10 maggio 2023

Convivere con la morte

 

Ciò che ha principalmente colpito (e forse irritato) l'opinione pubblica nell’intervista rilasciata da Michela Murgia al Corriere della Sera è stata – a mio modo di vedere – la serenità con cui, almeno apparentemente, la scrittrice sta affrontando la consapevolezza di avere ancora pochi mesi di vita.

La nostra società fa fatica ad accettare l’idea della morte (nonostante il saggio Svevo scrivesse ormai quasi cento anni fa “A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale) e tutti noi continuiamo a vivere nella convinzione che esisteremo per sempre, non rendendoci conto di quanto limitato sia lo spazio di tempo che abbiamo a disposizione, di quanto l’importanza, i premi, la considerazione di cui possiamo godere in questa vita siano relativi e limitati, di quanto sarebbe meglio non tenersi niente dentro, non rimandare ciò che vorremmo fare, non tacere le cose che vorremmo dire, di quanto sarebbe preferibile – in una parola – vivere.

E invece no, della morte non si parla se non in termini tragici e attraverso perifrasi: una persona non muore, ma viene a mancare, non è più tra noi, per chi è credente torna alla casa del Padre. Crediamo in questo modo di esorcizzare la morte e invece le diamo ancora più potere ed importanza perché la circondiamo dell’aura propria del tabù. Parlare di morte è quasi come parlare di sesso: tutti – in un modo o nell’altro – ne sono coinvolti, ma solo in pochi hanno il coraggio di parlarne pubblicamente e in modo esplicito.

E allora ben vengano (se non sono solo un fenomeno di costume) i Death cafè come quello nato a Torino, in cui si parla della morte tra un bicchier di vino ed un caffè per citare un Gino Paoli d’annata ma non troppo; ben vengano interviste come quelle di Michela Murgia in cui si sottolinea l’ineluttabilità della morte ma anche l’importanza di vivere appieno la propria vita; ben vengano i libri di poesia che affrontano questo tema, come la classica Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters o, in tempi molto più recenti, Cartoline dai morti di Franco Arminio. In questa raccolta, talvolta sul filo dell’ umorismo nero, si immaginano le ultime parole pronunciate da chi è in procinto di passare tra i più (per usare ancora una perifrasi, questa volta tratta dal mondo greco). Tra questi brevissimi componimenti ce n’è uno che mi commuove ogni volta che lo leggo e che voglio condividere, perché la bellezza va condivisa:

Volevo conservare per te un’ultima goccia di sangue, figlio mio. Sapevo che eri partito da Losanna per venire a trovarmi ancora viva. Mi sono punta con un ago la punta del dito. Ho messo la goccia di sangue sul comodino.

Bisogna imparare a morire durante la vita, come diceva Seneca; concedersi, proprio nei momenti di maggiore vitalità, qualche minuto di riflessione sul momento in cui non ci saremo più, per imparare ad affrontare la morte, per citare Orazio, con l’animo di un commensale che si alza, sazio, da tavola dopo un lauto banchetto.

Ma, forse, non basta una vita intera per imparare a morire.

Caparezza, La certa

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