30 luglio 2022

Bambini

Capita, talvolta, che un po’ di letture e di pensieri si incrocino, convergendo su uno stesso tema.

Sto leggendo il coinvolgente “La casa senza ricordi” di Donato Carrisi e ad un certo punto mi sono imbattuto in questa frase, pronunciata da uno psicologo infantile che sta spiegando il motivo per cui ha scelto di svolgere questo lavoro: 

Nessuno è disposto a credere alle storie dei bambini.

Nella sua semplicità, la frase afferma una verità incontrovertibile: i bambini sono spesso vittime predestinate ed inconsapevoli di un atteggiamento di superiorità proprio degli adulti che liquidano con superficialità alcune loro affermazioni come fantasiose o comunque indegne di ascolto.

Eppure mi capita spesso di perdermi a guardare il modo in cui i bambini interagiscono tra loro e con gli adulti, il modo in cui affrontano la realtà, fanno amicizia, interpretano quello che li circonda e penso che, se da adulti riuscissimo ad essere come loro o almeno a conservarne una parte, vivremmo in maniera più sincera i nostri rapporti con noi stessi e con l’altro da noi. 

Lo so, lo ha già detto Pascoli e so anche che non è la scoperta del millennio, ma quando una verità si rivela davanti agli occhi si ha sempre la sensazione di essere stati i primi a scoprirla.

Dicevo, all’inizio, di letture che si incrociano: grazie a figlio1 sto leggendo tutto (o quasi) quel che ha scritto Gianni Rodari. Qualche sera fa è stato il turno di un racconto, La canzone del cancello, che mi ha confermato che Rodari andrebbe letto nelle scuole di ogni ordine e grado, superando l’idea secondo cui si tratta di un autore per bambini. Nel testo (no spoiler) si parla proprio della capacità dei bambini di concepire cose che per gli adulti sono inesistenti e della difficoltà che gli adulti hanno nel ricordarsi quelle stesse cose che da bambini erano così evidenti. Ci si potrebbe, a questo punto, porre la questione della percezione: quale delle due visioni è vera? Quella dell’adulto, quella del bambino o entrambe? E se fossero entrambe vere, ciò vorrebbe dire che esistono tante visioni - tutte vere - quante sono le persone? Ok, troppo complicato.

Ultima lettura (che si incrocia con le precedenti) è “Exfanzia”, la più recente raccolta di uno dei miei punti di riferimento poetici, Valerio Magrelli, al cui interno c’è un testo che si chiama “Sotto la protezione di Pollicino”:

Mi sento così impaurito e solo al mondo

che perdo gli oggetti, uno a uno.

Per farmi ritrovare da qualcuno?

O alleggerisco il carico

per non andare a fondo?

Il bambino, come Pollicino, ha fiducia nel mondo circostante ed ha sempre e comunque la speranza di salvarsi.

L’adulto perde gli oggetti, non li lascia cadere (per cui non c’è alcuna azione volontaria) e non comprende neppure il senso di ciò che gli accade.

È davvero uno scontro impari, tra un gigante e un essere minuscolo. E l’essere minuscolo non è il bambino.

Brunori SAS, Il costume da torero

28 luglio 2022

Non aprite questo post

Vago su Netflix alla ricerca di qualcosa da vedere.

Alla fine finisco sempre lì: categoria HORROR. So che, visto il film, avrò la sensazione di aver perso tempo ma è più forte di me. È il mio porto sicuro, al netto delle assurdità che sono presenti quasi in ogni film del tipo famigliafelicechemuoremale (FFMM)

Vi agevolo sei di queste solenni baggianate, utili nel caso in cui la FFMM fosse la vostra:

1. Hai chiuso la porta sul retro? Ovviamente la risposta giusta è no. E qualora la porta fosse chiusa, i malviventi hanno un arsenale in grado di frantumare qualunque vetro. Soluzione? Chiudete quella fottuta porta, grazie.

2. Scappiamo in macchina! Nell’ordine: non si trovano le chiavi, le ruote sono state tagliate, il motore non parte, il serbatoio è vuoto. La macchina parte? C’è qualcuno sul tettuccio.

