29 dicembre 2024

Di stazione in stazione

In questo periodo di continui spostamenti, di arrivi e partenze, di ritorni più o meno volontari, più o meno gioiosi, non ho potuto non pensare alla stazione, uno dei nonluoghi individuati dall'antropologo francese Marc Augé che di essi si è occupato in un saggio di circa 30 anni fa. 
Cosa sono i nonluoghi? Sono spazi in cui migliaia, milioni di individui si incrociano senza entrare in relazione, incentrati esclusivamente sul presente, sul passaggio e quindi sulla precarietà che è tipica della modernità, sostiene Augé.
La stazione, in questo, ha delle sue peculiarità, aggiungo io.
È il luogo del presente per il pendolare che quotidianamente attende il suo treno che lo porterà sul posto di lavoro, ma è anche il luogo delle ore e dei minuti, del passato e del futuro.

Nella mia vita, per vari accidenti, ho passato tanto tempo sui treni: ho parlato con persone, preparato lezioni, corretto compiti.
Ho riso, ho pianto, incurante dello sguardo di chi mi circondava, nella certezza pressoché assoluta che non avrei più avuto modo di incontrare nessuno di loro. Certe notti ho dormito scomodo allungato su sedili consunti che odoravano di vite di altri miste a ferro, altre notti mi sono affacciato al finestrino con gli occhi chiusi solo per sentire l'aria fresca della notte che mi prendeva a schiaffi. Ho guardato la vita degli altri e ho immaginato storie.
Ho guardato la vita degli altri e ho immaginato storie anche attendendo l'arrivo di un treno sui binari: addii strazianti, abbracci rapidi e nervosi, manine attaccate ai vetri per salutare i nonni lontani, litigate furiose interrotte dalla voce metallica che raccomanda di allontanarsi dalla linea gialla.
Il treno è attesa.
È consapevolezza di qualcosa che, nel volgere di un istante, diventa passato, ricordo.
Evoca il lontano nel tempo e nello spazio con una forza che nient'altro possiede.
Il treno non ha presente, se non quello dell'ora e del minuto in cui è prevista il suo arrivo in stazione.
Eppure sarebbe utile imparare a vivere contando solo i giorni. Non i minuti, le ore, le settimane, i mesi, gli anni.
In un libro piccolo e prezioso (Dentro di Sandro Bonvissuto) ho letto queste parole che mi sono risuonate dentro come un monito:

L'unica misura valida del tempo dovrebbero essere i giorni, appunto. Tutti gli altri parametri dovrebbero essere considerati quello che sono: convenzioni sociali. Invenzioni. Gli esiti deliranti del perenne tentativo dell'uomo di dominare in qualche modo la sua piú grande ossessione: il tempo. I giorni invece esistono davvero. Dovrebbero essere l'unico modo giusto di misurare la vita. La vita è i giorni; non le ore né gli anni. Pensavo come non ci fosse niente di piú ridicolo delle consuetudini collettive, quando sono colte fuori dal contesto sociale che le ha generate e che normalmente le ospita. Chissà poi chi ha deciso che le ore debbano durare sessanta minuti. E perché non cento. Cosí, tanto per fare cifra tonda. Chissà chi è stato a decidere che le settimane debbano durare sette giorni e non dieci. La verità è che l'unica cosa che conta è il ciclo del sole. Il suo alternarsi con la notte.
Senza accordi, senza eccezioni. Solo la regola semplice del sole. Babba mi aveva detto che in Africa era ancora cosi.
Nei villaggi il tempo trascorreva come se quello fosse l'unico evento giusto del mondo. Una cosa naturale. Perché il tempo è una cosa naturale. Anche se è invisibile. Il tempo è l'unica cosa invisibile che però esiste davvero. E i giorni sono l'unico volto che ha il tempo.

Nei treni, nelle sale d'aspetto, invece, non contano i giorni: conta il minuto che ti separa dall'arrivo del treno, conta la durata indefinitamente lunga di un tempo che ti separa dal luogo in cui ti stai dirigendo o da cui ti stai allontanando e non è mai giusto perché è sempre troppo o troppo poco; conta l'istante esatto in cui devi essere pronto a salire sul treno che passa una sola volta nella vita. Che poi mi sono sempre chiesto se questi treni esistono davvero oppure se sono uno sprone a sperare per chi è insoddisfatto e crede, salendoci. di poter cambiare la propria vita o una sottile tortura per chi non crede di non poterla più cambiare e si fa divorare dal rimorso di averlo perso. 
E ci si perde ancora nel passato e nel futuro, attaccandosi all'infinitamente piccolo e agli orizzonti, talvolta perduti, dimenticando il reale, il presente.

