26 marzo 2023

Siamo noi la resistenza

Siamo noi la resistenza:

quelli che partono lo stesso nonostante i “chi te lo fa fare?”, i “ma tu sei pazzo!”, i “troppe responsabilità e zero soldi”;

quelli che contano mille volte che ci siano tutti e per mille volte ottengono un numero diverso tentando poi di giustificarsi con un misero “ma io non insegno mica matematica”;

quelli che al “ma noi siamo maggiorenni” rispondono con un serenissimo “non me ne frega niente. Questa settimana voi siete dei bambini e io sono vostro padre”

quelli che in aereo, in pullman, a pranzo, a cena, anche in bagno ascoltano gli sfoghi infiniti e i problemi esistenziali di tutti simulando interesse e combattendo con le ore di sonno mancanti (dato che ormai l’età avanza e non si è più in grado di accontentarsi di dormire poco, ammesso che lo si sia mai stati);

quelli che controllano che tutti mangino e che fingono di apprezzare la cena dell’albergo che di solito ha un livello di qualità che si colloca approssimativamente tra il cibo in scadenza di un discount e un bidone dell’umido;

quelli che, secondo gli studenti, hanno portato con sé una farmacia, tutti gli attrezzi necessari per il trucco è il parrucco ma anche una cassetta di attrezzi per il fai da te;

quelli che “ma che ingiustizia! Ha un bagno tutto per sé e noi no” (e ci mancava solo di dover condividere il bagno con degli adolescenti);

quelli che “ma che ingiustizia! Lei ha la stanza più bella di tutte” (e per cosa credete che abbia deciso di prendere una laurea ed insegnare se non per la sedia con i braccioli in classe e per la stanza più bella o almeno singola quando sono in gita?);

quelli che, nonostante tutte le difficoltà e le enormi ansie, nonostante “i ragazzi di oggi sono maleducati, ignoranti e presuntuosi” (che meraviglia le generalizzazioni!), nonostante il casino lasciato a casa, nonostante “i viaggi di istruzione sono inutili perché i ragazzi girano già il mondo da soli”, pensano che sia bello e necessario permettere a tutti di costruirsi un ricordo - spesso piacevole ma comunque indelebile - del viaggio di istruzione dell’ultimo anno delle superiori;

quelli che accompagnano i ragazzi in gita.

Ammesso e non concesso che io torni vivo e non venga incriminato per un qualunque reato commesso da me o da terzi, sono comunque pronto a ritrattare ogni singola parola e a sottoscrivere con il sangue che non accompagnerò mai più nessuno neanche nel giardino di fronte a scuola.

Ma nel frattempo parto.

Cesare Cremonini, Buon viaggio


19 marzo 2023

19 marzo

Ogni tanto ti senti forte e credi davvero di essere una roccia a cui i figli possono aggrapparsi anche nelle tempeste più violente.

Altre volte sei tu a sgretolarti e sai di non poter essere utile neppure a te stesso.

Certi giorni ti senti il peggiore del mondo, credi di star sbagliando tutto e che provocherai in loro chissà quali traumi.

Altri giorni riesci a placare le loro ansie, a regalare loro la felicità, ad esserci e pensi (o ti illudi) di lasciare degli insegnamenti che siano un possesso eterno.

C’è la volta in cui riesci a mantenere la calma e a riportare il sereno anche quando intorno c’è baraonda.

E poi una volta la linea che devia minimamente dal tracciato ti mette in crisi e tira fuori il peggio di te.

Non vuoi essere un padre padrone.

Non puoi essere un padre amico.

Vuoi mostrare la tua parte sensibile e vulnerabile senza perdere l’aura da supereroe senza macchia e senza paura.

Vorresti non fare gli errori che pensi di aver subito (ma sai che ne fai anche di peggiori).

Vuoi essere presente (ma non sempre ne hai la forza e la volontà).

Vuoi con tutto te stesso renderli autonomi ma ti piace che ti chiedano le coccole prima di andare a dormire.

