Credo che quando Umberto Tozzi cantava Primo maggio, su coraggio! stesse pensando intensamente a studenti e docenti che in questo mese si trascinano sui gomiti pur di arrivare a fine anno scolastico prima dei famigerati tre-mesi-di-ferie di cui ho parlato in questo post di qualche mese fa. Maggio è accompagnato da una litania:
"prof, ha corretto le verifiche?"
"prof, possiamo non fare questa verifica?"
"prof, cosa mi mette in pagella?"
"prof, non ho fatto una mazzafionda durante l'intero anno scolastico. Mi fa recuperare ora negli ultimi 4 secondi che rimangono?"
"prof, se le do venti euro mi mette 6?"
e così via.
Sta di fatto che questo mese mi rende particolarmente polemico (sì, più del solito) e mi ha portato a riflettere su uno dei mali atavici della scuola: l'incapacità di fare sistema (e la spocchia di buona parte della classe docente).
L'idea comune è che il prof, una volta varcata la soglia dell'aula, chiusa la porta, diventi il monarca assoluto che esercita il suo brutale potere su sudditi spaventati e obbedienti, su cui ha potere di vita e di morte. In alcuni casi è vero anche se bisogna ricordarsi che nel segreto dell'aula il Dirigente non vede, ma le chat dei genitori sì.
Quello che ci si dimentica è che il suono della campanella determina per il docente la fine del suo potere sui poveri e indifesi fanciulli e lo fa diventare parte di un sistema in cui la coesistenza (per non parlare della collaborazione) è essenziale. Nel post della scorsa settimana ho scomodato Aristotele e la sua idea del tutto che è maggiore della somma delle parti che lo compongono: questo discorso si adatta perfettamente alla scuola: si può essere i più preparati, i più comunicativi, si può essere delle star come il fisico che parla come Lino Banfi o il glaucopide dispensatore di perle di saggezza dalle colonne del Corriere, ma tutto è inutile se non si cerca di perseguire un obiettivo comune con le colleghe e i colleghi. E l'obiettivo qual è? La formazione in ogni aspetto, personale e culturale, delle ragazze e dei ragazzi che abbiamo tra le mani. E pazienza se noi quando eravamo a scuola sapevamo molto di più di loro, se ora le famiglie sono assenti e non insegnano l'educazione e tocca a noi insegnargliela, se signora mia non ci sono più le mezze stagioni: la situazione è questa e in questa situazione lavoriamo.
Svuotare il mare con un cucchiaino è impossibile, dicono.
Magari anche svuotarlo con dieci, cinquanta, cento cucchiaini lo è, ma sicuramente ne svuoti di più.
Vedo e sento colleghe e colleghi che pensano di esprimere la propria superiorità disprezzando il sistema scolastico (che - ben inteso - ha le sue storture che non basterebbe la Treccani per elencarle tutte) o sottolineando l'ignoranza delle nuove generazioni: li sento dire pressappoco così: "io alla loro età già leggevo i romanzi russi in lingua originale e guardavo film croati di quattro ore con sottotitoli in lingua swahili". Ciò, però, significa non avere fiducia nella propria capacità di insegnare, significa aver mollato il colpo e soprattutto denota una mancanza di capacità di adattamento: fare ciò che si può con ciò che si ha dovrebbe essere il punto di partenza di tutto. E invece si pensa che adattarsi sia una parolaccia.
Prendere ispirazione dai liquidi potrebbe essere la soluzione e a chi pensa che prendere la forma del contenitore, come fa l'acqua, sia svilente, voglio ricordare una cosa: che tu sia Tavernello o Barolo, anche se cambia la tua forma, non cambia la tua essenza. Chi vale, vale indipendentemente dal suo essersi adattato alla situazione: certo, per continuare l'allegoria enologica, a tutti piacerebbe stare in un decanter di cristallo, ma a volte ci dobbiamo accontentare di una vecchia, decorosa bottiglia, ricordandoci sempre che la nostra natura resta la stessa.
Mi vengono in mente i versi di Dante:
Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
là giú, colà dove la batte l’onda,
porta di giunchi sovra ’l molle limo:
là giú, colà dove la batte l’onda,
porta di giunchi sovra ’l molle limo:
null’altra pianta che facesse fronda,
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch’a le percosse non seconda.
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch’a le percosse non seconda.
Sulla costa dell'isola del Purgatorio ci sono i giunchi, le uniche piante in grado di sopravvivere ai colpi delle onde perché, a differenza delle altre piante, quelle che fanno fronda o si indurano, cioè quelle che hanno rami o sono rigide, i giunchi si piegano, assecondando i movimenti del mare, ma non si spezzano mai.
Irrigidirsi od ostentare tutto ciò che si è, che si ha, che si fa, che si sa non servono a salvarci: a salvarci è la capacità di assorbire i colpi, di adattarci senza perdere la nostra natura.
Il giunco è, per Dante, il simbolo dell'umiltà, termine connesso etimologicamente ad humus, cioè terra.
È bello, bellissimo, egoisticamente soddisfacente volare, staccarsi da terra, guardare gli altri dall'alto in basso, ma, forse, è più utile e più produttivo non perdere mail contatto con la terra.
Franco Battiato, Caliti junku
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