3. Non preoccupatevi, vado a vedere io! In tutte le famiglie normali c’è il parente scemo che, giocando a tombola, grida “ambo” dopo che è stato estratto un solo numero; nella FFMM c’è una persona, solitamente il padre, che decide di andare in un luogo della casa in cui nessuno andrebbe, neppure sotto effetto di allucinogeni o della visione di un qualunque programma politico di Rete4. Che poi, solitamente, quando il tizio/la tizia entra nel luogo in questione, c’è chi, guardandolo, urla NUOOOOO e chi mente. Piccolo corollario: la persona che va nel posto più pericoloso della casa ha solitamente qualche conflitto irrisolto con un membro della famiglia, tendenzialmente un adolescente mediamente intrattabile.

4. La struttura della casa. Ci fosse mai una famiglia che vive o passa le vacanze in un bilocale: no, la FFMM ha una casa di 15 locali minimo distribuiti su almeno 3 piani con affaccio privato sul lago (e barca che funziona esattamente come l’auto di cui si parlava prima), vicini simpaticoni e un bicchiere di vino che di default è sul ripiano della cucina. 

4. L’impianto elettrico. La FFMM spende pacchi di euro per riempire la casa di qualunque lusso (dal frigorifero che conta le calorie di ogni cibo contenuto in esso al piegaciglia per il cane di famiglia) ma non trova mai due soldi per cambiare il neon (che poi, chi li usa più) che illumina poco e male la cantina che ha grossomodo le dimensioni della provincia di Isernia.

5. I telefoni. Non funzionano. MAI.

6. Gli attrezzi del camino. In ogni casa di villeggiatura della FFMM che si rispetti c’è un camino. Vicino al camino ci sono gli attrezzi del camino. Tra gli attrezzi del camino non può mancare l’attizzatoio, il cui unico scopo è quello di essere utilizzato come arma improvvisata contro il nemico che sarà poi indispettito da questa mossa maldestra.

Queste caratteristiche sono praticamente tutte presenti in quello che, per me, è film horror per eccellenza, Funny games (2007) di Michael Haneke remake shot-for-shot dell’omonimo film dello stesso regista (e già questo ne denota la sanità mentale). D’altra parte con gli stessi ingredienti si possono cucinare piatti diversi che vanno dal piatto gourmet da millemila euro al mappazzone.

Jo Squillo, Orrore (perché anche la musica trash va rivalutata)

26 luglio 2022

In difesa dell’uomo verde

Mi costa scrivere questo post, ma credo che, quando qualcuno dice una verità (anche quando è una verità che è stata in malafede semplificata e in parte alterata) sia giusto riconoscerlo. D’altra parte anche un orologio rotto segna l’ora esatta due volte al giorno.
L’uomo verde del titolo non è chiaramente Hulk: è lombardo, ma non ha la saggezza del Marco dantesco; è un foodblogger; ai tempi del suo incarico di consigliere comunale di Milano propose di istituire delle carrozze separate sulla metropolitana riservate ai milanesi.
Sì, lui.
Ecco, l’altro giorno durante un comizio ha espresso la sua opinione su una questione molto importante dicendo che secondo lui è una follia assoluta (cito testualmente) che in alcune scuole facciano l’appello per cognome per non discriminare perché a 7 anni c’è qualche bambino che si sente fluido.
Eviterò di sparare sulla croce rossa e di far notare che l’appello, da che mondo è mondo si fa per cognome… eppure una cosa quasi vera c’è.
Per le situazioni di classi in cui ci sono studentesse o studenti che hanno disforia di genere e per le quali e i quali non è stata ancora attivata la carriera alias (ovvero quella serie di provvedimenti che permettono di utilizzare sui documenti scolastici di studenti e studentesse che hanno una situazione di questo tipo  un nome diverso da quello riportato sui documenti di identità e maggiormente aderente alla loro identità) il ministero dell’istruzione suggerisce di rivolgersi a tutti chiamandoli per cognome per evitare qualunque discriminazione e soprattutto l’imbarazzo di chi si chiama Giulia ma si sente Giulio (e viceversa). 
Quindi in quello che dice pierbigotto c’è una base di verità (l’uso del cognome) che lui (o chi per lui) distorce malamente per poter arrivare prima e più direttamente alla sua platea senza per questo essere accusato di aver detto una cosa totalmente falsa. Questa distorsione della realtà è parecchio pericolosa perché non è la semplice balla sparata dal politico che promette pensioni e alberi rigorosamente in numero multipli di mille ma è frutto della mistificazione in malafede di un dato vero e banalizza in maniera volgare situazioni che possono causare profonda sofferenza nelle persone coinvolte il tutto per meri fini elettorali.
E chiaramente il fine oratore che ha pronunciato questo discorso gode sapendo che quel che lui ha detto non è del tutto falso e che le prese in giro di cui è vittima non fanno altro che accrescerne la popolarità.
Di fronte a bestialità così evidenti, non limitiamoci all’irrisione: è molto più utile cercare di capire cosa c’è di vero e separarlo dal falso. Solo così - forse - si riesce a smontare una propaganda basata sempre e comunque sulla discriminazione dell’altro da sé, chiunque sia.