Nessuno ti insegna ad essere padre: lo impari ogni giorno ed è una continua scoperta costellata di successi e frustrazioni.

Auguri a tutti i papà, i padri, i babbi: a chi lo è, lo è stato, lo sarà; a chi vorrebbe esserlo, a chi lo è di cuore o di testa, a chi ha tanti figli pur non essendo padre.

Cat Stevens, Father and son

12 marzo 2023

Lavorare stanca

Lavorare stanca e ciò è insito nella sua etimologia: il latino labor vuol dire, appunto, "fatica". 

Il lavoro è la punizione di Dio per Adamo che non ha obbedito ai suoi comandi, ma è anche, secondo Virgilio, un premio in quanto permette all'uomo di evitare il gravis veternus, il pesante torpore di inerzia. Il lavoro è, secondo il vecchio adagio, ciò che nobilita l'uomo ed è ciò su cui è fondata la nostra Repubblica secondo il primo articolo della Costituzione.

Ultimamente, però, il lavoro sembra diventato un'ossessione: nella società della performance in cui viviamo e da cui siamo permeati, cerchiamo sempre di essere (o di mostrarci) impegnati, ricercati, indaffarati per apparire sempre al meglio e sul pezzo; se abbiamo del tempo libero ci sentiamo quasi in colpa, dopo un primo momento di ebbrezza. 

A questo va aggiunto anche quello che il filosofo austriaco Ivan Illich chiamava lavoro ombra, ovvero tutto quel lavoro che, grazie all'automazione, noi facciamo al posto di altri senza essere retribuiti: siamo i commessi del nostro supermercato, i nostri agenti di viaggio, gli impiegati del check-in all'aeroporto. In tutti questi casi, a toglierci tempo è stata proprio quella tecnologia che, invece, ci lusinga costantemente con la promessa di farci avere più tempo per noi. Ma lo vogliamo realmente? 

Ho sperimentato sulla mia pelle questa sensazione: nei miei 7 anni di vita trascorsi nella produttiva Milano lavorare - ufficialmente - mezza giornata in mezzo a tanta gente che produce come cantava Giorgio Gaber generava in me un senso di inferiorità rispetto agli impiegati nine-to-five che affollavano la metropolitana nelle ore di punta. Non coglievo l'importanza di avere più tempo da amministrare lontano dal posto di lavoro, tempo da utilizzare per leggere, coltivare me stesso e le mie passioni, persino annoiarmi.

"La palese astensione dal lavoro è il segnale convenzionale di uno status pecuniario superiore": così il sociologo Thorstein Veblen nel 1899. Certo non era il mio caso: non ho mai provato la sensazione di vivere in uno status pecuniario superiore e credo non mi succederà mai, ma se l'antico detto il tempo è denaro ha un fondo di verità, credo di aver vanificato un patrimonio notevole.

Quindi, in cosa abbiamo sbagliato? Qual è stato il punto di rottura? Ma soprattutto come si esce da questo labirinto apparentemente senza uscita? Da una parte senza lavoro non si può vivere, dall'altra diventiamo work-addicted e lo rendiamo nostra unica ragione di vita, un dio pagano a cui sacrificare ogni nostra energia e ogni nostro momento.

"Monotona cosa è il genere umano. Quasi tutti passano la maggior parte del tempo a lavorare per vivere, e quel po' di libertà che gli avanza li opprime talmente tanto che cercano con ogni mezzo di liberarsene". Scriveva così Goethe nel 1774 nel romanzo I dolori del giovane Werther.

Gli uomini si sentono, paradossalmente, oppressi dalla libertà tanto che cercano ogni mezzo per liberarsene e il mezzo privilegiato per raggiungere questo fine è il lavoro.

Sono passati 250 anni e non è cambiato nulla, anzi: ma io lavoro per non stare con te suona davvero come la frase-chiave di una generazione, o forse proprio di un momento storico, in cui stiamo perdendo il senso della comunità, resa sterile dalla finta socialità internettiana, a tutto vantaggio dell'individualità, del risultato individuale, del solipsismo.

