30 giugno 2024

L'arca di Noè

Le ferie si avvicinano a grandi falcate (e a grandi falcate passeranno, lasciandoci ovviamente insoddisfatti) e, per festeggiare degnamente il momento dell'anno in cui tutti - più del solito - siamo costretti ad essere felici, vi faccio un regalo: come se fossi una Novella 2000 qualunque, allegato a questo numero troverete l'album delle figurine dei colleghi che non vorreste mai incontrare (e che purtroppo incontrate tutti i giorni).
Una precisazione doverosa: in questo post uso il maschile sovraesteso, perfettamente consapevole che il disagio non ha genere.

Il marchese del Grillo

Lo vedi camminare tronfio per i corridoi, solitamente di corsa e tenendo sotto il braccio case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale perché così sembra più business man. Millanta conoscenze ai piani alti, altissimi: per lui non esistono il Presidente della Repubblica o il Papa, ma esistono Sergio e Francesco. Esperto di tutto lo scibile umano, nella sua vita ricopre incarichi che nessuno si ricorda di avergli dato anche perché - forse - non esistono ed è affetto da una leggerissima forma di mitomania.
Se ingenuamente gli dici: "Sai, ho letto il libro X dell'autore Y. Te lo consiglio", ti sentirai rispondere che lui ne ha letto tutta la produzione, lo conosce da quando non era nessuno e sicuramente ha anche un po' di merito ad averlo fatto scoprire al mondo.
Ostenta solitamente un po' di disprezzo per quello che piace al volgo: non è concesso a lui, essere speciale e protetto da un'entità misteriosa, mescolarsi ai comuni mortali e appena può te lo fa notare,
Motto: io so' io e voi non siete un cazzo (cit.)
Aspetti positivi:se lo ascolti quando racconta le sue storie, potresti provare la stessa meraviglia che pervadeva i lettori del Milione di Marco Polo. Con la differenza che le storie raccontate dal mercante veneziano erano vere.

Ansia a colazione

Tendenzialmente stalker, ti insegue per chiederti se ha capito bene ciò che deve fare anche quando si tratta semplicemente di rispondere o no ad una semplice domanda. Si pone problemi esistenziali su questioni minuscole non visibili ad occhio nudo e tende a ripetere le cose all'infinito (tipo il loop di Max Gazzè alla fine di Cara Valentina). 
Capisci che si tratta di un caso patologico e cerchi di usare tutta la pazienza (anche perché il tuo timore inespresso è quello di poter, un giorno, diventare come lui) ma quando inizia a chiederti risposte certe su cose che avverranno nel 2026 i tuoi buoni propositi ti abbandonano e devi trattenere ogni tua fibra per non sbottare come Wanna Marchi contro i lardosi.
Motto: ti faccio una domanda ma non so se puoi rispondermi ora (chiaramente detto nel momento meno opportuno della giornata)
Aspetti positivi: puoi utilizzarlo come promemoria viventi perché a lui non sfugge mai nessun appuntamento, anche quelli che non lo riguardano.

Sto peggio di te

"Oggi ho un gran mal di testa" dici tu, ingenuamente.
"Non me ne parlare. Io sto peggio di te" dice lui.
Ti fa male una mano? A lui fa male un braccio.
Stai soffrendo per amore? Lui ha una serie così lunga di storie finite male che potrebbe scriverci la sceneggiatura di una soap turca brutta, di quelle che trasmettono su Canale 5.
Se hai un problema di lavoro, il suo sarà sempre più grande del tuo.
Se hai trovato traffico per arrivare, lui racconterà che stamattina sotto casa sua c'era un ingorgo in stile Mumbai.
Potrebbe anche raccontare di essere morto e risorto, in caso di necessità.
Motto: e cosa dovrei dire io che...?
Aspetti positivi: parlando con lui non ti sentirai compreso, ma sicuramente penserai che c'è sempre chi sta peggio di te. In ogni senso.