Brunori SAS, L’uomo nero

24 luglio 2022

Un con(s)iglio letterario

Lo so, questo calembour sembrerebbe brutto anche ai titolisti della Gazzetta dello Sport ma mi sembrava  il modo migliore (immaginate il peggiore…) per parlarvi di uno degli ultimi libri che ho letto, rigorosamente in cartaceo perché ho bisogno del contatto fisico con le pagine, devo poter tornare indietro per memorizzare quella parola che mi è piaciuta, ma devo anche poter andare avanti ed esercitare i diritti imprescrittibili del lettore di Daniel Pennac (nella cui lista manca quello che io pratico spesso e volentieri ovvero leggere un libro fino alla fine perché magari migliora e poi maledirmi per aver perso tempo perché no, non tutto migliora). Il libro in questione è

L’estate del coniglio nero di Kevin Brooks, Piemme 2014

Ho scoperto questo libro quasi per caso durante la manifestazione Mare di libri che si tiene a Rimini ogni anno e che presenta una serie di eventi ed incontri con autori di libri di letteratura young adult

Qualcuno adesso storcerà il muso immaginando testi dalle copertine improponibili e con colori così accesi che causano attacchi di epilessia e/o cecità temporanea, e dal contenuto melenso per cui lui ama lei che ama un altro e tutti sono afflitti da problemi adolescenziali, dall’acne alla famiglia disastrata a quella tempesta ormonale che ti fa sognare di accoppiarti con qualunque cosa/animale/persona abbia delle sembianze appena sopra il gradino del disgusto; soprattutto, però, quello che disturba è che tutto finisce sempre bene, vivono tutti felici e contenti lasciando infelice e scontento solo il lettore che, invece, resta brufoloso, con la famiglia disastrata e con qualunque desiderio inappagato.

Ad un certo punto, però, mi sono detto che non era possibile continuare ad ignorare una parte di letteratura a cui attingere per scegliere i libri da far leggere ai miei pargoli (che poi, li chiamo pargoli ma sono tendenzialmente donne e uomini con cervello idee muscoli ben più strutturati dei miei) e soprattutto far leggere “Zanna bianca” come ho visto e vedo fare da colleghe e colleghi in ogni parte di Italia in cui ho insegnato, meravigliandosi poi del fatto che i ragazzi abbiano trovato un filino poco moderna una storia ambientata durante la corsa all’oro nel Klondike (la stessa di Zio Paperone, per intendersi).

Intendiamoci, questo libro non è il capolavoro della letteratura, quello di cui in quarta di copertina si trovano le lodi sperticate da parte di un altro autore che giura di non aver mai letto un libro più bello (salvo poi comparire virgolettato sulla copertina di un altro libro che - assicura - è il migliore che abbia letto negli ultimi anni); è, però, una storia coinvolgente che vede protagonisti dei ragazzi, un covo segreto, una divetta di provincia e “quellostrano”. In una estate calda e sonnolenta, come sanno essere le estati di provincia nei paesi lontani dal mare, un gruppo di adolescenti decide di passare una serata insieme prima nel proprio covo utilizzato qualche anno prima e ormai in disuso perché sono cresciuti e poi al luna park.

