Il buon Gabry (D'annunzio) non mi maledirà se uso il verso di una sua poesia che avevo studiato alle elementari per descrivere quello che sto facendo da qualche settimana a questa parte, ovvero guidare genitori e studenti terrorizzati nel mare tempestoso della scelta delle superiori e mostrare loro la validità dell'offerta formativa della nostra scuola che, signora mia, non ha eguali in tutto il panorama della provincia, ma che dico della provincia? Dell'intero Granducato.
Praticamente sono un mix tra Cristoforo Colombo e Giorgio Mastrota.
Poi l'altro giorno sono incappato nell'articolo di Silvia Avallone sul liceo classico (chi non lo ha letto, può farlo qui)
E mi sono imbestialito.
Ho frequentato anche io il liceo classico e so bene quanto quella formazione sia stata importante per me. Ricordo bene le lacrime versate sulle versioni di greco che non tornavano mai, sulla fisica studiata a memoria (che Newton mi perdoni), sulla filosofia che ogni tanto risultava un insieme di parole vuote, salvo poi capirne il significato guardandola da lontano, come un quadro astratto.
Far passare, però, il messaggio che il classico sia l'unico baluardo della cultura mi sembra veramente sbagliato: la scuola, qualunque essa sia, dovrebbe avere la funzione di preparare alla complessità e far diffidare dal tutto e subito. Il latino e la filosofia, citati da Avallone nell'articolo, si studiano in molti licei e non credo che la matematica abbia qualcosa in meno del greco nella formazione di persone di cultura.
Certo, è vero che la scuola non deve essere utile in senso stretto ma ha il ruolo fondamentale di dare a ragazze e ragazzi le coordinate per interpretare la complessità del mondo circostante.
Tante volte con le mie classi ho affrontato questo argomento, soprattutto quando ci si è interrogati sul senso di studiare le guerre puniche quando fuori dalle mura scolastiche ci sono guerre che si stanno combattendo in questo momento e di cui si vorrebbe comprendere il senso.
Ho spiegato loro che la scuola non ha il compito di inseguire la contemporaneità ma persegue lo scopo - utopico quanto si voglia - di fornire delle competenze per interpretare ciò che accade intorno a noi, anche se non è stato oggetto diretto di studio.
È come se, alla fine dei cinque anni, si ricevesse una cassetta degli attrezzi di cui si conosce il funzionamento ma i cui molteplici utilizzi sono ancora da scoprire.
Pensare che questa preparazione al mondo esterno sia propria solo di una certa formazione è fuorviante: oltretutto - e lo dicono le statistiche - questo indirizzo è frequentato per lo più da ragazze e ragazzi che appartengono a famiglie di classi sociali medio-alte, per cui è un ascensore sociale (per citare Avallone) che, però, per proseguire la metafora, è bloccato ad un attico con vista Colosseo.
Una sgradevole percezione di un pensiero sottilmente classista mi pervade: la cultura può essere appannaggio solo dei più ricchi, mentre gli altri sono destinati semplicemente a imparare un mestiere.
Se un compito ha la scuola, ad ogni livello, in ogni indirizzo, con ogni mezzo, è quello di prevenire il brain rot, parola dell'anno secondo l'Oxford Dictionary: con questa espressione (che significa letteralmente putrefazione del cervello) si indica uno stato mentale di intorpidimento causato dall’esposizione ossessiva a contenuti digitali. Chi vuole approfondire trova informazioni a questo link.
Ovviamente sono già partite le crociate contro i social media, responsabili di questa condizione, senza pensare che la responsabilità è, almeno al 50%, di chi fruisce di quei contenuti e non solo di chi li produce.
Abituare al senso critico e fornire stimoli in questa direzione, spingere ragazze e ragazzi alla lettura, farli innamorare della complessità, far vedere loro le donne e gli uomini dietro i romanzi, le poesie, le scoperte scientifiche, gli eventi storici e le dottrine filosofiche.
Spiegare loro la bellezza di porsi nuove sfide, di immaginare soluzioni alternative a problemi atavici, mettersi in gioco, insegnare loro a sollevare la testa dai libri e ad utilizzare quelle parole scritte per dare un senso al mondo esterno che nelle materie scolastiche non c'è, domandarsi cosa avrebbero fatto loro in quella situazione.
Lo si può fare solo al classico? Non credo.
Roberto Vecchioni, Sogna ragazzo sogna
L'articolo della Avallone, secondo me, ha fatto più danni che altro. Credo che la scuola in sé dovrebbe tornare a essere ascensore sociale, ma perseguendo la serietà e la meritocrazia, ma, ahimé, per paura di ricorsi, genitori col manganello, sta sempre diventando più un luogo dove si cerca di fare meno danni possibili. A svantaggio di tutti.
RispondiEliminaGrazie intanto per le mai banali riflessioni che condividi con chi ha il piacere e la curiosità di seguirti.
RispondiEliminaIo ho interpretato l'articolo in questione non tanto, o non solo, come una difesa del liceo classico in sé (anche se lo spunto è il suo declino), ma della cultura umanista in generale (quindi quella dei vari licei), di quella forma di cultura che non ha un risvolto pratico immediato, ma che serve a formare l'individuo e a renderlo poi libero e consapevole di fare le proprie scelte. Il cui declino è molto più evidente in scuole come i Licei Classici. Cultura che oggi giorno è spesso sotto accusa. E che evidentemente oggi è sempre meno in grado di attirare le nuove generazioni. O forse i loro genitori. Ma nemmeno le scuole tecniche sono più tanto attraenti, dato il preoccupante calo di iscrizioni negli ultimi decenni. E allora la riflessione dovrebbe allargarsi alla formazione in generale e all'orientamento scolastico. E la domanda forse dovrebbe essere "Cosa mi aspetto veramente dalla scuola?".
Perché oggi sembra che qualsiasi problema o mancanza della società possa essere risolto solo e soltanto attraverso la scuola