E poi i binari.
Sembrano toccarsi se si guarda in direzione del punto da cui arrivano e del punto verso cui si dirigono.
In un passato lontano sono stati vicini, saranno vicini in un futuro indeterminato, ma nel presente no: sono condannati, come dei peccatori dell'inferno dantesco, a guardarsi senza mai potersi sfiorare, a vivere nell'illusione che questa loro distanza prima o poi sarà colmata. 
La loro distanza, però, non è fine a sé stessa: senza di essa, infatti, i treni non potrebbero viaggiare.
Il loro non toccarsi mai ha un senso: permette alle persone, ai ricordi, alle speranze di viaggiare di stazione in stazione, di porta in porta, di pioggia in pioggia, di dolore in dolore.

Mia Martini, I treni a vapore

23 dicembre 2024

Racconto di Natale

Oggi voglio sospendere il giudizio.

Avrei tante riflessioni da fare: vorrei parlare del momento in cui si scopre di essere rette parallele in una geometria euclidea; vorrei parlare del mito del Minotauro che permea la nostra vita portandoci a nascondere in un metaforico labirinto tutto ciò che è diverso e quindi socialmente inaccettabile; vorrei parlare di chi si sente un patriota per aver respinto persone che avevano bisogno di aiuto e poi corre in Chiesa a battersi il petto.

Ma non farò niente di tutto questo.

Come nel migliore di pranzi di Natale, vi porgo un regalo da scartare: "Racconto di Natale" di Dino Buzzati. E vi auguro - e mi auguro - di trovare l'unica cosa che serve in questa vita, ovvero un senso da dare alla propria esistenza.

Tetro e ogivale è l’antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un supplizio nelle notti d’inverno. E l’adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c’è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale – ci si domanda – lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, il carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come farà l’arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L’arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l’arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.

Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l’inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. “Chi bussa alle porte del Duomo” si chiese don Valentino “la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?” Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata di vento entrò un poverello in cenci.

“Che quantità di Dio! ” esclamò sorridendo costui guardandosi intorno- “Che bellezza! Lo si sente perfino di fuori.

Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di Natale. ”

“È di sua eccellenza l’arcivescovo” rispose il prete. “Serve a lui, fra un paio d’ore. Sua eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore.”

“Neanche un pochino, reverendo? Ce n’è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!”

“Ti ho detto di no… Puoi andare… Il Duomo è chiuso al pubblico” e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.

Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c’era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all’improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d’ore l’arcivescovo sarebbe disceso.

Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c’era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.

Don Valentino uscì nella notte, se n’andò per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui però sapeva l’indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l’un l’altro e intorno ad essi c’era un poco di Dio.

“Buon Natale, reverendo” disse il capofamiglia. “Vuol favorire?”

“Ho fretta, amici” rispose lui. “Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno.”

“Caro il mio don Valentino” fece il capofamiglia. “Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino.”

E nell’attimo stesso che l’uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.

Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.

“Ma che cosa fa, reverendo?” gli domandò un contadino. “Vuol prendersi un malanno con questo freddo?”

“Guarda laggiù figliolo. Non vedi?”

Il contadino guardò senza stupore. “È nostro” disse. “Ogni Natale viene a benedire i nostri campi.”

” Senti ” disse il prete. “Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l’arcivescovo possa almeno fare un Natale decente.”

“Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi.”

“Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì.”

“Ne ho abbastanza di salvare la mia!” ridacchiò il contadino, e nell’attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.

Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell’atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).

Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all’orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga. Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. “Aspettami, o Signore ” supplicava “per colpa mia l’arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!”

Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?

Finché udì un coro disteso e patetico, voci d’angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso.

“Fratello” gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli “abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego.”

Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se era possibile, ancora più pallido.

“Buon Natale a te, don Valentino” esclamò l’arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. “Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?”

