09 aprile 2023

Compiti per le vacanze

Ogni anno, più volte all'anno si ripete la stessa storia.

Nei momenti di interruzione della scuola c'è qualche maestro/maestra/professore/professoressa che - wow che cosa innovativa! - dà ai suoi studenti una lista di compiti per le vacanze che non prevede compiti, ma attività all'aperto, sorrisi e tanto amore.

Ovviamente la lettera diventa virale (termine che, personalmente, ho iniziato a detestare quasi quanto detesto resilienza), le testate giornalistiche ne parlano, pubblicando articoli su facebook e lì si scatena la solita massa indistinta di commenti che potremmo riassumere in quattro categorie:

1. chi ha proposto questa lista merita la presidenza del mondo.

2. ai miei tempi non era così.

3. così facendo i gggiovani smettono di studiare e poi è normale che chiedano il reddito di cittadinanza.

4. pecore, vi siete fatti inoculare il siero e ora ne pagate le conseguenze.

Internet è quel mondo meraviglioso in cui la gente scrive compulsivamente spesso senza avere la minima idea di aver già commentato più e più volte la stessa cosa e ancora più spesso senza avere la minima competenza nell'argomento di cui si sta parlando.

Andando a riguardare nel mio bravo archivio da ossessivo compulsivo, ho ritrovato questa mail che avevo scritto ai miei studenti ormai 7 anni fa, al presentarsi di una di queste liste di compiti (in quell'occasione erano indicazioni per l'estate):

Non credo che invitarvi a ballare o dire ad una persona che la amate sia un compito da dare per l’estate perché, come si diceva ieri, sono consigli che valgono per tutte le stagioni, a maggior ragione di inverno, quando tutto (la scuola, il clima, le giornate brevi) sembra tramare contro la nostra felicità; mi sembra giusto, tuttavia, condividere con voi qualche spunto di riflessione a cui dedicare in estate quel tempo che non avete durante l’inverno.

Ci sono alcuni diritti che non dobbiamo dimenticare:
  • il diritto alla noia: non è un male annoiarsi; la noia può spingerci a vagare con la mente in luoghi lontani dove non arriveremo mai se avremo sempre qualcosa da fare
  • il diritto all’assenza: il nostro presenzialismo 24 ore su 24 su social network, whatsapp e compagnia bella non deve essere una schiavitù. La sensazione di non esistenza che possiamo provare se rimaniamo off line per un po’ è comprensibile, ma ricordiamo sempre di curare i nostri rapporti con l’unica persona che non ci abbandona mai: noi stessi.
  • il diritto al silenzio: non dobbiamo sempre per forza avere qualcosa da dire su qualunque argomento. Può esserci anche qualcosa che non conosciamo (e che, legittimamente, non ci interessa di conoscere) e su cui non abbiamo un parere: non parlare non vuol dire per forza non esserci o essere ignavi.
Dovremmo imparare a goderci i momenti che viviamo, senza aspettare il futuro che verrà: questo non vuol dire non avere aspirazioni o non lottare per raggiungerle, ma significa semplicemente che il tempo in cui noi viviamo è il presente, né il passato né il futuro, ed è di questo presente che dobbiamo avere cura. Se sono ad un concerto, devo perdermi con la mente e con il corpo nella musica che ascolto; se sto per mangiare una buonissima pizza, preparo i miei sensi ad assaporarla; se vivo una bella esperienza, cerco di memorizzarne tutti i particolari per poi poterli condividere di persona con i miei amici, parlando con loro, guardandoli negli occhi. Se ho già condiviso tutto sui social network, di cosa parlo con i miei amici? Di poco e nulla e perciò passo  le mie serate con loro a guardare ciò che altri stanno condividendo in quel momento e così via…

Non cambierei una virgola rispetto a quello che ho scritto allora.
Ecco il vantaggio delle liste di compiti riciclate da una vacanza all'altra: permette anche di riciclare le cose già scritte.

