Non chiedetemi perché, ma una delle due cose di fisica che mi è rimasta inspiegabilmente nella memoria è l'effetto Doppler, quello che fa sì che, quando sentiamo un'ambulanza allontanarsi, noi percepiamo un cambiamento del suono. Non chiedetemi il perché neanche di questo.
Mi è venuto in mente l'altro giorno quando stavo scappando dall'aula dopo aver raccolto tutte le mie cianfrusaglie sulla cattedra: scappavo perché sono sempre in ritardo come il Bianconiglio e non ero pronto a subire lo sguardo di riprovazione della collega dell'ora seguente che, per non perdere secondi preziosi, inizia a far lezione già nel tragitto che la conduce dalla porta alla cattedra.
Mentre fuggivo, ho sentito S. che dice qualcosa di cui colgo solo il finale "...etico".
Non posso non tornare indietro, anche se intravedo che dalle scale si sta avvicinando minacciosa la criniera corvina della collega Medusa, pronta a pietrificarmi con il suo sguardo: pur non essendo Perseo, torno indietro e chiedo ad S. cosa abbia detto e lei me lo ripete: "È stato poetico". E io mi allontano felice, salutando con un sorrisone Medusa, ma nel dubbio evitandone lo sguardo ché non si sa mai.
Può essere poetica una interrogazione di italiano?
Ma soprattutto può uscire una frase come questa dalla bocca di S.? Non so come sia possibile, ma lei, pur essendo alta, dà sempre la sensazione di guardarti dal basso, con quegli occhi scuri che sembrano scusarsi perché non si sente mai abbastanza.
Non me lo aspettavo da S., studentessa in difficoltà che, nel corso delle ultime settimane, sta attraversando le quattro stagioni degli studenti (non me ne frega niente - non capisco niente - forse ho capito - ce la posso fare) passando in un modo repentino e inaspettato dall'una all'altra come il meteo nelle scorse giornate.
Una interrogazione di italiano può essere poetica se l'oggetto dell'interrogazione è uno dei racconti più famosi di uno dei miei autori-feticcio, ovvero Dino Buzzati.
Era il 1937 quando viene pubblicato per la prima volta sulla rivista La lettura il racconto Sette piani (che vi consiglio di leggere - o rileggere - qui).
In queste pagine si racconta la storia di Giuseppe Corte che si reca in un ospedale, noto perché cura esclusivamente la malattia di cui lui è affetto in forma lievissima.
Quando lo scorse da lontano – e lo riconobbe per averne già visto la fotografia in una circolare pubblicitaria Giuseppe Corte ebbe un’ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga d’albergo. Tutt’attorno era una cinta di alti alberi.
Sembra bello, il sanatorio, che, inoltre, ha una strana caratteristica che Giuseppe viene a scoprire parlando con le persone che sono lì.
I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l’ultimo, era per le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile sperare.
Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un’atmosfera omogenea. D’altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto.
Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste. Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affidato a un medico diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso all’istituto un unico fondamentale indirizzo.
Corte viene inizialmente messo al settimo piano in quanto le sue condizioni di salute non destano alcuna preoccupazione, salvo poi trovarsi, dopo poche settimane, per una serie di coincidenze sfortunate quanto inevitabili, a scendere sempre di più fino al finale che tutti i lettori si attendono ma nessuno accetta:
Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In quanti anni, sì, bisognava pensare proprio ad anni, in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all’orlo di quel precipizio?
Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l’orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall’altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce.
Con la classe ci siamo interrogati sul senso di questo racconto ed è stato bello sentire quindicenni dialogare con un testo che di anni ne ha ormai 87 ma che sembra perfettamente in grado di parlare con loro.
Abbiamo parlato della struttura dell'ospedale, che a qualcuno ha ricordato la struttura dell'Inferno dantesco (ormai lo sanno tutti: almeno una volta per ogni lezione, Dante va citato) e di quanto siano importanti i particolari, soprattutto il fatto che il percorso si configuri come una discesa e non come una salita. Raccontare un passaggio dal primo al settimo piano avrebbe avuto tutto un altro sapore e questo ci ha portato a riflettere su quanto siamo inconsciamente condizionati e condizionabili dai luoghi comuni e da meccanismi di pensiero, per cui al concetto di discesa associamo qualcosa di negativo.
Ci siamo interrogati sul significato allegorico del testo: cosa ci vuole raccontare realmente Buzzati? Cosa rappresenta l'ospedale? È stato un momento di confronto anche emozionante perché S., un'altra S., che ha avuto un lutto molto grave in famiglia, quasi con le lacrime agli occhi ha detto che forse i medici hanno detto una bugia a Corte, non avendo il coraggio di dirgli che le sue condizioni non erano così buone come gli avevano fatto credere collocandolo nel settimo piano dell'ospedale. I medici - continua S. - dovrebbero essere in grado di dire la verità.
A quel punto distolgo lo sguardo dai suoi occhi che stanno diventando acquosi e sfodero la seconda mia conoscenza di fisica: il moto su un piano inclinato. Tocca a me raccontare il mio punto di vista.
L'ospedale - apparentemente bellissimo ma in realtà sottilmente disturbante fin dall'inizio - è una metafora della nostra vita: tutti siamo destinati alla morte, inizialmente la guardiamo da lontano e crediamo di poterla evitare, ma il tempo passa inesorabile e, come una pallina su un piano inclinato, non possiamo fermare la nostra corsa. Talvolta abbiamo la sensazione di essere di fronte a bivi risolutivi, qualcosa che ci permetta di tornare indietro e nutriamo la speranza che questo sia possibile, ma fisicamente non lo è e continuiamo la nostra folle corsa che, per caso e per necessità, ci porta più o meno velocemente al primo piano, dove le serrande scorrevoli chiudono il passo alla luce.
È stato poetico? Forse sì.
Ho capito ancora una volta che posso preparare ogni minimo dettaglio di lezioni del genere, organizzare tempi e modi, preparare slides, ma niente, e dico niente, è potente quanto pensare ad alta voce con ragazze e ragazzi, ascoltare ciò che hanno da dire su temi che, spesso sbagliando, non sono ritenuti alla loro portata, ma soprattutto essere disposti a condividere con loro le mie sensazioni di lettura che, nella maggior parte delle volte, saranno diverse da quelle che ho avuto tutte le altre volte che ho letto lo stesso testo, da solo alla mia scrivania o in altre aule, in altri anni, in altre città.
E mentre fuggo nel corridoio, penso sia valsa la pena rischiare la pietrificazione.
Angelo Branduardi, Ballo in Fa Diesis minore
Tutto davvero affascinante, caro Luca. Ma chi è questo signor Dante che va citato ad ogni lezione? Adoro Sette piani, anche nella sua trasposizione per la RAI... un abbraccio
RispondiElimina