Vasco Rossi, Un senso

15 dicembre 2024

Lettera a BN

Caro BN,
mi rendo conto che è da un po' di tempo che non ti scrivo e questo non depone a mio favore.
Sono passati i tempi in cui, con un bieco ricatto emotivo, ti scrivevo lettere in cui ti ricordavo quanto ero stato buono e ubbidiente solo per poterti poi richiedere una lista di regali, spesso tristemente disattesa.
Ricordo di qualcuno che ti faceva concorrenza nel portare i doni, Gesù Bambino, tanto che ad un certo punto non ero più sicuro del destinatario corretto a cui indirizzare le mie lettere di raccomandazione.

Mi ricordo quando, in attesa del tuo arrivo - a casa mia arrivavi sempre il 24 dicembre - ero costretto a mettermi in piedi sulla sedia a leggere la mia dichiarazione di intenti per il nuovo anno con la solennità di un giuramento di un ministro della Repubblica.

Non ricordo Natali particolarmente festosi a casa mia: la mia famiglia era grande ma raramente si riuniva. I cugini - purtroppo - erano per lo più lontani per cui passavo il 25 dicembre con i nonni: allora, com'è normale che sia non davo il giusto peso a questo evento, ma solo io so quanto mi renderebbe felice poterli riabbracciare adesso anche per un solo minuto e farmi fare un indovinello sugli alberi o farmi raccontare una soap opera o sentire una battuta dolcemente pungente.

Il Natale era per lo più cibo e litigate, dovute alla frequentazione coatta tra parenti; o forse no, non era proprio così, ma ricordo distintamente il senso di frustrazione che provavo quando vedevo, nei film, le famiglie che si riunivano felici, che giocavano e ridevano sotto enormi e scintillanti alberi, in case addobbate a festa e poi mi guardavo attorno.
Un po' come quando arriva il momento di fare l'amore ma tu hai visto solo film porno.

Insomma, ho qualche problema con il Natale e non ho paura di ammetterlo.

Mi rendo conto di essere poco sensibile a tutto questo clima di festa, forse perché la bontà programmata e la felicità a comando mi irritano profondamente; eppure - lo ammetto - mi fermo spesso a guardare le lucine dell'albero e gli occhi mi si inumidiscono quando sento bambini cantare le canzoni natalizie, incantati dalle luci che invadono le città in questi giorni.

Non sono il tuo più accanito sostenitore - ammetto anche questo - ma qualche richiesta vorrei provare a fartela ugualmente.

Dammi delle spalle possenti per potervi portare sopra le persone che incontro e che hanno bisogno di un passaggio; occhi e cervello per saper vedere, saper guardare e saper distinguere tra le due cose; mani per accarezzare e battere pugni sul tavolo.
Regalami il silenzio e la forza di sopportarlo.
Donami la capacità di lasciar andare tutto ciò per cui non vale la pena perdere tempo ed energie.
Di tacere quando le parole non servono, e di parlare anche quando tacere sarebbe l'opzione più comoda.
Il tempo che vorrei dedicare a me stesso e agli altri, per ascoltarmi e ascoltarli, cercando nel mio piccolo di dare il mio contributo alla costruzione di una società più umana.
La forza di riconoscere e ammettere i miei (tanti) punti deboli e di migliorarmi.
Il coraggio di essere e non di apparire.
La voglia di essere una brava persona e non solo una persona brava.

Lo so, dopo questo elenco stai iniziando a rivalutare le mie liste di regali impossibili.
Fai quello che puoi,
credo in te.
Con affetto
L. 

Francesco de Gregori, L'uccisione di Babbo Natale


  

08 dicembre 2024

Di liceo classico e brain rot

Dicembre, andiamo! È tempo di orientare.
Il buon Gabry (D'annunzio) non mi maledirà se uso il verso di una sua poesia che avevo studiato alle elementari per descrivere quello che sto facendo da qualche settimana a questa parte, ovvero guidare genitori e studenti terrorizzati nel mare tempestoso della scelta delle superiori e mostrare loro la validità dell'offerta formativa della nostra scuola che, signora mia, non ha eguali in tutto il panorama della provincia, ma che dico della provincia? Dell'intero Granducato. 
Praticamente sono un mix tra Cristoforo Colombo e Giorgio Mastrota.
Poi l'altro giorno sono incappato nell'articolo di Silvia Avallone sul liceo classico (chi non lo ha letto, può farlo qui)
E mi sono imbestialito.