Il complottista

In qualunque posto di lavoro che si rispetti deve esserci il personaggio che vede trame oscure, si schiera contro i poteri forti, instilla dubbi, solleva animi. Mostrando spesso un po' di difficoltà nella comprensione del testo, cita le fonti più improbabili e fornisce interpretazioni della realtà quantomeno fantasiose. Quando poi questa figura si identifica con quella del sindacalista la frittata è fatta: si sente parlare di padroni, lavoratori, guerra tra poveri e una serie di luoghi comuni che farebbero risvegliare Marx dal sonno eterno solo per venire a prenderlo a schiaffi.
Motto: non ce lo dicono
Aspetti positivi: un po' di folklore nel posto di lavoro non fa mai male.

L'affarista

È un cane da tartufo. con la sola differenza che lui, invece di percepire il profumo del tartufo, percepisce quello del denaro e lo segue con determinazione fino a raggiungerlo.
Se c'è lui vuol dire che girano soldi; con un sorriso da curato di campagna ed un'aria apparentemente da bonaccione, amante del pettegolezzo che crea aggregazione ed individua nemici comuni, cerca di costruire la sua piccola cosca, assoldando un po' di scagnozzi che facciano il lavoro al posto suo in modo da poter trarre il massimo profitto con il minimo sforzo. Ovviamente, tutta questa apparenza amichevole scompare con le persone che ne hanno già compreso la vera natura
Seleziona e frequenta esclusivamente persone che possano essere utili ai propri scopi ed esercita un fascino su chi vorrebbe essere come lui.
Motto: vorrei farti una proposta per guadagnare un po' di soldi
Aspetti positivi: sapendo esattamente dove trovarlo, puoi facilmente evitarlo.

Il fancazzista

Se lo cerchi per chiedergli una sostituzione, si acquatta negli angoli più remoti, rivelando doti di mimetizzazione che farebbero impallidire un camaleonte.
Invoca il (sacrosanto) diritto alla disconnessione anche nei momenti in cui dovrebbe essere connesso.
Se gli hai mandato una mail, dice che la password gliel'ha mangiata il gatto.
Se gli scrivi su whatsapp, non visualizzerà mai il messaggio, aggiungendo che lui non usa questa app (salvo poi partecipare compulsivamente a gruppi che organizzano  - mi tremano i polsi al solo pensare questa parola - apericene).
Lavora lo stretto indispensabile, evita qualunque fonte di stress, costruisce ponti in prossimità dei giorni festivi con la facilità con cui lo farebbe un Ministro delle Infrastrutture.
Amato dai gestori del bar, intrattiene rapporti con chiunque mentre beve caffè tanto da farti nascere il sospetto che lui abbia un contratto diverso dal tuo e sia pagato come animatore turistico.
Motto: Andiamo a prendere un caffè?
Aspetti positivi: se non sei costretto ad avere a che fare con lui (se non al bar) potrebbe essere anche una compagnia piacevole. In caso contrario, ti toccherà fare anche il suo lavoro.

L'entusiasta

Già alle 8 del lunedì mattina è carico a pallettoni, come una Brunetta dei Ricchi e Poveri sotto acido.
Organizza, propone, promuove, fa, disfa compulsivamente: in una qualunque iniziativa lui c'è, un po' come l'indimenticato ragionier Filini dei film di Paolo Villaggio.
L'1% della sua voglia di fare basterebbe per compensare tutti i fancazzisti.
Motto: facciamo?
Aspetti positivi: in realtà ne ha tanti, se solo capisse qual è il limite oltre il quale si diventa molesti.

Se pensate che tra i vostri colleghi non ci sia nessuno di questi, probabilmente siete voi.
Se qualcuno si è sentito colpito, mi creda, non si è fatto apposta.
Bugia.
L'ho fatto apposta.