*Temo le liste di compiti anche quando portano i doni.
È una citazione virgiliana storpiata con una buona dose di latinorum. Come dice la Treccani alla voce Timeo Danaos et dona ferentes: "Parole che Virgilio (Eneide II, 49) fa pronunciare a Laocoonte, quando vuol dissuadere i Troiani dall’accogliere nella città il cavallo di legno lasciato dai Greci. Si ripete, talvolta in tono scherzoso, per esprimere diffidenza verso chi non si reputa amico, e che fa offerte e proteste di amicizia.



02 aprile 2023

52' 50"

"Profe, sinceramente, lei li ha mai visti i nostri profili sui social?"

Budapest, circa le 3 di venerdì mattina, sulla strada del ritorno verso l'albergo dopo una lunga serata, una studentessa mi rivolge questa domanda,
No, non li ho mai visti.
Mi sto ancora interrogando su ciò che è successo circa mezz'ora prima quando, improvvisamente, mi sono trovato a giocare a biliardino con tre sconosciuti ragazzi ungheresi (esultando poi in maniera scomposta per aver difeso l'orgoglio patriottico ed aver portato la mia squadra alla vittoria) quando parte una riflessione sul modo che loro hanno di apparire: non è vera l'immagine che danno di sé su Instagram o su Tik Tok almeno quanto non è vera l'immagine che danno di sé a scuola,  da una parte sempre sorridenti, dall'altra perennemente imbronciati. 

Ho avuto il privilegio di poterli vedere in gita quando, liberi da molti degli schemi e dei condizionamenti che si portano dietro, si sono mostrati per quello che sono ed è stato bello chiacchierare con loro che hanno affogato le proprie ansie da Esame di Stato in una piscina di acqua termale e che mi hanno rivelato - come reati ormai caduti in prescrizione - una minima parte dei trucchi usati in DAD per affrontare compiti e interrogazioni. E poi hanno fatto domande sulla mia vita, su cosa mi abbia spinto a diventare un insegnante e mi hanno chiesto stupiti: "Ma davvero lei, profe, si alza ogni mattina contento di fare questo lavoro?". Non potevano crederci, così come sembrava loro strano il fatto che io non avessi pagato la gita: cioè, nella loro ingenuità pensavano che qualcuno fosse disposto a pagare per vivere 5 giorni di ansia allo stato puro avendo nelle mani la sorte di venti adolescenti.

E poi c'è stato un continuo ironizzare sulla mia età ("profe, non si preoccupi, a lei non chiederanno la carta di identità per entrare nei locali") e sul mio essere un boomer (cosa di cui vado anche discretamente orgoglioso, almeno fino a quando non scriverò AMEN sotto i post pseudoreligiosi che circolano su facebook o non saluterò tutti con improbabili foto di tazzine di caffè accompagnate da un BUONGIORNISSIMO dai colori sgargianti),

Finalmente liberi di parlare e di essere, elettrizzati all'idea di essere fuori dall'Italia e di godere di quella sensazione di leggerezza, di quell'ansia di conoscere qualcosa di nuovo; usare i fiorini ungheresi facendo perennemente confusione sul cambio; mangiare in uno tra i più bei Mc Donald's al mondo accanto ad una stazione costruita da Eiffel senza capire assolutamente nulla di quello che c'è scritto dato che è tutto maledettamente scritto in ungherese; urlare canzoni italiane nell'attesa dell'arrivo del mezzo pubblico. E tanto tanto altro.

E poi Mattia Corvino in ogni angolo della città, il ricchissimo parlamento ungherese (e un rotolo di carta igienica su cui, tra mille parole in lingua locale, era scritto anche il nome di Orban e suppongo che non fossero complimenti), un pezzo del muro di Berlino a cui una mia studentessa si è appoggiata inconsapevole di essersi accasciata su un pezzo di storia, il vento freddo, i danni del Comunismo e la statua che sembra di Dante ma che non è di Dante.
Insomma, siamo tornati tutti vivi, tutti più ricchi, tutti un po' più sereni (almeno per un po'). E personalmente, anche grato a tutti quelli che hanno condiviso l'esperienza con me, da vicino e da lontano.

