11 agosto 2024

La luce senza misericordia

Uno dei motivi per cui amo la letteratura è che ti permette di dare un nome ed una forma ai pensieri a cui non riesci a dare una forma e un nome.
È il caso di questo articolo di Natalia Ginzburg, intitolato Odio l’estate e pubblicato su La stampa il 22 agosto del 1971.

Odio l’estate. Odio il mese d’agosto fino al giorno di ferragosto. Passato il ferragosto, mi sembra di uscire da un incubo. Mi sembra che tutto lentamente migliori per me.

Nell’infanzia l’estate mi piaceva. Era la mia stagione preferita. Mi rallegravo del caldo e delle prime ciliegie. […] L’estate significava andare in villeggiatura. Comparivano nel corridoio i nostri bauli, enormi e vecchissimi, con lastroni di ferro rugginosi, una sorta di dinosauri. Mia madre, nel fare i bauli, sospirava e sbuffava. Né a lei né ai miei fratelli piaceva andare in villeggiatura. Si annoiavano. Io mi divertivo. Per quattro mesi, stavamo in montagna. Il luogo e la casa li decideva mio padre. Erano sempre, secondo mia madre, case scomode e luoghi noiosi, dove non si trovava nessuno con cui scambiare mezza parola. Assistevo alla cerimonia dei bauli con viva gioia. La mia felicità era solo un poco offuscata dal malumore di mia madre. Appena ero in montagna, mi immaginavo di essere un’abitante di quei luoghi, nata là e destinata a vivere là per sempre. Mi sforzavo di cancellare dalla mia memoria la nostra casa di città. Non avevo altri bambini con cui giocare, e camminavo sola nei prati cercando cavallette e ranocchie. Allora non conoscevo la noia o la conoscevo appena, mi durava pochi istanti. Per pochi istanti, sbuffavo e ciondolavo intorno alla casa. Venivo subito rimproverata. Secondo mio padre, annoiarsi era una colpa sempre, ma soprattutto in montagna. Mia madre invece sembrava pensare che il diritto alla noia l’avevano soltanto i miei fratelli e lei stessa. Io non avevo questo diritto essendo piccola. Secondo mia madre, i bambini non dovevano mai né sbuffare né ciondolare. Mi diceva di lavarmi la faccia e fare i compiti delle vacanze. Non l’ascoltavo, perché sapevo che fare i compiti delle vacanze era contro la noia un sistema pessimo. Comunque mi liberavo dalla noia con una facilità estrema.

Pensavo allora che ogni pomeriggio potesse racchiudere straordinari avvenimenti. Potevo andarmene nei prati e trovare qualche grosso rospo. Nei boschi c’erano scoiattoli, e la speranza di acchiappare e portare a casa un piccolo scoiattolo non m’abbandonava mai. O potevo tentare di scrivere un romanzo o di cucinare un dolce, o anche fare a un tratto una grande scoperta scientifica. I miei genitori e i miei fratelli ne sarebbero rimasti strabiliati. Il mio costante desiderio era di strabiliarli, perché trovavo difficile richiamare la loro attenzione su di me. Tutte le cose che io facevo e che trovavo meravigliose non li meravigliavano mai. Il giorno della partenza dalla montagna era per me quasi ancora più bello del giorno dell’arrivo. Alla felicità di partire, di salire prima su una corriera e poi su un treno, si univa la sottile e deliziosa tristezza di dire addio all’estate, essendo per me allora la tristezza una cosa tanto insolita e leggera da mescolarsi con delizia nella felicità. Tristemente salutavo quei luoghi che forse non avrei mai riveduto. Mio padre diceva che l’anno prossimo saremmo andati altrove, in un luogo più economico. Inoltre mio padre usava dire, al termine di ogni villeggiatura e nel corso dell’inverno, che non saremmo andati mai più in nessuna villeggiatura perché non avevamo più soldi. Questa minaccia lasciava i miei fratelli e mia madre nella più assoluta indifferenza, essi non ci credevano e d’altronde non sognavano altro che un’estate in città. Quanto a me, all’idea che eravamo così poveri ardevo di felicità e di paura, perche temevo e speravo di trovarmi in una situazione drammatica. Tuttavia quei lunghi mesi di montagna sui quali mia madre e i miei fratelli sbuffavano si ripetevano per volontà di mio padre ogni anno puntualmente e inesorabilmente.