Mannarino, Arca di Noè

23 giugno 2024

Scrivere per vivere

Gli occhi scorrono per l'ultima volta sulle parole che hai scritto, posi la penna e poi, accuratamente, serri il lucchetto che serve a custodire ciò che non vuoi dire a nessuno. 
Non ho memoria di aver avuto in adolescenza un diario segreto: era roba da femmine, si sarebbe detto ai tempi (e purtroppo si sente dire ancora ora), come se scrivere fosse una prerogativa femminile in un mondo che, in realtà, ha sempre presentato un panorama letterario al 95% maschile. Era da femmine esternare i propri sentimenti, che, comunque, avevano confini ben limitati entro cui poter essere espressi, dato che il diario era scritto per non avere lettori.
Non avevo un diario segreto, dicevo, non perché fosse roba da femmine: nonostante il contesto non fosse sempre favorevole a prese di posizione del genere, non ho mai ragionato così e, per quanto sia stato spesso difficile, frustrante e fonte di incomprensione e discriminazione, lo rivendico con orgoglio. 
Non avevo un diario segreto perché non avevo ancora capito quanto sia importante dare ai propri pensieri un corpo, una dimensione materiale: poter accedere nuovamente alle sensazioni di un tempo e trovarsi immutati o cambiati rispetto ad un preciso momento e darsi per questo una pacca sulla spalla o un ceffone.

Il diario dell'era digitale è una rappresentazione di sé rivolta immediatamente agli altri. Nasce come costruzione artificiale, cosciente, anzi alla ricerca quasi spasmodica, del giudizio (e dell'approvazione) degli altri. Rischiando di perdere così uno degli elementi del diario come lo abbiamo visto e conosciuto finora: la ricerca di sé attraverso il racconto della propria esperienza interiore. Che viene sostituita dall'affermazione di sé attraverso la narrazione mitica (o nelle intenzioni, mitopoietica) di ciò che si vorrebbe essere
Queste parole di Maurizio Caminito, tratte da un suo articolo pubblicato 10 anni fa, sono state proposte alle studentesse e agli studenti che hanno affrontato la prova di italiano dell'Esame di Stato. 
Sorvolo sul fatto che, nel mondo digitale, dieci anni equivalgono circa ad un'era geologica e se è vero, com'è vero, che le affermazioni di Caminito sono ancora generalmente valide, non si può non considerare che questo testo è stato scritto quando chi nei giorni scorsi è stato chiamato a commentarlo aveva 8 o 9 anni e quindi era auspicabilmente lontano dal mondo dei social.

Torno al testo e alla domanda che mi ha fatto nascere: perché, ormai quasi due anni fa, ho deciso di aprire questo blog? Per dare un ordine ai pensieri, per argomentare in maniera più dettagliata le mie opinioni, per creare uno spazio sicuro in cui potermi esprimere, al di là dei ruoli, delle convenzioni, delle aspettative altrui.
L'idea è quella di scrivere non per costruire un racconto idealizzato di cui si è i protagonisti, ma per dare voce ad una parte di sé che solitamente non ce l'ha per mille ragioni: non c'è tempo, non c'è occasione, non è opportuno. 
A costruire la narrazione mitopoietica di ciò che si vorrebbe essere (per citare Caminito) concorrono piuttosto le immagini di felicità sintetica e stereotipata che affollano piattaforme come Instagram - che ai tempi dell'articolo proposto muoveva i primi passi - o Tik tok che nel 2014 doveva ancora vedere la luce.
A dirla tutta, non servono neanche i social per questo: il vestito che decido di indossare, l'atteggiamento che decido di avere, le parole che decido di dire o di non dire contribuiscono in maniera determinante all'immagine di me che voglio dare agli altri. Il processo, trasferito sui social, cambia di poco: pubblico foto in cui sono felice per far pensare che io lo sia sempre, pubblico stories in cui mi diverto perché la tristezza non attira follower e soprattutto non va mostrata; se sono un po' oltre l'età media dei fruitori dei social, posto scatti di anni prima per cercare un'approvazione ormai fuori tempo.