Ma soprattutto ho acquisito una nuova consapevolezza: una visita guidata che dura un'ora è troppo lunga; una visita durata che dura 45 minuti è troppo breve. Da ciò si deduce che la durata ideale è di 52' e 50".

Jackson Browne, The road

26 marzo 2023

Siamo noi la resistenza

Siamo noi la resistenza:

quelli che partono lo stesso nonostante i “chi te lo fa fare?”, i “ma tu sei pazzo!”, i “troppe responsabilità e zero soldi”;

quelli che contano mille volte che ci siano tutti e per mille volte ottengono un numero diverso tentando poi di giustificarsi con un misero “ma io non insegno mica matematica”;

quelli che al “ma noi siamo maggiorenni” rispondono con un serenissimo “non me ne frega niente. Questa settimana voi siete dei bambini e io sono vostro padre”

quelli che in aereo, in pullman, a pranzo, a cena, anche in bagno ascoltano gli sfoghi infiniti e i problemi esistenziali di tutti simulando interesse e combattendo con le ore di sonno mancanti (dato che ormai l’età avanza e non si è più in grado di accontentarsi di dormire poco, ammesso che lo si sia mai stati);

quelli che controllano che tutti mangino e che fingono di apprezzare la cena dell’albergo che di solito ha un livello di qualità che si colloca approssimativamente tra il cibo in scadenza di un discount e un bidone dell’umido;

quelli che, secondo gli studenti, hanno portato con sé una farmacia, tutti gli attrezzi necessari per il trucco è il parrucco ma anche una cassetta di attrezzi per il fai da te;

quelli che “ma che ingiustizia! Ha un bagno tutto per sé e noi no” (e ci mancava solo di dover condividere il bagno con degli adolescenti);

quelli che “ma che ingiustizia! Lei ha la stanza più bella di tutte” (e per cosa credete che abbia deciso di prendere una laurea ed insegnare se non per la sedia con i braccioli in classe e per la stanza più bella o almeno singola quando sono in gita?);

quelli che, nonostante tutte le difficoltà e le enormi ansie, nonostante “i ragazzi di oggi sono maleducati, ignoranti e presuntuosi” (che meraviglia le generalizzazioni!), nonostante il casino lasciato a casa, nonostante “i viaggi di istruzione sono inutili perché i ragazzi girano già il mondo da soli”, pensano che sia bello e necessario permettere a tutti di costruirsi un ricordo - spesso piacevole ma comunque indelebile - del viaggio di istruzione dell’ultimo anno delle superiori;

quelli che accompagnano i ragazzi in gita.

Ammesso e non concesso che io torni vivo e non venga incriminato per un qualunque reato commesso da me o da terzi, sono comunque pronto a ritrattare ogni singola parola e a sottoscrivere con il sangue che non accompagnerò mai più nessuno neanche nel giardino di fronte a scuola.

Ma nel frattempo parto.

Cesare Cremonini, Buon viaggio


19 marzo 2023

19 marzo

Ogni tanto ti senti forte e credi davvero di essere una roccia a cui i figli possono aggrapparsi anche nelle tempeste più violente.

Altre volte sei tu a sgretolarti e sai di non poter essere utile neppure a te stesso.

Certi giorni ti senti il peggiore del mondo, credi di star sbagliando tutto e che provocherai in loro chissà quali traumi.

Altri giorni riesci a placare le loro ansie, a regalare loro la felicità, ad esserci e pensi (o ti illudi) di lasciare degli insegnamenti che siano un possesso eterno.

C’è la volta in cui riesci a mantenere la calma e a riportare il sereno anche quando intorno c’è baraonda.

E poi una volta la linea che devia minimamente dal tracciato ti mette in crisi e tira fuori il peggio di te.