Ho frequentato anche io il liceo classico e so bene quanto quella formazione sia stata importante per me. Ricordo bene le lacrime versate sulle versioni di greco che non tornavano mai, sulla fisica studiata a memoria (che Newton mi perdoni), sulla filosofia che ogni tanto risultava un insieme di parole vuote, salvo poi capirne il significato guardandola da lontano, come un quadro astratto.
Far passare, però, il messaggio che il classico sia l'unico baluardo della cultura mi sembra veramente sbagliato: la scuola, qualunque essa sia, dovrebbe avere la funzione di preparare alla complessità e far diffidare dal tutto e subito. Il latino e la filosofia, citati da Avallone nell'articolo, si studiano in molti licei e non credo che la matematica abbia qualcosa in meno del greco nella formazione di persone di cultura.

Certo, è vero che la scuola non deve essere utile in senso stretto ma ha il ruolo fondamentale di dare a ragazze e ragazzi le coordinate per interpretare la complessità del mondo circostante.
Tante volte con le mie classi ho affrontato questo argomento, soprattutto quando ci si è interrogati sul senso di studiare le guerre puniche quando fuori dalle mura scolastiche ci sono guerre che si stanno combattendo in questo momento e di cui si vorrebbe comprendere il senso. 
Ho spiegato loro che la scuola non ha il compito di inseguire la contemporaneità ma persegue lo scopo  - utopico quanto si voglia - di fornire delle competenze per interpretare ciò che accade intorno a noi, anche se non è stato oggetto diretto di studio.
È come se, alla fine dei cinque anni, si ricevesse una cassetta degli attrezzi di cui si conosce il funzionamento ma i cui molteplici utilizzi sono ancora da scoprire.

Pensare che questa preparazione al mondo esterno sia propria solo di una certa formazione è fuorviante: oltretutto - e lo dicono le statistiche - questo indirizzo è frequentato per lo più da ragazze e ragazzi che appartengono a famiglie di classi sociali medio-alte, per cui è un ascensore sociale (per citare Avallone) che, però, per proseguire la metafora, è bloccato ad un attico con vista Colosseo. 
Una sgradevole percezione di un pensiero sottilmente classista mi pervade: la cultura può essere appannaggio solo dei più ricchi, mentre gli altri sono destinati semplicemente a imparare un mestiere.

Se un compito ha la scuola, ad ogni livello, in ogni indirizzo, con ogni mezzo, è quello di prevenire il brain rot, parola dell'anno secondo l'Oxford Dictionary: con questa espressione (che significa letteralmente putrefazione del cervello) si indica uno stato mentale di intorpidimento causato dall’esposizione ossessiva a contenuti digitali. Chi vuole approfondire trova informazioni a questo link.
Ovviamente sono già partite le crociate contro i social media, responsabili di questa condizione, senza pensare che la responsabilità è, almeno al 50%, di chi fruisce di quei contenuti e non solo di chi li produce.

Abituare al senso critico e fornire stimoli in questa direzione, spingere ragazze e ragazzi alla lettura, farli innamorare della complessità, far vedere loro le donne e gli uomini dietro i romanzi, le poesie, le scoperte scientifiche, gli eventi storici e le dottrine filosofiche. 
Spiegare loro la bellezza di porsi nuove sfide, di immaginare soluzioni alternative a problemi atavici, mettersi in gioco, insegnare loro a sollevare la testa dai libri e ad utilizzare quelle parole scritte per dare un senso al mondo esterno che nelle materie scolastiche non c'è, domandarsi cosa avrebbero fatto loro in quella situazione.

Lo si può fare solo al classico? Non credo.

Roberto Vecchioni, Sogna ragazzo sogna

01 dicembre 2024

Guido, Camillo e l'amore

Guido parte da Firenze, mentre Camillo parte da Santa Margherita Ligure.
Li separano circa 225 km, facilmente percorribili con due autostrade.
Li separano anche circa 600 anni, e questo è un ostacolo un po' più difficile da superare, finché qualcuno non inventerà una macchina del tempo.
Ogni tanto, nel boschetto della mia fantasia (solo i migliori coglieranno questa citazione altissima), mi piace far incontrare persone distanti nel tempo e nello spazio, farli dialogare, far sentire loro che non sono soli, che il loro pensiero è condiviso e che esistono altre angolazioni per vederlo.
Ho dimenticato di dire i cognomi di Guido e Camillo: parlo di Cavalcanti e di Sbarbaro.

