"Profe, le posso fare una domanda personale?"
È appena suonata la campanella della ricreazione e io sto cercando di rimettere nello zaino tutto quello che
ho sparso sulla cattedra: fogli, penne, agende, case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale.
La voce di N. mi coglie impreparato.
Sto ancora pensando alle lezioni appena fatte, una sulla storia di Didone ed Enea che ogni volta mi coinvolge emotivamente (della regina di Cartagine hanno appena detto che è una vigliacca perché si è suicidata, l'eroe troiano è stato appena etichettato come un infame ma nei loro brusii ho colto che il termine più gentile usato nei suoi confronti è stato stronzo) e un'altra sulla storia del Festival di Sanremo per mostrare loro come va impostato un testo espositivo su un argomento che si conosce bene.
Durante entrambe le lezioni percepivo su di me i loro sguardi sbigottiti, ma immagino per motivazioni diverse.
Dicevo, la voce di N. mi coglie impreparato perché in due anni, a differenza di sue compagne di classe della cui vita conosco anche particolari che non avrei voluto sapere, non mi ha mai rivolto la parola per questioni che non fossero puramente scolastiche.
"Dimmi pure"
"Ma lei ci crede alla persona giusta al momento sbagliato?"
La domanda da un milione di dollari. Non trovo le parole, ma so che devo farlo perché si aspetta una risposta da me, la persona più sbagliata a cui porre questa domanda, ma lei non può saperlo.
Iniziamo a ragionare sulla persona giusta che rende giusto anche il momento sbagliato, su quanto sia difficile pensare di piacere agli altri quando non si piace a sé stessi sopratutto perché in passato c'è stato chi ci ha fatto perdere la fiducia in noi, sui momenti di crisi che ogni tanto ci prendono e su come un'altra persona ci possa aiutare, sul maschile e sul femminile.
Mi guarda con i suoi occhi che sembrano perennemente impauriti, la bocca semiaperta al cui interno brilla un apparecchio.
"Hai l'ora libera? Andiamo a prendere un caffè?"
Questa volta è la voce di una donna adulta, ma non mi coglie impreparato.
Per il caffè sono sempre pronto.
È una di quelle colleghe con cui mi è capitato spesso di affrontare discorsi che vanno al di là della scuola, della cui vita privata so qualcosa ma solo per cenni perché è molto riservata.
E invece il caffè è l'occasione che coglie per raccontarmi di sé, di una storia fatta di profonda sofferenza, di lacrime versate davanti a chi, ancora inconsapevole, chiedeva solo di essere accudito, di partenze improvvise legate ad un progetto ormai sfumato e di ricordi che è impossibile lasciarsi alle spalle e che, per quanto dolci, pesano talvolta come una zavorra. La ascolto in silenzio. Il dolore altrui mi lascia ammutolito.
Siamo nel bar della scuola, ci sono altri colleghi e alunni, ma questo non ci impedisce di avere gli occhi lucidi. Ed è quello l'esatto momento in cui capisco il dono prezioso che ho appena ricevuto: vedere una persona che spontaneamente decide di togliersi la corazza e mostrarsi nella sua fragilità.
Altra ora di lezione.
M. alza la mano durante il confronto su un libro che stiamo leggendo. Stiamo parlando di famiglie, genitori oppressivi, troppo presenti, che controllano tutto, che prospettano catastrofi ogni volta che i figli escono di casa. I cosiddetti genitori elicottero.
"I miei genitori - dice M. dal sorriso sincero e dagli occhi tristi - non mi chiedono mai dove vado, con chi sono e a che ora torno. I genitori dei miei amici gli scrivono su whatsapp continuamente.".
"E questo come ti fa sentire?"
"Triste. I miei genitori sono concentrati su mia sorella che dà loro un sacco di problemi, dice di essere in un posto e invece è in un altro".
Vorrei dirle qualcosa: frugo, cerco, indago, ma non trovo niente, È la campanella a salvarmi, come succede agli alunni poco diligenti.
Ragazze e ragazzi vanno via e io resto un attimo lì, nella biblioteca della scuola, avvolto dall'odore della carta dei libri. E penso che pur leggendo tanto - ma meno di quanto vorrei, pur scrivendo molto - ma meno bene di quanto vorrei, pur parlando sempre - a volte troppo e a volte male, niente di tutto questo mi aiuta a trovare le parole giuste al momento giusto.
"Lavoriamo per lasciare andare, non per assorbire" mi scrive una mia preziosa amica a cui racconto gli incontri della mattinata. Dovremmo essere fiumi, e invece io mi sento una dannata spugna. Provo a strizzarmi, ogni tanto, ma qualcosa di tutto questo si aggrappa dentro e non esce, proprio come acqua nella spugna mai perfettamente asciutta.
Non so se sia un male o un bene. Lo scoprirò. O forse no.
Niccolò Fabi, Io sono l'altro
Nessun commento:
Posta un commento