La scrittura, per come la intendo, non è questo: non si può fingere felicità troppo a lungo, non si può ingannare chi decide di dedicare del tempo a leggerti.
Scrivere ti mette a nudo, ti rende potenzialmente vulnerabile: quando si parla di sé, inevitabilmente si mostrano i propri nervi scoperti e ci si espone ai colpi degli altri; allo stesso tempo, però, si dà a chi legge la possibilità di conoscere realmente l'altro, di sapere con chi si ha a che fare, al di là delle apparenze.
Ogni volta che scrivo, non so mai se, da chi, quando e come sarà letto ciò che scrivo e, onestamente, non mi pongo neanche il problema: se me lo ponessi, cadrei nel tranello dell'immagine da dare agli altri.
Scrivere, dunque, per mettere ordine, pur nella amara consapevolezza che, come diceva Pirandello, "Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre, chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo come egli l'ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!".
Scrivere, dunque, per farsi conoscere, senza timore degli altri, confidando nel fatto che, come diceva Terenzio, essere umani ci fa sentire (o ci dovrebbe far sentire) meno estranei i sentimenti altrui.

Paola Turci, Io sono



16 giugno 2024

Esami

Sono lì tutti schierati, in file parallele ed equidistanti: sono i banchi pronti per accogliere le studentesse e gli studenti che da mercoledì dovranno sostenere le prove scritte degli Esami di Stato.
È passato qualche anno - ma giusto qualcuno, tipo 27 - da quando fui chiamato a scrivere un testo sul rapporto tra intellettuale e potere partendo da una frase di Norberto Bobbio e a tradurre un brano di Seneca, ma vedere quei banchi mi provoca un nodo alla gola che è difficile da sciogliere, anche se ormai sono dall'altra parte della barricata.

Penso alle mie ragazze e ai miei ragazzi, presenti, passati e futuri, che affrontano questo che è un vero e proprio rito di passaggio: è stata tolta loro ogni possibilità di scontrarsi con la realtà e gli esami sono il primo momento per farlo.
Gli esami di quinta elementare non esistono più, gli esami di scuola media sono ormai una copisteria di tesine su globalizzazione, guerra, il Giappone, l'emergenza ambientale; invocando la privacy, non esiste più il momento in cui, con un po' di timore e con un gruppo ristretto di amici, a fine anno scolastico si andavano a vedere i quadri in cui erano riportati i successi e i fallimenti di tutti, mentre adesso ciascuno, tramite il registro elettronico, vede i propri risultati e non sa niente degli altri. 
Come avviene in tanti altri contesti, il collettivo perde di valore rispetto all'individuale.
Giusto? Sbagliato? Non lo so: sta di fatto che era sicuramente un momento di crescita e di assunzione di responsabilità che ora viene rimandato.

Gli esami, dunque: il momento in cui si viene valutati per la prima volta da qualcuno di esterno, in cui si è sopraffatti dalla paura del foglio bianco, dalla paura del silenzio, dalla paura di deludere soprattutto sé stessi, dalla paura di ciò che verrà dopo.
Nei corridoi, durante gli orali, si vedono genitori in apprensione, nonne e nonni emozionati, mazzi di fiori (tanto che ogni tanto si ha la sensazione di essere ad un matrimonio - o ad un funerale, dipende) e da fuori si sente il rumore di bottiglie stappate, cori, urla di liberazione.
Il momento è davvero importante perché questo è l'ultimo passaggio prima di essere chiamati a decisioni che possono condizionare la vita: scegliere se frequentare l'università, se, avendone la possibilità, andar via di casa, combattere l'eterna lotta tra quello che si vorrebbe fare e quello che si dovrebbe fare, mettere sul piatto della bilancia comfort zone e nuove esperienze.
Penso, poi, a quanto i maturandi siano bombardati da presunte fughe di notizie sugli autori che sicuramente saranno oggetto della prima prova, dai video di guru-influencer che consigliano di mangiare leggero e di andare a dormire presto (ma dai? Non ci avevo pensato!), da presunti hacker e maestri di vita che insegnano trucchi e sotterfugi per superare in modo più o meno legale le prove scritte e soprattutto da inviti a stare tranquilli che, da che mondo è mondo, non hanno mai tranquillizzato nessuno.