Forse è il momento di rendersene conto e di cercare una strada alternativa.

Franco Battiato, Un'altra vita

05 marzo 2023

Pane e coraggio

"L'Italia è un paese razzista".

Lo dice tra i denti e a bassa voce P. ma è al primo banco ed io la sento: le chiedo di ripetere quello che ha detto.

"L'Italia è un paese razzista, profe. Glielo dico per esperienza"

È nera P. ed è mia alunna da tre anni, ma solo in quel momento mi sono concentrato su questo particolare. Mi hanno insegnato che si dice nera, non di colore per il semplice motivo che anche il bianco è un colore per cui di colore lo saremmo tutti e poi questa espressione puzza un po' di censura dovuta al pudore, di tentativo di girare intorno ad una parola pur di non dirla, edulcorandola come se fosse qualcosa di sbagliato.

Tutto è partito da un post di Espérance Hakuzwimana Ripanti, autrice del libro Tutta intera che, come raccontavo in un altro post, sto leggendo con le mie studentesse e i miei studenti: la scrittrice, che avremmo dovuto incontrare a scuola tra qualche settimana, ha deciso di interrompere il tour promozionale del libro. Ho provato ad immaginare cosa possa spingere ad una decisione così impegnativa una persona di trent'anni che pubblica il suo primo libro con una casa editrice importante e che dovrebbe essere motivatissima ad andare avanti e dovrebbe avere una incredibile voglia di emergere e di raccontare.

Quando le ho lette, quelle parole mi hanno fatto male: difficoltà economica, pesanti stati di ansia, frustrazione e subdoli atti di razzismo, tutto concentrato in poche righe. Se dico che capisco in realtà sto inconsapevolmente mentendo perché non so cosa voglia dire avere 20€ sul conto, svegliarsi piangendo o andare a letto con la tachicardia, ma soprattutto non so cosa voglia dire essere nero. Mettersi nei panni di è una pratica di cui ci si riempie spesso la bocca, ma che, nei fatti, resta un modo di dire: posso provare vicinanza umana, empatia ma non posso comprendere. E quindi non posso giudicare.

Condivido con le mie studentesse e i miei studenti il post: P. allora mi racconta quello che lei e sua madre hanno subìto e io provo rabbia: non l'ho mai sentita parlare così tanto, non ho mai visto il sorriso scomparire così improvvisamente dalle sue labbra. E il pensiero è andato al naufragio di Cutro: non alla tragedia, non al dramma di Cutro. Le parole altisonanti sembrano dare più importanza ad un evento e invece ne sottraggono la componente umana: per una tragedia, per un dramma nessuno può fare nulla, per un naufragio sì, ma tra il dire e il fare - mai come in questo caso - c'è di mezzo il mare e la volontà di sottolineare che la colpa non è mai da ascrivere a chi (non) accoglie, ma a chi parte.

E la mia mente corre all'Eneide e alle parole di Ilionèo che, giunto sulla terraferma dopo un lungo naufragio, pronuncia di fronte alla regina Didone queste parole: 

Ma che gente è questa? Che barbara patria consente
usi cosiffatti? Ci è interdetto l'asilo della riva,
ci muovono guerra, vietano di stanziarci in terraferma.
Se spregiate il genere umano e le armi dei mortali,
temete almeno negli dèi la memoria del bene e del male

Enea, un troiano, un turco, uno straniero, considerato dai Romani - popolo tendenzialmente rozzo e autocentrato - come un eroe, capostipite della propria stirpe, incarnazione dei valori che qualunque bravo cittadino avrebbe dovuto condividere.
Basterebbe questo a superare qualunque forma di razzismo.
E invece no. 

Ivano Fossati, Pane e coraggio

La fisica e l'ineluttabilità del destino

Non chiedetemi perché, ma una delle due cose di fisica che mi è rimasta inspiegabilmente nella memoria è l'effetto Doppler, quello che f...