Non vuoi essere un padre padrone.

Non puoi essere un padre amico.

Vuoi mostrare la tua parte sensibile e vulnerabile senza perdere l’aura da supereroe senza macchia e senza paura.

Vorresti non fare gli errori che pensi di aver subito (ma sai che ne fai anche di peggiori).

Vuoi essere presente (ma non sempre ne hai la forza e la volontà).

Vuoi con tutto te stesso renderli autonomi ma ti piace che ti chiedano le coccole prima di andare a dormire.

Nessuno ti insegna ad essere padre: lo impari ogni giorno ed è una continua scoperta costellata di successi e frustrazioni.

Auguri a tutti i papà, i padri, i babbi: a chi lo è, lo è stato, lo sarà; a chi vorrebbe esserlo, a chi lo è di cuore o di testa, a chi ha tanti figli pur non essendo padre.

Cat Stevens, Father and son

12 marzo 2023

Lavorare stanca

Lavorare stanca e ciò è insito nella sua etimologia: il latino labor vuol dire, appunto, "fatica". 

Il lavoro è la punizione di Dio per Adamo che non ha obbedito ai suoi comandi, ma è anche, secondo Virgilio, un premio in quanto permette all'uomo di evitare il gravis veternus, il pesante torpore di inerzia. Il lavoro è, secondo il vecchio adagio, ciò che nobilita l'uomo ed è ciò su cui è fondata la nostra Repubblica secondo il primo articolo della Costituzione.

Ultimamente, però, il lavoro sembra diventato un'ossessione: nella società della performance in cui viviamo e da cui siamo permeati, cerchiamo sempre di essere (o di mostrarci) impegnati, ricercati, indaffarati per apparire sempre al meglio e sul pezzo; se abbiamo del tempo libero ci sentiamo quasi in colpa, dopo un primo momento di ebbrezza. 

A questo va aggiunto anche quello che il filosofo austriaco Ivan Illich chiamava lavoro ombra, ovvero tutto quel lavoro che, grazie all'automazione, noi facciamo al posto di altri senza essere retribuiti: siamo i commessi del nostro supermercato, i nostri agenti di viaggio, gli impiegati del check-in all'aeroporto. In tutti questi casi, a toglierci tempo è stata proprio quella tecnologia che, invece, ci lusinga costantemente con la promessa di farci avere più tempo per noi. Ma lo vogliamo realmente? 

Ho sperimentato sulla mia pelle questa sensazione: nei miei 7 anni di vita trascorsi nella produttiva Milano lavorare - ufficialmente - mezza giornata in mezzo a tanta gente che produce come cantava Giorgio Gaber generava in me un senso di inferiorità rispetto agli impiegati nine-to-five che affollavano la metropolitana nelle ore di punta. Non coglievo l'importanza di avere più tempo da amministrare lontano dal posto di lavoro, tempo da utilizzare per leggere, coltivare me stesso e le mie passioni, persino annoiarmi.

"La palese astensione dal lavoro è il segnale convenzionale di uno status pecuniario superiore": così il sociologo Thorstein Veblen nel 1899. Certo non era il mio caso: non ho mai provato la sensazione di vivere in uno status pecuniario superiore e credo non mi succederà mai, ma se l'antico detto il tempo è denaro ha un fondo di verità, credo di aver vanificato un patrimonio notevole.

Quindi, in cosa abbiamo sbagliato? Qual è stato il punto di rottura? Ma soprattutto come si esce da questo labirinto apparentemente senza uscita? Da una parte senza lavoro non si può vivere, dall'altra diventiamo work-addicted e lo rendiamo nostra unica ragione di vita, un dio pagano a cui sacrificare ogni nostra energia e ogni nostro momento.

"Monotona cosa è il genere umano. Quasi tutti passano la maggior parte del tempo a lavorare per vivere, e quel po' di libertà che gli avanza li opprime talmente tanto che cercano con ogni mezzo di liberarsene". Scriveva così Goethe nel 1774 nel romanzo I dolori del giovane Werther.

