In questo periodo di continui spostamenti, di arrivi e partenze, di ritorni più o meno volontari, più o meno gioiosi, non ho potuto non pensare alla stazione, uno dei nonluoghi individuati dall'antropologo francese Marc Augé che di essi si è occupato in un saggio di circa 30 anni fa.
Cosa sono i nonluoghi? Sono spazi in cui migliaia, milioni di individui si incrociano senza entrare in relazione, incentrati esclusivamente sul presente, sul passaggio e quindi sulla precarietà che è tipica della modernità, sostiene Augé.
La stazione, in questo, ha delle sue peculiarità, aggiungo io.
È il luogo del presente per il pendolare che quotidianamente attende il suo treno che lo porterà sul posto di lavoro, ma è anche il luogo delle ore e dei minuti, del passato e del futuro.
Nella mia vita, per vari accidenti, ho passato tanto tempo sui treni: ho parlato con persone, preparato lezioni, corretto compiti.
Ho riso, ho pianto, incurante dello sguardo di chi mi circondava, nella certezza pressoché assoluta che non avrei più avuto modo di incontrare nessuno di loro. Certe notti ho dormito scomodo allungato su sedili consunti che odoravano di vite di altri miste a ferro, altre notti mi sono affacciato al finestrino con gli occhi chiusi solo per sentire l'aria fresca della notte che mi prendeva a schiaffi. Ho guardato la vita degli altri e ho immaginato storie.
Ho guardato la vita degli altri e ho immaginato storie anche attendendo l'arrivo di un treno sui binari: addii strazianti, abbracci rapidi e nervosi, manine attaccate ai vetri per salutare i nonni lontani, litigate furiose interrotte dalla voce metallica che raccomanda di allontanarsi dalla linea gialla.
Il treno è attesa.
È consapevolezza di qualcosa che, nel volgere di un istante, diventa passato, ricordo.
Evoca il lontano nel tempo e nello spazio con una forza che nient'altro possiede.
Il treno non ha presente, se non quello dell'ora e del minuto in cui è prevista il suo arrivo in stazione.
Eppure sarebbe utile imparare a vivere contando solo i giorni. Non i minuti, le ore, le settimane, i mesi, gli anni.
In un libro piccolo e prezioso (Dentro di Sandro Bonvissuto) ho letto queste parole che mi sono risuonate dentro come un monito:
L'unica misura valida del tempo dovrebbero essere i giorni, appunto. Tutti gli altri parametri dovrebbero essere considerati quello che sono: convenzioni sociali. Invenzioni. Gli esiti deliranti del perenne tentativo dell'uomo di dominare in qualche modo la sua piú grande ossessione: il tempo. I giorni invece esistono davvero. Dovrebbero essere l'unico modo giusto di misurare la vita. La vita è i giorni; non le ore né gli anni. Pensavo come non ci fosse niente di piú ridicolo delle consuetudini collettive, quando sono colte fuori dal contesto sociale che le ha generate e che normalmente le ospita. Chissà poi chi ha deciso che le ore debbano durare sessanta minuti. E perché non cento. Cosí, tanto per fare cifra tonda. Chissà chi è stato a decidere che le settimane debbano durare sette giorni e non dieci. La verità è che l'unica cosa che conta è il ciclo del sole. Il suo alternarsi con la notte.
Senza accordi, senza eccezioni. Solo la regola semplice del sole. Babba mi aveva detto che in Africa era ancora cosi.
Nei villaggi il tempo trascorreva come se quello fosse l'unico evento giusto del mondo. Una cosa naturale. Perché il tempo è una cosa naturale. Anche se è invisibile. Il tempo è l'unica cosa invisibile che però esiste davvero. E i giorni sono l'unico volto che ha il tempo.
Nei treni, nelle sale d'aspetto, invece, non contano i giorni: conta il minuto che ti separa dall'arrivo del treno, conta la durata indefinitamente lunga di un tempo che ti separa dal luogo in cui ti stai dirigendo o da cui ti stai allontanando e non è mai giusto perché è sempre troppo o troppo poco; conta l'istante esatto in cui devi essere pronto a salire sul treno che passa una sola volta nella vita. Che poi mi sono sempre chiesto se questi treni esistono davvero oppure se sono uno sprone a sperare per chi è insoddisfatto e crede, salendoci. di poter cambiare la propria vita o una sottile tortura per chi non crede di non poterla più cambiare e si fa divorare dal rimorso di averlo perso.
E ci si perde ancora nel passato e nel futuro, attaccandosi all'infinitamente piccolo e agli orizzonti, talvolta perduti, dimenticando il reale, il presente.
E poi i binari.
Sembrano toccarsi se si guarda in direzione del punto da cui arrivano e del punto verso cui si dirigono.
In un passato lontano sono stati vicini, saranno vicini in un futuro indeterminato, ma nel presente no: sono condannati, come dei peccatori dell'inferno dantesco, a guardarsi senza mai potersi sfiorare, a vivere nell'illusione che questa loro distanza prima o poi sarà colmata.
La loro distanza, però, non è fine a sé stessa: senza di essa, infatti, i treni non potrebbero viaggiare.
Il loro non toccarsi mai ha un senso: permette alle persone, ai ricordi, alle speranze di viaggiare di stazione in stazione, di porta in porta, di pioggia in pioggia, di dolore in dolore.
Mia Martini, I treni a vapore
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