A un certo punto, mi accorsi che quelle villeggiature in montagna erano diventate di una noia insopportabile anche per me. Compresi allora che la mia infanzia era finita. Non me ne importava più niente delle cavallette e dei rospi. I libri che avevo portato con me li avevo letti e riletti nello spazio di pochi giorni. E inoltre stare a leggere in solitudine mi sembrava un’umiliazione. Mi sembrava che avrei dovuto avere degli amici, ma non ne avevo. […]. Sentivo cantare i grilli, mi assordava la pace abbagliante e sterminata del pomeriggio estivo. Essa sembrava promettere qualcosa, qualcosa che misteriosamente era destinato a tutti ma non a me.

Qui Ginzburg coglie un punto essenziale: se la primavera è per eccellenza la stagione della rinascita e, in qualche modo dell’attesa, l’estate è il momento in cui questa attesa si dovrebbe concretizzare in qualcosa. E se da bambini quello che l’estate ci offre ci soddisfa, crescendo, le promesse sembrano disattese e noi rimaniamo delusi.

Io non trovavo il mondo triste, lo trovavo bellissimo, solo che a me per qualche ragione oscura era vietato di celebrarne le radiose giornate, così non potevo che cercare e amare l’autunno, l’inverno, il crepuscolo, la pioggia e la notte. Scopersi, in seguito, che una simile sensazione non ero io sola a provarla, che era una sensazione comune a molti, perché molti come me in qualche istante della loro esistenza si sono sentiti esclusi e mortificati dall’estate, giudicati per sempre indegni di raccogliere i frutti dell’universo. Molti come me allora hanno odiato lo splendore abbagliante del cielo sui prati e sui boschi. Molti come me ai primi segni dell’estate si sentono in angoscia come all’annuncio di una disgrazia, perché in essi risorge lo spavento del giudizio e della condanna.

A noi sembra allora di trovarci senza scampo, inchiodati nel punto dove siamo. Chi è solo, a un tratto, ha l’esatta misura della propria solitudine. Il ritmo abituale dei giorni si spezza. Le consuete sofferenze diventano insopportabili, rischiarate incessantemente da una luce solare e crudele. La nostra vita giace in disordine ai nostri piedi. Ci sentiamo costretti a enumerarne ogni dolore o errore. La luce dell’estate illumina senza misericordia il nostro silenzio, la nostra persona immobile, circondata di antiche e nuove catastrofi. Ci sentiamo a un tratto seduti sul banco degli imputati. Come in un interrogatorio di terzo grado, noi restiamo immobili, annichiliti e stravolti. Impossibile nasconderci a noi stessi e agli altri. Impossibile alzare un braccio per nascondere il nostro volto. Alle domande che ci saranno poste non sapremo rispondere. I gesti che ci verranno comandati non sapremo compierli. Essere noi stessi ci sembra una colpa peggiore d’un assassinio, da ogni parte ci viene dichiarato che per una simile colpa non c’è assoluzione.

Il ritmo che cambia e rallenta, il vuoto che caratterizza queste giornate (d’altra parte vacanza deriva da vacuus, cioè vuoto) ci costringono a fare i conti con noi stessi, a pensare, a dedicare del tempo a tutto ciò a cui non possiamo dedicarne durante l’anno. Intendiamoci, non è affatto un male a patto che si sappia gestire il flusso di pensieri e si sia in grado di metterlo a frutto quando le giornate saranno più corte e più piene.
L’estate, quindi, è un’occasione di divertimento, nel senso letterale di devertere, allontanarsi dai soliti percorsi per cercare strade nuove, anche se poco agevoli. 

Amalia Gré, Estate












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