21 luglio 2022

Piove? È mercoledì? Sono a Cesena?

Quando nasce un blog - così come quando nasce qualunque cosa - il primo problema che si pone è “come lo chiamo?”. La questione non è di secondaria importanza perché dal nome che si impone dipende una parte della sorte: immaginatevi se László Bíró si fosse chiamato Concettino Quagliarulo… vi trovereste l’astuccio pieno di Quagliarulo, chiedereste una Quagliarulo per firmare, insomma, la nostra vita sarebbe meno bella. (Lo so, Bíró è il cognome, ma dato che ora, vivaddio, si può scegliere se dare il cognome dell’uno e dell’altro genitore dare, il mio ragionamento fila).

Il primo nome a cui avevo pensato era proprio “Piove, è mercoledì, sono a Cesena”. Scritto con i punti interrogativi, richiama un po’ le fini declamazioni di Carmen di Pietro di cui qui trovate una delle più toccanti interpretazioni; il sottotitolo del blog (nella sua forma originaria il sottotitolo del blog doveva essere “poesia e cialtroneria” e non è difficile capire il perché.

Piove? Non succede da circa 2 mesi (percepiti come mille ere geologiche)

È mercoledì? No.

Sono a Cesena? No, qualche volta sono passato dalla sua ridente stazione ferroviaria

Quindi, perché questo nome? Perché “A Cesena” (questo è il titolo della poesia a cui devo il mancato titolo), tratta dalla raccolta “Il giardino dei frutti” (1916) di Marino Moretti è, per me, una di quelle poesie feticcio, quelle che sai che non sono propriamente dei capolavori, che eviteresti volentieri di spiegare (e gli alunni eviterebbero molto volentieri di ascoltare) ma che, in un modo o nell’altro, infili sempre nel programma di quinta senza un’apparente ragione.

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.

Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia della casa senza posa,
schiuma a piè delle gronde come bava.

Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,

il sogno che non ti avvizzì, sorella
che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella la tua vita, bella,

bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora,
o sposa, io vedo tuo marito, sento,
oggi, a chi dici mamma, a una signora;

so che quell’uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolento,
il babbo che ti vuole un po’ di bene.

«Mamma!» tu chiami, e le sorridi e vuoi
ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida,
che le parli dei miei vïaggi, poi...

poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici rauca di non so che sfida
corsa tra voi; e dici, dici dove,

quando, come, perché; ripeti ancora

quando, come, perché; chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo, di nuora.

Parli d’una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;

parli del nonno ch’è quasi al tramonto,
il nonno ricco, del tuo Dino, e dici:
«Vedrai, vedrai se lo terrò di conto»;

parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d’amor proprio, d’amore.

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui
tutta d’un uomo ch’io conosco appena.

tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me parla... così,
senza dolcezza, mentre piove o spiove:

«La mamma nostra t’avrà detto che...
E poi si vede, ora si vede, e come!
sì, sono incinta... Troppo presto, ahimè!

Sai che non voglio balia? che ho speranza
d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome...
Ho fortuna, è una buona gravidanza...»

Ancora parli, ancora parli, e guardi
le cose intorno. Piove. S’avvicina
l’ombra grigiastra. Suona l’ora. È tardi.

E l’anno scorso eri così bambina!

È difficile trovare del bello, almeno in senso classico, in questa poesia che si inscrive nella cosiddetta corrente dei Crepuscolari, il cui nome richiama il crepuscolo, un momento di fine, di passaggio, di attesa di un uovo inizio (e qui il pensiero non può che andare a lui). Eppure…

Fingendo di non aver letto la rima “lava/bava”, guardiamo il contenuto: un fratello e una sorella, un matrimonio evidentemente infelice, le convenzioni borghesi che impediscono di esprimere questa infelicità, un contesto cittadino che priva i protagonisti di qualunque speranza. Si pone agli antipodi di quell’idea tipo “l’importante è sorridere sempre” di cui parlerò prossimamente.

Forse questo testo non ci piace perché dalla letteratura aspettiamo qualcosa di consolatorio, aspettiamo un risarcimento della realtà che non ci soddisfa e invece qui non vediamo altro se non una storia come tante, reale, descritta senza alcun tentativo di abbellirla.

Eppure c’è poesia.

Nel testo poetico più somigliante alla prosa che io conosca, si annida la forma poetica per eccellenza, si annida quella poesia negata dal contenuto. 

Pio-ve è-mer-co-le-dì-so-no a-Ce-se-na. 11 sillabe. Endecasillabo, verso classico della poesia. Tanti endecasillabi (se non avete niente da fare, potete verificare che lo siano tutti ma credo che qualunque cosa sia più gratificante di contare sillabe, anche scherzare a raccogliere ortiche) riuniti in gruppi di tre versi, detti terzine. Terzine di endecasillabi. Ricorda qualcosa? La Divina Commedia, la poesia per eccellenza, è scritta così.

A questo punto, io guarderei i miei alunni con l’aria soddisfatta di chi ha appena rivelato il segreto della felicità eterna; a questo punto i miei alunni mi rivolgerebbero lo sguardo che un bovino rivolge ad un treno che passa prima di tornare a ruminare. Ma il bello del blog è che questo, qui, non può succedere.

Associazione musicale doverosa con Lucio Battisti, Una giornata uggiosa


3 commenti:

  1. Luca caro, che esprit de finisse...

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  2. E io che pensavo che ti riferissi al Moretti brigatista ( visto che anche Curcio si dilettava con la scrittura, sai..). In ogni caso, una piacevole sorpresa. Grazie!

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