"La smetti di stare sempre al cellulare?"
Seduta sugli spalti davanti a me, la donna scrolla compulsivamente la sua bacheca Facebook piena di animali teneri, video complottisti e vignette che facevano ridere - forse - nel 1987 e rimprovera con queste parole il figlio adolescente che guarda video su tik tok, ovviamente senza cuffie.
Il tutto durante una partita di basket, quindi non sui mezzi pubblici o in attesa dal dottore ma in un luogo in cui si va perché c'è altro da vedere.
È solo l'ultima delle aberrazioni da social con cui mi sono scontrato negli ultimi giorni che mi ha fatto porre la domanda sulla direzione che noi, tutti noi, giovani, vecchi, boomer, GenX, millennials e GenZ stiamo prendendo.
Video NPC e account Spotted: queste parole vi suggeriscono qualcosa? A me, fino a qualche giorno fa, no.
E forse sarebbe stato meglio così.
I video NPC
Confesso che prima di leggere di questo argomento sulla newsletter di "Parole ostili" ne ignoravo assolutamente l'esistenza.
Innanzitutto l'acronimo: NPC sta per Non-Playable Characters, ovvero i personaggi dei videogiochi che non hanno possibilità di azione autonoma ma hanno come unica caratteristica quella di rispondere ad input del giocatore.
Su tik tok (che è un mondo dal quale cerco ti tenermi alla larga, dato che se mi trovassi lì mi sentirei fuori luogo come uno vestito da Arlecchino ad un funerale e finirei per fare video cringe come quelli di Berlusconi e il suo imbarazzante tik tok tak) ci sono diversi utenti che fanno dei video in diretta durante i quali i follower chiedono loro di dire determinate frasi in cambio di denaro.
Il risultato è una sorta di juke box umano che risulta davvero inquietante: vedi persone che ripetono compulsivamente frasi e gesti e dall'altra parte puoi immaginare utenti compiaciuti del fatto che qualcuno, in cambio di pochi centesimi, stia facendo quello che dicono loro e che quindi hanno la sensazione di poter guidare il gioco.
Gli autori di questi video si definiscono content creator, creatori di contenuti. Ma qual è il contenuto creato, se non quello di diffondere dei tormentoni che assumono quasi l'aspetto di stereotipie linguistiche, ripetute come mantra e che fuori contesto non hanno alcun senso (che poi, a dire il vero, il senso non lo hanno neppure all'interno del contesto)?
Se qualcuno volesse saperne qualcosa di più, può leggere questo articolo o fare una ricerca su Google.
Come direbbero i giovani, io boh.
Gli account spotted
Spotto la ragazza che ieri era vicino al bar alla fine della ricreazione a parlava con una ragazza bionda che indossava una felpa nera e le Jordan.
Alla prima parola mi ero già perso come Dante nella selva oscura, ma mi viene in soccorso la Treccani che cito testualmente come un qualunque bravo studente: "Nel gergo giovanile, individuare una persona e, a sua insaputa, chiedere informazioni in proposito o darne conto in forma anonima in un social network gestito da amministratori anch’essi, di solito, anonimi".
Scopro, poi, di essere molto in ritardo perché si tratta di un neologismo del 2020, quindi, con la velocità dei cambiamenti degli ultimi anni, è paragonabile a quella per noi è stata l'invenzione del motore a scoppio.
Esistono account spotted di scuole ed università in cui studentesse e studenti fanno le loro anonime dichiarazioni d'amore a persone che hanno adocchiato (questo significa spotted in inglese) e che sperano di incontrare di nuovo.
Quindi potremmo dire che Dante aveva spottato Beatrice quando la vede per la prima volta in chiesa. Figo, no?
Provo a ragionare e mi sembra che le difficoltà perché questo incontro si verifichi siano molteplici.
L'oggetto del desiderio avrà letto questo messaggio?
Avrà capito che ci si riferiva a lei o a lui?
Come farà a riconoscere l'autore?
Tralascio volutamente il discorso sull'anonimato che - come sempre ed ovunque accade - fa sì che si dia sfogo alla parte peggiore di sé e mi chiedo: qual è stato il momento, il passaggio in cui abbiamo perso - intendo come genere umano - la voglia di parlare con l'altro, di guardarci negli occhi e abbiamo iniziato a preferire i messaggi alle telefonate, gli incontri a distanza al caffè preso al bar, i cuoricini mandati su whatsapp ai "ti voglio bene" accompagnati da un lungo abbraccio?
Un piccolo bonus - o forse un malus - sempre valido: la pornografia del dolore
L'alluvione della scorsa settimana a Campi Bisenzio ha - com'è giusto che sia - fatto nascere una catena di solidarietà davvero bella: migliaia di persone si sono prodigate e si stanno prodigando per aiutare chi ha perso molto o anche tutto, recandosi a spalare fango o contribuendo con raccolte di denaro e di beni di prima necessità.
Quello che mi ha lasciato perplesso è la spettacolarizzazione di chi è andato lì e non ha trovato di meglio da fare che farsi il selfie con la tuta e gli stivali sporchi di fango o di chi ha sponsorizzato le proprie iniziative a favore degli alluvionati.
Mi hanno ricordato le interviste e le dichiarazioni rilasciate da personaggi noti, meno noti e morti di fama in occasione della dipartita di un personaggio famoso: dopo le parole di circostanza del tipo perdiamo un testimone del nostro tempo, gli intervistati sempre un episodio in cui loro erano con il defunto, glorificando sé stessi e ricordando quanto erano stimati o amati da chi ormai non ha più la possibilità di smentire, sfruttando in questo modo l'occasione per farsi pubblicità alle spalle di un cadavere.
Lo hanno fatto in molti, in troppi.
Perché? Non è una domanda polemica: mi chiedo sinceramente quale sia la differenza con quelli che andavano a fare le foto davanti al relitto della Costa Concordia o davanti alla casa di Avetrana.
Dimostrare di esserci stati? Ma non valeva il vecchio detto secondo cui la beneficienza, quella vera e sentita, va fatta in silenzio?
Oppure ha ragione Calvino quando nel racconto L'avventura di un fotografo racconta dell'ossessione - appunto - per la fotografia:
Basta che cominciate a dire di qualcosa: " Ah, che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!" e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita.
Più ci penso, e più sono perplesso.
Le luci della centrale elettrica, Iperconnessi
Caro il mio fantastico professore-collega, sai che condivido ogni singola parola, ogni riflessione che esce dalla tua penna (sarebbe più corretto dire tastiera)..e fai venire voglia prima o poi di aprire uno spazio di riflessione pure a me.. chissà che prima o poi non accada..
RispondiEliminaP.S. Confesso che anche io non conoscevo quelle due brutte parole, ma spotted, ahimè, sì..nelle scuole ci sono i vari "spotted..."