12 marzo 2023

Lavorare stanca

Lavorare stanca e ciò è insito nella sua etimologia: il latino labor vuol dire, appunto, "fatica". 

Il lavoro è la punizione di Dio per Adamo che non ha obbedito ai suoi comandi, ma è anche, secondo Virgilio, un premio in quanto permette all'uomo di evitare il gravis veternus, il pesante torpore di inerzia. Il lavoro è, secondo il vecchio adagio, ciò che nobilita l'uomo ed è ciò su cui è fondata la nostra Repubblica secondo il primo articolo della Costituzione.

Ultimamente, però, il lavoro sembra diventato un'ossessione: nella società della performance in cui viviamo e da cui siamo permeati, cerchiamo sempre di essere (o di mostrarci) impegnati, ricercati, indaffarati per apparire sempre al meglio e sul pezzo; se abbiamo del tempo libero ci sentiamo quasi in colpa, dopo un primo momento di ebbrezza. 

A questo va aggiunto anche quello che il filosofo austriaco Ivan Illich chiamava lavoro ombra, ovvero tutto quel lavoro che, grazie all'automazione, noi facciamo al posto di altri senza essere retribuiti: siamo i commessi del nostro supermercato, i nostri agenti di viaggio, gli impiegati del check-in all'aeroporto. In tutti questi casi, a toglierci tempo è stata proprio quella tecnologia che, invece, ci lusinga costantemente con la promessa di farci avere più tempo per noi. Ma lo vogliamo realmente? 

Ho sperimentato sulla mia pelle questa sensazione: nei miei 7 anni di vita trascorsi nella produttiva Milano lavorare - ufficialmente - mezza giornata in mezzo a tanta gente che produce come cantava Giorgio Gaber generava in me un senso di inferiorità rispetto agli impiegati nine-to-five che affollavano la metropolitana nelle ore di punta. Non coglievo l'importanza di avere più tempo da amministrare lontano dal posto di lavoro, tempo da utilizzare per leggere, coltivare me stesso e le mie passioni, persino annoiarmi.

"La palese astensione dal lavoro è il segnale convenzionale di uno status pecuniario superiore": così il sociologo Thorstein Veblen nel 1899. Certo non era il mio caso: non ho mai provato la sensazione di vivere in uno status pecuniario superiore e credo non mi succederà mai, ma se l'antico detto il tempo è denaro ha un fondo di verità, credo di aver vanificato un patrimonio notevole.

Quindi, in cosa abbiamo sbagliato? Qual è stato il punto di rottura? Ma soprattutto come si esce da questo labirinto apparentemente senza uscita? Da una parte senza lavoro non si può vivere, dall'altra diventiamo work-addicted e lo rendiamo nostra unica ragione di vita, un dio pagano a cui sacrificare ogni nostra energia e ogni nostro momento.

"Monotona cosa è il genere umano. Quasi tutti passano la maggior parte del tempo a lavorare per vivere, e quel po' di libertà che gli avanza li opprime talmente tanto che cercano con ogni mezzo di liberarsene". Scriveva così Goethe nel 1774 nel romanzo I dolori del giovane Werther.

Gli uomini si sentono, paradossalmente, oppressi dalla libertà tanto che cercano ogni mezzo per liberarsene e il mezzo privilegiato per raggiungere questo fine è il lavoro.

Sono passati 250 anni e non è cambiato nulla, anzi: ma io lavoro per non stare con te suona davvero come la frase-chiave di una generazione, o forse proprio di un momento storico, in cui stiamo perdendo il senso della comunità, resa sterile dalla finta socialità internettiana, a tutto vantaggio dell'individualità, del risultato individuale, del solipsismo.

Forse è il momento di rendersene conto e di cercare una strada alternativa.

Franco Battiato, Un'altra vita

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