31 agosto 2022

Mare fuori: una non-recensione e qualche considerazione

Con colpevole ritardo sto guardando su Netflix una serie, Mare fuori, già trasmessa negli anni scorsi dalla Rai e di cui è in previsione una terza stagione nel prossimo autunno. 

Lo confesso: la mia resistenza serale sul divano varia ultimamente (e per ultimamente intendo negli ultimi 10 anni) tra i 15 e i 30 minuti, salvo eccezioni per film horror banali, maratonementana e serie tv particolarmente coinvolgenti come, appunto, questa. Senza spoilerare niente, la serie è ambientata nell'istituto penitenziario minorile di Napoli, in cui si intrecciano storie di degrado e di speranza di ragazze e ragazzi di origine ed estrazione sociale diversa. Per alcuni versi, Mare fuori è troppo italiana come direbbe Stanis La Rochelle (e se questo nome non vi dice niente SHAME ON YOU): in una fiction italiana che si rispetti non possono mancare storie d'amore travagliate ma destinate a finire bene nonostante il mondo remi contro, personaggi e situazioni che devono necessariamente far ridere, buchi di trama profondi tipo Fossa delle Marianne. Tutto questo non manca a Mare fuori che, comunque, riesce a risultare interessante e a toccare temi sensibili, uno fra tutti il destino quasi segnato di chi vive in situazioni di deprivazione sociale: se hai la sfortuna di nascere in determinati contesti, sei quasi condannato a ripercorrere le strade, spesso accidentate, di chi ti ha preceduto e di chi ti circonda.

Questa sorta di determinismo sociale mi mette in crisi: ma è davvero così? Davvero - senza arrivare a conclusioni estreme e stereotipate - se nasci in condizioni di disagio, il disagio ti è impresso nel DNA? Penso al racconto La città involontaria di Anna Maria Ortese che descrive il cosiddetto III e IV Granili, un palazzone che si ergeva nella periferia di Napoli e che sembra anticipare le Vele di Scampia; penso a Corviale, il gigantesco edificio romano oggetto poi di una importante riqualificazione raccontata nel film "Scusate se esisto!" con Paola Cortellesi. La mente, poi, non può non andare a Mery per sempre, uno dei primi film (siamo nel 1989) che affronta le questioni della detenzione minorile scegliendo di approfondire un tema - quello delle persone transgender - su cui 35 anni fa c'era decisamente un'attenzione diversa.

Di fronte a queste situazioni, al netto della tara che va fatta per capire che molto spesso narrativa e cinema impongono delle semplificazioni per cui bene e male sono due categorie non comunicanti tra loro, fatta eccezione per i passaggi di stato da cattivo buono il cui modello è Pinocchio, accanto al senso di impotenza, mi assalgono i dubbi. Posso fare qualcosa in prima persona per evitare che questo accada? Probabilmente no, ma non smetterò mai di credere nel ruolo della cultura, quella che è contrapposta allo stato di natura, quella che non è erudizione che - come dico sempre ai miei malcapitati studenti - serve solo per vincere ai quiz televisivi, quella che insegna a vivere, che ti fa capire realmente cosa siano l'empatia e la resilienza, parole tanto di moda quanto incomprese. L'altra arma a disposizione è quella dell'esempio: genitori ed educatori che usano violenza, arroganza, prepotenza nelle parole e negli atti influenzeranno necessariamente - e forse in maniera inevitabile - le nuove generazioni che perpetueranno comportamenti sbagliati in una spirale destinata a ripetersi fino a quando qualcuno non ha la forza o il coraggio di spezzarla. 

E no, non è vero che finisce sempre bene, come nei film: anche se è consolante assistere al lieto fine in cui il bene vince sul male (è di qualche giorno fa la notizia della Cina che ha imposto l''happy ending al film Minions 2), la retorica dell'andrà tutto bene, come scrivevo altrove, ha fatto più danni della grandine. Esserne consapevoli non vuol dire essere pessimisti; esserne consapevoli aiuta, invece, a non attendere un aiuto dall'alto, sia esso il caso o la Provvidenza, a rimboccarsi le maniche per cercare di fare ognuno la propria parte, per quanto piccola o insignificante possa apparire.

Caparezza, Una chiave

5 commenti:

  1. Massimo seriacopi31/08/22, 08:50

    Tutto ciò è molto dantesco...

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    1. Se leggi il racconto della Ortese sembra davvero di leggere l’inferno dantesco

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  2. Stanis Larochelle for ever!

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  3. Paola Nobili04/09/22, 10:03

    Nei miei 15 anni di insegnamento in carcere ho incontrato moltissimi ragazzi e uomini adulti che, con la loro storia, erano l'incarnazione del determinismo: nati in famiglie in cui la galera è sempre stata una consuetudine, una tradizione che si tramanda di padre in figlio, cresciuti in quartieri dove il futuro è già scritto sui muri e nelle strade. Sei un bambino e vedi i malavitosi come eroi, il degrado e la violenza ti appaiono come scenari da film western... Sono state proprio queste le parole usate da un mio studente a Sollicciano.

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