così come non lo è non avere fiducia in sé e negli altri: la sopravvivenza, a quel punto, richiede l'assunzione di una identità comoda, prêt-à-porter, già collaudata. Sono il maschio alpha e perfettamente concluso e sicuro di sé, sono la donna bella e stronza, sono il maschio calcio-birra-fi*a, sono la donna mamma. Facile, no?
Ma cosa succede quando poi la distanza tra ciò che mostriamo e ciò che siamo diventa incolmabile? O se ci immedesimiamo tanto nel nostro ruolo che la maschera modella la nostra identità al punto da farci dimenticare chi siamo realmente? Ma soprattutto, saremmo pronti ad un mondo in cui ognuno si mostra per ciò che è, abdicando a ruoli e a convenzioni ancestrali? Immagino un mondo in cui tutti ci dicono la verità, in cui non c'è filtro, protezione, difesa.
Nel 1977, nella raccolta Diario di quattro anni, Montale scriveva così:
Chissà se un giorno butteremo le maschere
che portiamo sul volto senza saperlo.
Per questo è tanto difficile identificare
gli uomini che incontriamo.
Forse tra i tanti, fra i milioni c'è
quello in cui viso e maschera coincidono
e lui solo potrebbe dirci la parola
che attendiamo da sempre. Ma è probabile
che egli stesso non sappia il suo privilegio.
Chi l'ha saputo, se uno ne fu mai,
pagò il suo dono con balbuzie o peggio.
Non valeva la pena di trovarlo. Il suo nome
fu sempre impronunciabile per cause
non solo di fonetica. La scienza
ha ben altro da fare o da non fare.
Saremmo pronti? Credo di no.
Nirvana, Come as you are
01 maggio 2023
La fortuna di incontrarsi
"Essa dunque ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve, che non s’intendeva come si fosse arrivati a darsi del tu dopo non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non rivedersi mai più per un altro infinito tempo"
Rileggevo l'altro giorno in classe queste parole tratte da "La coscienza di Zeno" di Italo Svevo, uno di quei romanzi imprescindibili nonostante il timore che incute per la mole, per il tipo di scrittura, per il coinvolgimento che richiede nel lettore.
Riflettevo proprio sui casi che ci permettono di incontrare persone preziose nel nostro cammino, che sono in grado di influire sul nostro umore, sulla nostra vita. Quelle persone dagli occhi più fuggitivi che ridenti che, nonostante l'estrema fatica che fanno a parlare di sé, decidono di condividere con te, per un istante, quello che sono per poi richiudersi a riccio senza pensare a quanto quelle parole ti possano aver arricchito; quelle persone che, incrociando solo il tuo sguardo, hanno già capito tutto di te e te lo dicono con un abbraccio, con un sorriso, con una mezza parola tra i denti; quelle persone con cui ridi, ridi apertamente, liberamente e chi se ne frega se gli altri che vi vedono comunicare quasi senza parlare pensano che siate matti.
Il caso ogni tanto ci vuole bene e ce li fa incontrare.
Il fato è crudele e, che noi vogliamo o no, ce li sottrae in maniera irrevocabile.
Cosa si può fare? Scegliere le persone con estrema cura, coltivare i rapporti con dedizione, superare le asperità che si incontrano lungo il percorso e che, ogni tanto, ci fanno venire voglia di mollare tutto e tutti. Ed imparare ad accettare serenamente che tutto ciò che è vivo è destinato a finire, a morire.
Scrive Valerio Magrelli nella sua ultima raccolta di poesie dal titolo Exfanzia
Ci incroceremo in treno.a metà tratta,
tu verso Sud, io al Nord,
sulla stessa linea,
ma senza neanche accorgercene.
Sarà un momento,
i due vagoni passeranno vicini,
senza neanche accorgersene.
Mentre lo scrivo, mi riempio di tristezza,
e invece bisogna sorridere
all'infinita crudeltà della vita.
Non c'è altro da aggiungere.
Francesco Guccini, Incontro
Questo vento agita anche me
Generazione X e millennials, indossate le cuffie. È il momento di un quiz rivolto a voi. (Musica tensiva, tipo "Chi vuol essere miliona...
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