Proprio il luna park diventa il luogo della sparizione di due di loro, la divetta e quellostrano (a cui è legato il coniglio nero del titolo), e Pete, il protagonista del racconto, farà di tutto per riuscire a ristabilire la verità. Nessun elemento è tralasciato in questa storia e, anche se non tutti i passaggi e i personaggi sono analizzati a fondo e in maniera originale, ognuno di essi costituisce il pezzo di un puzzle che risulta piacevole alla lettura e che incuriosisce perché la figura diventa comprensibile letteralmente all’ultima pagina, pur lasciando una parte della storia in sospeso.

Colonna sonora ideale, un pezzo che mi ricorda le mie estati da tardoadolescente (o da adolescente tardo, che forse è la definizione più adatta) e che mi riporta a quei pensieri, odori, sapori e disagi: Lunapop, Qualcosa di grande.

23 luglio 2022

L'importante è...

Finire? No. (che poi probabilmente quel "finire" era il fratello pudico di un altro verbo che la Rai aveva ritenuto sconveniente. Se non sapete questa storia, potete leggerla qui insieme ad altre storie di censura).

"L'importante è sorridere sempre". Questa scritta corredata di faccina sorridente mi è comparsa davanti agli occhi sul bancone della hall di un hotel in cui sono stato lo scorso fine settimana. Una scritta molto  boomer (è bastata una piccola ricerca su Google per poterne apprezzare tutte le varianti scritte con word art e amenità varie), una di quelle frasi motivazionali da 0,99 € che vendono al Lidl sotto casa.

Nella sua disarmante semplicità, la frase mi ha spinto a pormi una domanda: ma davvero è importante sorridere sempre? Non nego un sorriso a nessuno, neanche agli oggetti. Una volta un collega si stupiva del fatto che io riuscissi a mantenere la disciplina in classe pur essendo così sorridente (va detto che il soggetto in questione è uno di quelli da inserire nelle raccolta di figurine per la gioventù dal titolo "I DISAGIATI”, raccolta in 15 volumi disponibile nelle migliore sale docenti di tutta Italia... ma questa è un'altra storia). Ritornando al tema, quello che mi sono chiesto è se è davvero importante sorridere sempre e se davvero ci può garantire una vita migliore.

"Se c'è una cosa che mi fa spaventare del mondo occidentale è questo imperativo di rimuovere il dolore", scrive Brunori parlando dell'abitudine diffusa di ricorrere spesso ai farmaci: allargherei il concetto alla rimozione del dolore in generale. Quando qualcuno ci chiede "come stai?", abbiamo mai il coraggio di dire che non stiamo bene, che siamo preoccupati, che qualcosa ci toglie il sonno e la fantasia? No, se non con poche e selezionate persone, fortunate depositarie delle nostre paranoie. Perché avviene questo? Sostanzialmente perché pensiamo che sorridere sempre, nascondendo il lato oscuro della luna, sia la soluzione a tutto e perché apparteniamo tutti alla scuola "Tre persone possono mantenere un segreto se due di loro sono morte" (frase che la saggezza internettiana attribuisce a Benjamin Franklin) e quindi i nostri sentimenti, soprattutto quelli negativi, vanno tenuti dentro, nascosti, custoditi con la stessa pervicacia di Zio Paperone che protegge la numero 1.

Certo, non dico che esporre in ordine cronologico e/o alfabetico tutti i nostri traumi fin dall'età prenatale ogni volta che un malcapitato ci pone la fatidica domanda possa essere la soluzione a tutti i mali, anzi sospetto che questo atteggiamento farebbe sì che smettesse di rivolgerci la parola anche la voce automatica della cassa del casello autostradale. 

Bisognerebbe, però, avere il coraggio di smettere di sorridere quando non c'è nessun motivo per farlo, ammettere di non essere felici e cercare la causa del nostro malessere, chiedere aiuto e non vergognarsi di farlo: sarà un mondo migliore quello in cui si potrà dire di essere in cura da uno psicologo con la stessa naturalezza con cui si dice di essere andati dal dentista.

Ovviamente, tutto questo Secondo me (di Brunori SAS).