Gli uomini si sentono, paradossalmente, oppressi dalla libertà tanto che cercano ogni mezzo per liberarsene e il mezzo privilegiato per raggiungere questo fine è il lavoro.

Sono passati 250 anni e non è cambiato nulla, anzi: ma io lavoro per non stare con te suona davvero come la frase-chiave di una generazione, o forse proprio di un momento storico, in cui stiamo perdendo il senso della comunità, resa sterile dalla finta socialità internettiana, a tutto vantaggio dell'individualità, del risultato individuale, del solipsismo.

Forse è il momento di rendersene conto e di cercare una strada alternativa.

Franco Battiato, Un'altra vita

05 marzo 2023

Pane e coraggio

"L'Italia è un paese razzista".

Lo dice tra i denti e a bassa voce P. ma è al primo banco ed io la sento: le chiedo di ripetere quello che ha detto.

"L'Italia è un paese razzista, profe. Glielo dico per esperienza"

È nera P. ed è mia alunna da tre anni, ma solo in quel momento mi sono concentrato su questo particolare. Mi hanno insegnato che si dice nera, non di colore per il semplice motivo che anche il bianco è un colore per cui di colore lo saremmo tutti e poi questa espressione puzza un po' di censura dovuta al pudore, di tentativo di girare intorno ad una parola pur di non dirla, edulcorandola come se fosse qualcosa di sbagliato.

Tutto è partito da un post di Espérance Hakuzwimana Ripanti, autrice del libro Tutta intera che, come raccontavo in un altro post, sto leggendo con le mie studentesse e i miei studenti: la scrittrice, che avremmo dovuto incontrare a scuola tra qualche settimana, ha deciso di interrompere il tour promozionale del libro. Ho provato ad immaginare cosa possa spingere ad una decisione così impegnativa una persona di trent'anni che pubblica il suo primo libro con una casa editrice importante e che dovrebbe essere motivatissima ad andare avanti e dovrebbe avere una incredibile voglia di emergere e di raccontare.

Quando le ho lette, quelle parole mi hanno fatto male: difficoltà economica, pesanti stati di ansia, frustrazione e subdoli atti di razzismo, tutto concentrato in poche righe. Se dico che capisco in realtà sto inconsapevolmente mentendo perché non so cosa voglia dire avere 20€ sul conto, svegliarsi piangendo o andare a letto con la tachicardia, ma soprattutto non so cosa voglia dire essere nero. Mettersi nei panni di è una pratica di cui ci si riempie spesso la bocca, ma che, nei fatti, resta un modo di dire: posso provare vicinanza umana, empatia ma non posso comprendere. E quindi non posso giudicare.

Condivido con le mie studentesse e i miei studenti il post: P. allora mi racconta quello che lei e sua madre hanno subìto e io provo rabbia: non l'ho mai sentita parlare così tanto, non ho mai visto il sorriso scomparire così improvvisamente dalle sue labbra. E il pensiero è andato al naufragio di Cutro: non alla tragedia, non al dramma di Cutro. Le parole altisonanti sembrano dare più importanza ad un evento e invece ne sottraggono la componente umana: per una tragedia, per un dramma nessuno può fare nulla, per un naufragio sì, ma tra il dire e il fare - mai come in questo caso - c'è di mezzo il mare e la volontà di sottolineare che la colpa non è mai da ascrivere a chi (non) accoglie, ma a chi parte.

E la mia mente corre all'Eneide e alle parole di Ilionèo che, giunto sulla terraferma dopo un lungo naufragio, pronuncia di fronte alla regina Didone queste parole: 

Ma che gente è questa? Che barbara patria consente
usi cosiffatti? Ci è interdetto l'asilo della riva,
ci muovono guerra, vietano di stanziarci in terraferma.
Se spregiate il genere umano e le armi dei mortali,
temete almeno negli dèi la memoria del bene e del male

Enea, un troiano, un turco, uno straniero, considerato dai Romani - popolo tendenzialmente rozzo e autocentrato - come un eroe, capostipite della propria stirpe, incarnazione dei valori che qualunque bravo cittadino avrebbe dovuto condividere.
Basterebbe questo a superare qualunque forma di razzismo.
E invece no. 