Da prof, mi sento privilegiato e allo stesso tempo responsabilizzato ad avere un ruolo in tutto questo: che siano le classi che ho maltrattato per tre o cinque anni o che siano studentesse e studenti che vedo in quel momento per la prima volta, so di rivestire un ruolo in un momento che per loro è fondamentale.
So che dovrò aspettarmi il classico D'Annunzio estetista (una leggenda dice che se non si sente pronunciare almeno una volta questa frase, l'esame non può essere considerato valido) o le più scivolose erezioni vulcaniche; so che mi toccherà sentir parlare per un numero imprecisato di volte della maledetta sfiga dei Malavoglia e del gaio fanciullino pascoliano, ma va bene così.
Certo, qualcuno potrebbe dire che è solo lavoro, che è una tortura correggere pacchi di compiti con la fretta di dover finire presto e la paura di valutare non correttamente, soprattutto degli sconosciuti, che siamo al limite della violazione della convenzione di Ginevra quando si è costretti a star fermi ad ascoltare esami per ore, in aule rinfrescate spesso con mezzi di fortuna, che l'attribuzione del voto a fine esame assume talvolta i risvolti della tombolata in una casa di riposo, in cui si urlano numeri un po' a casaccio.
Diciamolo per una volta: le cose non si escludono.

Proprio oggi mi è ricapitato sotto gli occhi un vecchio messaggio WhatsApp mandato ai miei disgraziatissimi discepoli di allora (che hanno sempre un posto nel mio cuore):
"E così ci siamo, siamo arrivati alla notte prima degli esami. Quando starete scrivendo, ricordatevi delle mie manate prima di scrivere una sciocchezza; dopo aver scritto, controllate che il vostro discorso abbia un senso che sia comprensibile anche per gli altri 8 miliardi di persone che abitano questa Terra.
Soprattutto state tranquilli, ma non abbiate paura di avere paura... anzi, gustatevi questo sentimento dolcissimo e spaventoso che resterà parte del vostro bagaglio di emozioni.
Domani non dovrete cercare di fare il tema perfetto, ma dovrete impegnarvi per dare tutto ciò che potete: lo dovete a voi stessi e a chi vi vuole bene e fa il tifo per voi.
Io vi penserò e aspetterò vostre notizie 
Vi abbraccio tutti (con le mie braccia ce la posso fare). In bocca al lupo".

E ancora adesso scriverei esattamente le stesse cose.

Antonello Venditti, Notte prima degli esami (perché i classici vanno sempre rispettati)



09 giugno 2024

Dare e avere

Arrivando al Vittoriale degli Italiani, la sontuosa villa che si trova a Gardone Riviera, nella quale Gabriele D'Annunzio passò gli ultimi anni della propria vita, la prima scritta che colpisce il visitatore è questa: "Io ho quel che ho donato".
"Io ho quel che ho donato". Per molto tempo l'ho considerata una di quelle frasi ad effetto che tanto piacevano all'influencer pescarese, quello che ha inventato nomi come tramezzino, Rinascente, vigili del fuoco, quello fotografato nudo sulla spiaggia (e ogni volta studentesse e studenti strizzano gli occhi per cercare di capire quanto fosse fornito della virtù meno apparente / di tutte le virtù la più indecente), quello della leggenda metropolitana sulle costole mancanti.
Poi, come talvolta succede, capita che alcune parole che fino a quel momento erano puro suono, si caricano di un significato diverso e assumono un senso.

Quando penso a dare e avere mi si parano davanti due scenari agli antipodi.