21 luglio 2022

Piove? È mercoledì? Sono a Cesena?

Quando nasce un blog - così come quando nasce qualunque cosa - il primo problema che si pone è “come lo chiamo?”. La questione non è di secondaria importanza perché dal nome che si impone dipende una parte della sorte: immaginatevi se László Bíró si fosse chiamato Concettino Quagliarulo… vi trovereste l’astuccio pieno di Quagliarulo, chiedereste una Quagliarulo per firmare, insomma, la nostra vita sarebbe meno bella. (Lo so, Bíró è il cognome, ma dato che ora, vivaddio, si può scegliere se dare il cognome dell’uno e dell’altro genitore dare, il mio ragionamento fila).

Il primo nome a cui avevo pensato era proprio “Piove, è mercoledì, sono a Cesena”. Scritto con i punti interrogativi, richiama un po’ le fini declamazioni di Carmen di Pietro di cui qui trovate una delle più toccanti interpretazioni; il sottotitolo del blog (nella sua forma originaria il sottotitolo del blog doveva essere “poesia e cialtroneria” e non è difficile capire il perché.

Piove? Non succede da circa 2 mesi (percepiti come mille ere geologiche)

È mercoledì? No.

Sono a Cesena? No, qualche volta sono passato dalla sua ridente stazione ferroviaria

Quindi, perché questo nome? Perché “A Cesena” (questo è il titolo della poesia a cui devo il mancato titolo), tratta dalla raccolta “Il giardino dei frutti” (1916) di Marino Moretti è, per me, una di quelle poesie feticcio, quelle che sai che non sono propriamente dei capolavori, che eviteresti volentieri di spiegare (e gli alunni eviterebbero molto volentieri di ascoltare) ma che, in un modo o nell’altro, infili sempre nel programma di quinta senza un’apparente ragione.

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.

Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia della casa senza posa,
schiuma a piè delle gronde come bava.

Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,

il sogno che non ti avvizzì, sorella
che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella la tua vita, bella,

bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora,
o sposa, io vedo tuo marito, sento,
oggi, a chi dici mamma, a una signora;

so che quell’uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolento,
il babbo che ti vuole un po’ di bene.

«Mamma!» tu chiami, e le sorridi e vuoi
ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida,
che le parli dei miei vïaggi, poi...

poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici rauca di non so che sfida
corsa tra voi; e dici, dici dove,

quando, come, perché; ripeti ancora

quando, come, perché; chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo, di nuora.

Parli d’una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;

parli del nonno ch’è quasi al tramonto,
il nonno ricco, del tuo Dino, e dici:
«Vedrai, vedrai se lo terrò di conto»;

parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d’amor proprio, d’amore.

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui
tutta d’un uomo ch’io conosco appena.

tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me parla... così,
senza dolcezza, mentre piove o spiove:

«La mamma nostra t’avrà detto che...
E poi si vede, ora si vede, e come!
sì, sono incinta... Troppo presto, ahimè!

Sai che non voglio balia? che ho speranza
d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome...
Ho fortuna, è una buona gravidanza...»

Ancora parli, ancora parli, e guardi
le cose intorno. Piove. S’avvicina
l’ombra grigiastra. Suona l’ora. È tardi.

E l’anno scorso eri così bambina!

È difficile trovare del bello, almeno in senso classico, in questa poesia che si inscrive nella cosiddetta corrente dei Crepuscolari, il cui nome richiama il crepuscolo, un momento di fine, di passaggio, di attesa di un uovo inizio (e qui il pensiero non può che andare a lui). Eppure…

Fingendo di non aver letto la rima “lava/bava”, guardiamo il contenuto: un fratello e una sorella, un matrimonio evidentemente infelice, le convenzioni borghesi che impediscono di esprimere questa infelicità, un contesto cittadino che priva i protagonisti di qualunque speranza. Si pone agli antipodi di quell’idea tipo “l’importante è sorridere sempre” di cui parlerò prossimamente.

Forse questo testo non ci piace perché dalla letteratura aspettiamo qualcosa di consolatorio, aspettiamo un risarcimento della realtà che non ci soddisfa e invece qui non vediamo altro se non una storia come tante, reale, descritta senza alcun tentativo di abbellirla.