Guido Cavalcanti, amico fraterno di Dante (che non per questo gli risparmia l'Inferno... vai a fidarti del nasone), poeta stilnovista, uno di quelli che credeva che amare fosse un mezzo per elevare il proprio spirito, ma anche che l'amore fosse una delle esperienze più traumatiche per l'uomo, scrive questo:

Tu m’ài sì piena di dolor la mente
che l’anima si briga di partire,
e li sospir che manda il cor dolente
mostrano a li occhi che non pon soffrire.

Amor, che lo tuo grande valor sente,
dice: — mi duol che ti convien morire
per questa fera donna, che niente
par che pietade di te voglia udire.

Io vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, c’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno,

che sè conduca sol per maestria,
e porti ne lo core una ferita
che sia, com’egli è morto, aperto segno.

La donna fiera, crudele, che non vuole sentire parole di pietade , di compassione sull'uomo che la ama, ha riempito a tal punto l'uomo di sofferenza che l'unico desiderio che l'uomo è in grado di concepire è la morte. L'uomo - cosa rara nella poesia dell'epoca - si rivolge con il tu alla donna (che solitamente era la signora a cui rivolgersi con il voi) e questo dimostra la condizione disperata dell'uomo che ormai non è più in grado di ragionare lucidamente e non può far altro che sospirare, ovvero rinunciare alla comunicazione verbale, affidando ad un fiato ciò che vorrebbe dire.
Ormai l'uomo è una statua di rame, di pietra o di legno, è fuor di vita, è un morto che cammina, che si conduce solo per maestria, come fosse una marionetta o un robot e mostra, attraverso la ferita che porta nel cuore, che la sua morte è dovuta all'amore.
Una visione tragica, devastante: andrebbe detto a chiare lettere - come sui pacchetti di sigarette - che l'amore nuoce gravemente alla salute e che porta alla morte.

Ci spostiamo nel 1914. Circa 600 anni dopo i versi di Cavalcanti, Camillo Sbarbaro - uno dei miei poeti preferiti del primo Novecento ma citato solo di sfuggita nei testi di letteratura, chissà perché - capovolge completamente il punto di vista.
Sbarbaro scrive questi versi:

Io che come un sonnambulo cammino
per le mie trite vie quotidiane,
vedendoti dinanzi a me trasalgo.

Tu mi cammini innanzi lenta come
una regina.
Regolo il mio passo
io subito destato dal mio sonno
sul tuo ch’è come una sapiente musica.
E possibilità d’amore e gloria
mi s’affacciano al cuore e me lo gonfiano.
Pei riccioletti folli d’una nuca
per l’ala d’un cappello io posso ancora
alleggerirmi della mia tristezza.
Io sono ancora giovane, inesperto
col cuore pronto a tutte le follie.

Una luce si fa nel dormiveglia.
Tutto è sospeso come in un’attesa.
Non penso più. Sono contento e muto.
Batte il mio cuore al ritmo del tuo passo.

Basterebbe l'ultimo verso a farci innamorare di questa poesia: batte il mio cuore al ritmo del tuo passo.
Da una condizione di sonnambulismo, dal percorrere le solite vie, l'uomo passa a concepire possibilità d'amore e gloria, si alleggerisce della sua tristezza e smette di pensare. E tutto questo avviene grazie alla donna, ai suoi riccioletti folli: ci sembra quasi di immaginare la scena. L'uomo trasale vedendola dinanzi a sé: la vede di spalle, vede i suoi capelli, il suo cappello, sente il suo passo lento e regale. Improvvisamente il suo mondo si illumina e torna a vivere, il cuore torna a battere; l'uomo è muto, ma, pur simile, la sua condizione è diversa da quella descritta da Cavalcanti perché cambia radicalmente il segno dell'esperienza.

Mi piace immaginarli, Guido e Camillo, che, mentre mangiano una Rustichella in un rumoroso autogrill sulla A12 discutono su cosa sia l'amore.

I giganti, Tema

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Generazione X e millennials, indossate le cuffie. È il momento di un quiz rivolto a voi. (Musica tensiva, tipo "Chi vuol essere miliona...