Da una parte vedo davanti a me un foglio a quadretti, diviso in due colonne sulle cui sommità campeggiano queste due parole e poi numeri, numeri e ancora numeri, da una parte scritti in rosso e preceduti dal segno meno, dall'altra scritti in verde e preceduti dal segno più.
Non ho mai studiato economia e il pensiero che anche solo per un attimo, quando ero chiamato a scegliere la scuola superiore, io abbia pensato che avrei potuto iscrivermi alla ragioneria per pura questione di pigrizia dato che l'istituto si trovava praticamente sotto casa mia, mi devasta.
Non ho mai studiato economia, dicevo, ma così immagino i bilanci: far tornare i conti, non dare mai più di quanto si riceve per non andare in bancarotta.

Dall'altra parte sento la Giulietta shakespeariana che dice the more I give to thee / the more I have, che Salvatore Quasimodo traduce con "più a te ne concedo [di amore], più ne possiedo".
Un'idea di dare ed avere, quindi, sostanzialmente diversa: più io do, più possiedo: fin troppo palese che se l'amministratore di un'azienda ragionasse così, verrebbe licenziato in tronco dopo quattordici secondi netti.

Noi, però, non siamo aziende e il nostro funzionamento è diverso. O meglio, non dovremmo essere aziende e il nostro funzionamento dovrebbe essere diverso.
La mia speranza è di essere sempre altro rispetto a quelli che benpensano a cui Frankie Hi-Nrg MC oltre 25 anni fa dedicava questi versi:

Sono intorno a noi, in mezzo a noi
In molti casi siamo noi a far promesse
Senza mantenerle mai se non per calcolo
Il fine è solo l'utile, il mezzo ogni possibile
La posta in gioco è massima, l'imperativo è vincere
E non far partecipare nessun altro
Nella logica del gioco la sola regola è esser scaltro
Niente scrupoli o rispetto verso i propri simili
Perché gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili

Quando arriva la fine della scuola, il proprio compleanno, la fine dell'anno si sente sempre la necessità di fare bilanci. Quanto ho dato? Quanto ho ricevuto? Sono in bancarotta emotiva?

Provo a ragionare in maniera diversa, lasciando spazio alla gratitudine per ciò che ho ricevuto da chi mi circonda. 

Penso a chi c'è sempre, pronto a sostenermi e a incoraggiarmi, a ridere con me e a condividere le mie innumerevoli paranoie.
Penso alle poche persone che posso considerare amiche (di conoscenti ce ne sono in abbondanza), la cui presenza si sente anche quando non ci si vede per mesi.
Penso a chi mi fa sentire la sua fiducia.
Penso a chi mi regala sorrisi e gentilezza.
Penso a chi, vedendomi con le spalle curve sotto il peso di un fardello troppo pesante, ha deposto il proprio e mi ha aiutato a togliere il troppo e 'l vano dal mio.
Penso alla mia ex studentessa  - con cui ho litigato per cinque anni - che viene a scuola per portarmi una copia della sua tesi su Calvino, nei cui ringraziamenti ha trovato un posto per me.
Penso alle persone con cui scambio messaggi chilometrici, vocali che assumono le sembianze di podcast, persone che pensavo distanti anni luce da me e che invece sono vicinissime.
Penso ai pranzi fatti a scuola, alle risate fino a star male, ai linguaggi in codice per non farsi capire, ma anche ai discorsi seri, profondi, quelli che ti scavano dentro. Questi scavi sono più leggeri se trovi accanto a te, negli abissi, qualcuno che ti tenga una luce e provi a cercare con te una strada.
Penso anche alle persone che compaiono, scompaiono e ricompaiono nella vita.
Penso alle persone che vorrei abbracciare e che abbraccio appena posso per trasformare in vicinanza fisica la vicinanza spirituale.
Penso a chi mi ritiene antipatico, egocentrico, supponente e - fortunatamente - mi tiene a distanza da sé.
Penso a chi mi ha scritto queste parole: "Per favore, prof, si dia due o anche tre pacche sulla spalla perché ha fatto un ottimo lavoro sia a livello scolastico che non. Spero sia fiero di ciò, perché io lo sono"