Eppure c’è poesia.

Nel testo poetico più somigliante alla prosa che io conosca, si annida la forma poetica per eccellenza, si annida quella poesia negata dal contenuto. 

Pio-ve è-mer-co-le-dì-so-no a-Ce-se-na. 11 sillabe. Endecasillabo, verso classico della poesia. Tanti endecasillabi (se non avete niente da fare, potete verificare che lo siano tutti ma credo che qualunque cosa sia più gratificante di contare sillabe, anche scherzare a raccogliere ortiche) riuniti in gruppi di tre versi, detti terzine. Terzine di endecasillabi. Ricorda qualcosa? La Divina Commedia, la poesia per eccellenza, è scritta così.

A questo punto, io guarderei i miei alunni con l’aria soddisfatta di chi ha appena rivelato il segreto della felicità eterna; a questo punto i miei alunni mi rivolgerebbero lo sguardo che un bovino rivolge ad un treno che passa prima di tornare a ruminare. Ma il bello del blog è che questo, qui, non può succedere.

Associazione musicale doverosa con Lucio Battisti, Una giornata uggiosa


20 luglio 2022

C'è ancora bisogno di un blog nel 2022? (Spoiler: sì)

"Evitate le domande retoriche. Voi dovete dare risposte, non fare domande". E io, coerentemente con quanto professato per anni e anni nelle aule scolastiche, conscio che il docente insegna più attraverso l'esempio che attraverso le parole, inauguro solennemente il blog con una domanda retorica.

Che poi, a pensarci bene, non è propriamente retorica. C'è bisogno di un blog nel 2022? Probabilmente no, ma è la risposta ad un bisogno, quello di trovare uno spazio per esprimersi. "Ma ci sono i social", obietterà qualcuno. Breve resoconto dei social:

  • Facebook: è il luogo dei boomer, dei complottisti, della zia Giuseppa con il telefono con la cover a libro che conosce tutto quello che ci nascondono perché qualcuno ha visto un video su youtube in cui un illuminato ci svela le verità nascoste e lo ha condiviso sul gruppo whatsapp "Buongiornissimo, amici!". Ci sono momenti in cui mi diverte molto, alternati a momenti in cui reagisco ai post con la serenità di Vecna e dubito della capacità di intendere e di volere dell'utente medio di internet;
  • Twitter: è il luogo degli stand up comedians, di quelli che hanno la battuta pronta ed efficace; è anche il luogo dell'eiaculatio precox del pensiero, quel problemino per cui ti basta pochissimo tempo per finalizzare e poi ti trovi a dover chiedere scusa. Non fa per me: tendo ad essere prolisso e ad avere la risposta pronta con i tempi di reazione della buon anima di Internet Explorer;
  • Instagram: non sono figo, non so fare cose, non so fare foto, non so scrivere le caption. È sufficiente, Vostro Onore?
  • Tik Tok: non ho idea di come funzioni e credo che sarei a mio agio lì come se indossassi le Birkenstock alla prima della Scala.
Insomma, no, i social non sono un'alternativa valida.
Quindi, sì, c'è ancora bisogno di un blog nel 2022.
Di cosa mi piacerebbe parlare in questo blog? Di tutto, dalla poesia al trash tv, dagli episodi edificanti (e soprattutto NON edificanti) che avvengono nelle mura scolastiche e di casa, di libri, di politica; sarà un luogo di divagazioni (o, meno poeticamente, di pippe mentali) libere e felici come le farfalle.
Questa è l'idea di partenza: poi magari lo lascerò morire come le piantine acquistate con tutte le buone intenzioni e poi abbandonate a sé stesse per le eccessive attenzioni richieste (tipo ricordarsi di bagnarle almeno ogni tanto).
È un inizio, che speriamo non resti tale. 
"Si vivesse solo di inizi, di eccitazioni da prima volta, quando tutto ti sorprende e nulla ti appartiene ancora" (Niccolò Fabi, Costruire)

Fare spazio (un piccolo apologo)

Non sarebbe mai successo niente. La libreria che ho alle mie spalle non avrebbe ceduto nonostante il peso che era costretta a portare. Non s...