Ivano Fossati, Pane e coraggio

26 febbraio 2023

L'attesa

Oggi che t'aspettavo
non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava
nel vuoto che hai lasciato,
come una stella.

Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
s'annuncia e poi s'allontana,
così ti sei negata alla mia sete.
L'amore, sul nascere,
ha di questi improvvisi pentimenti.

Silenziosamente
ci siamo intesi.
Amore, amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d'insulti.

Scriveva queste parole Vincenzo Cardarelli nel 1948: una delle poesie più belle di uno fra i poeti più misconosciuti della prima metà del Novecento.
L'attesa.
L'attesa frustrata.
L'attesa di un messaggio, di una telefonata, di un amore, di un abbraccio, di una notizia.
L'attesa di un treno, di una partenza, di un arrivo.
Aspetta l'alba l'insonne, quando finalmente potrà sentirsi come gli altri.
Aspetta il tramonto chi è malinconico, il momento in cui il proprio buio si confonde con quello che avvolge il mondo.
Aspettare e attendere: etimologicamente indicano guardare con insistenza (spectare) verso (ad) qualcosa e rivolgere l'animo (tendere) verso (ad) qualcosa.
Un movimento che, però, presuppone l'immobilità: siamo fermi, ma il nostro animo o il nostro sguardo sono altrove
Passiamo una buona parte della nostra vita ad attendere: quando siamo piccoli aspettiamo di essere grandi; quando siamo giovani studenti aspettiamo di andare a lavorare; da lavoratori attendiamo la pensione; da anziani attendiamo, più o meno serenamente, la morte.
È un tempo vuoto che, allo stesso tempo, vuoto non è: anzi, forse come ci insegna Leopardi, l'attesa del piacere è l'unico vero piacere che l'uomo possa conoscere così come l'attesa del dolore è la tortura peggiore a cui un uomo possa essere sottoposto.
È una tendenza propria dell'uomo quella a non accontentarsi di ciò che c'è, del presente, del contingente che lo porta, da una parte, ad essere perennemente insoddisfatto, dall'altra a nutrire la speranza di un tempo migliore. Probabilmente, se l'uomo fosse perennemente calato nell'istante in cui vive, se iniziasse ad in-spettare invece che ad a-spettare, ad in-tendere piuttosto che ad a-ttendere la vita sarebbe davvero insopportabile.
Ogni tanto, però, arriva ciò che aspettiamo.
L'attesa ripagata trova la sua massima espressione in un altro poeta del primo Novecento, Camillo Sbarbaro, con questa poesia che sembra quasi rispondere a distanza a Cardarelli.

Ora che sei venuta,
che con passo di danza sei entrata
nella mia vita
quasi folata in una stanza chiusa
a festeggiarti, bene tanto atteso,
le parole mi mancano e la voce
e tacerti vicino già mi basta.

Il pigolìo così che assorda il bosco
al nascere dell’alba, ammutolisce
quando sull’orizzonte balza il sole.

Ma te la mia inquietudine cercava
quando ragazzo
nella notte d’estate mi facevo
alla finestra come soffocato:
che non sapevo, m’affannava il cuore.
E tutte tue sono le parole
che, come l’acqua all’orlo che trabocca,
alla bocca venivano da sole,
l’ore deserte, quando s’avanzavan
puerilmente le mie labbra d’uomo

da sé, per desiderio di baciare…

Niccolò Fabi, Attesa e inaspettata


Le scarpe nuove

Dei miei primi 13 anni di vita ho pochissimi ricordi. In psicologia si chiama "rimozione" ed è un normale processo di sopravvivenz...