Penso a tutto questo e mi chiedo cosa abbia fatto per meritarmelo.
Realizzo, poi, che i comportamenti degli altri sono - non sempre, purtroppo o per fortuna - uno specchio del nostro comportamento; ribalto, quindi, il punto di vista e penso che potrei essere io per gli altri quello che gli altri sono per me.
Dare e avere diventano, quindi, non le voci di un bilancio da far tornare per evitare la chiusura dell'azienda ma le due metà di un cerchio così perfetto da far invidia anche a Giotto.

Frankie Hi-Nrg MC, Quelli che benpensano


02 giugno 2024

Precipitarsi

È l'ora del tramonto, l'ora che le città vengono prese dall'ispirazione e chi non è cieco ne resta travolto.
Marta, 19 anni e tutta la vita davanti, si affaccia dalla sommità di un grattacielo di oltre cinquecento piani per vedere la città risplendere nella sera.

Il grattacielo era d'argento, supremo e felice in quella sera bellissima e pura, mentre il vento stirava sottili filamenti di nubi, qua e là, sullo sfondo di un azzurro assolutamente incredibile [...].
Dall’aereo culmine la ragazza vedeva le strade e le masse dei palazzi contorcersi nel lungo spasimo del tramonto e là dove il bianco delle case finiva, cominciava il blu del mare che visto dall’ alto sembrava in salita. E siccome dall’oriente avanzavano i velari della notte, la città divenne un dolce abisso brulicante di luci; che palpitava. C’erano dentro gli uomini potenti e le donne ancora di più, le pellicce e i violini, le macchine smaltate d’onice, le insegne fosforescenti dei tabarins, gli androni delle spente regge, le fontane, i diamanti, gli antichi giardini taciturni, le feste, i desideri, gli amori e, sopra tutto, quello struggente incantesimo della sera per cui si fantastica di grandezza e di gloria. Queste cose vedendo, Marta si sporse perdutamente oltre la balaustra e si lasciò andare. Le parve di librarsi nell’aria, ma precipitava.

È questo l'incipit di Ragazza che precipita di Dino Buzzati (ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?) che affronta, nel consueto stile dell'autore bellunese, un tema sempre attuale: la fretta di diventare adulti. (Qui si trova l'intero racconto)

Marta diventa oggetto di sguardi, di inviti durante il suo lunghissimo precipitare, si sente bella nonostante indossi un abito modesto; pian piano che passa il tempo, mentre aspetta di arrivare ad una festa che la attende, si accorge di non essere più sola - vede altre ragazze più avvenenti di lei che stanno precipitando più velocemente di lei - e di non essere più al centro dell'attenzione.
È notte ormai, la città dorme e lei continua a precipitare nel buio.
È ormai giorno: l'ultimo sguardo viene rivolto a lei, ormai anziana e cadente (giocare con le parole è una delle grandi arti di Buzzati) da una coppia che la guarda disinteressata mentre beve il primo caffè del mattino. Sono le nove meno un quarto, precisa Buzzati. 
Tocca il suolo, Marta, ma non si sente neanche il tonfo. È la forza di gravità che la richiama, quella a cui niente e nessuno può opporsi, quella che ci fa aderire a terra, dandoci così un senso di stabilità, quella stessa forza che, però, ci impedisce di librarci in volo.

Marta precipita dal grattacielo per precipitarsi ad una festa che la attende: il richiamo leopardiano è molto evidente. Marta è Silvia, entrambe al limitare di gioventù, entrambe aspettano una festa - quella citata anche in La sera del dì di festa e nel famosissimo Il sabato del villaggio - alle quali nessuna delle due arriverà, entrambe vedono la loro illusione infrangersi di fronte all'apparir del vero.
Certo, Silvia muore per una malattia, per cui non ha alcuna responsabilità sul suo destino, mentre l'atto di Marta è volontario, ma il suo gesto è tipico di quando si è giovani e trovo interessante che Leopardi, nello Zibaldone, parlando di questo, si esprima così:

Il piacere (si può dir con perfettissima verità) non vien mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo. Per questo nel bollore della gioventù, quando l'uomo si precipita col desiderio e colla speranza dietro al piacere, ei non prova che spaventevole e tormentoso disgusto e noia nelle più dilettevoli cose della vita. (30 marzo 1827)

Ciò che spinge Marta a buttarsi, dunque, è il desiderio del piacere.
I ragazzi hanno fretta di crescere perché cercano qualcosa che poi, in fondo, è inafferrabile, è come l'orizzonte che si sposta sempre un po' più in là ad ogni passo che facciamo verso di lui.
Alle volte - scrive Calvino nel suo romanzo Il visconte dimezzato  - uno si crede incompleto ed è soltanto giovane, ma il senso di incompletezza - credo - appartiene all'essere umano in quanto tale, perché viviamo in una sorta di asincronia esistenziale: siamo sempre fuori tempo, siamo bambini e vorremmo essere adulti, siamo adulti e vorremmo essere giovani, siamo anziani e vorremmo tornare indietro nel tempo.

Ho parlato di Ragazza che precipita con le mie ragazze e i miei ragazzi e dalla discussione è emerso un dato sociologicamente interessante: i quindicenni non vogliono diventare grandi, vogliono tornare bambini, al momento della loro vita in cui non avevano responsabilità, in cui erano spensierati e si sentivano protetti dalla loro famiglia. 
Non si proiettano verso il futuro quanto piuttosto verso il passato. Ma perché? 
Perché ciò che verrà fa paura, perché l'idea di confrontarsi con un mondo del lavoro incerto e in rapidissima evoluzione non è stimolante, perché la loro piccola autonomia l'hanno già raggiunta e non la baratterebbero con una maggiore che porterebbe con sé tanti altri pensieri ("ma profe, io non voglio pensare al mutuo, alle tasse da pagare, a dover cucinare"). Di fronte a questa incertezza, è più rassicurante una sorta di utopia regressiva che li porti indietro, in un mondo dai confini limitati e dalle limitate responsabilità.

Siamo destinati, quindi, ad essere perennemente insoddisfatti? Siamo dei perenni wannabe qualcos'altro? Forse no, ed è ancora la letteratura a darci una risposta.
Cesare Pavese, nel suo romanzo La bella estate, scrive:

Ma viene un momento, certe volte, che uno ha paura del tempo che passa, e non sa più se val la pena correre tanto.

Percepire il passaggio del tempo e smettere di correre, non precipitarsi, non cercare altro, emanciparsi dall'incubo delle passioni, come dice Battiato, che sono ciò che ci rende vivi, ma anche - etimologicamente - ciò che genera in noi il pathos, la sofferenza.
Qual è quindi, forse, la vera felicità dell'uomo?
È quella di raggiungere il porto, come scrive Primo Levi nella poesia L'approdo.

Felice l'uomo che ha raggiunto il porto,
che lascia dietro di sé mari e tempeste,
i cui sogni sono morti o mai nati,
e siede a bere all'osteria di Brema,
presso al camino, ed ha buona pace.

Felice l'uomo come una fiamma spenta,
felice l'uomo come sabbia d'estuario,
che ha deposto il carico e si è tersa la fronte,
e riposa al margine del cammino.

Non teme né spera né aspetta,
ma guarda fisso il sole che tramonta.


Bruce Springsteen, The river

Prontuario di ovvietà per il primo settembre

Ci sono giorni che significano qualcosa anche se sono solo giorni come gli altri sul calendario. Giorni in cui bisogna per forza dire qualco...