02 giugno 2024

Precipitarsi

È l'ora del tramonto, l'ora che le città vengono prese dall'ispirazione e chi non è cieco ne resta travolto.
Marta, 19 anni e tutta la vita davanti, si affaccia dalla sommità di un grattacielo di oltre cinquecento piani per vedere la città risplendere nella sera.

Il grattacielo era d'argento, supremo e felice in quella sera bellissima e pura, mentre il vento stirava sottili filamenti di nubi, qua e là, sullo sfondo di un azzurro assolutamente incredibile [...].
Dall’aereo culmine la ragazza vedeva le strade e le masse dei palazzi contorcersi nel lungo spasimo del tramonto e là dove il bianco delle case finiva, cominciava il blu del mare che visto dall’ alto sembrava in salita. E siccome dall’oriente avanzavano i velari della notte, la città divenne un dolce abisso brulicante di luci; che palpitava. C’erano dentro gli uomini potenti e le donne ancora di più, le pellicce e i violini, le macchine smaltate d’onice, le insegne fosforescenti dei tabarins, gli androni delle spente regge, le fontane, i diamanti, gli antichi giardini taciturni, le feste, i desideri, gli amori e, sopra tutto, quello struggente incantesimo della sera per cui si fantastica di grandezza e di gloria. Queste cose vedendo, Marta si sporse perdutamente oltre la balaustra e si lasciò andare. Le parve di librarsi nell’aria, ma precipitava.

È questo l'incipit di Ragazza che precipita di Dino Buzzati (ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?) che affronta, nel consueto stile dell'autore bellunese, un tema sempre attuale: la fretta di diventare adulti. (Qui si trova l'intero racconto)

Marta diventa oggetto di sguardi, di inviti durante il suo lunghissimo precipitare, si sente bella nonostante indossi un abito modesto; pian piano che passa il tempo, mentre aspetta di arrivare ad una festa che la attende, si accorge di non essere più sola - vede altre ragazze più avvenenti di lei che stanno precipitando più velocemente di lei - e di non essere più al centro dell'attenzione.
È notte ormai, la città dorme e lei continua a precipitare nel buio.
È ormai giorno: l'ultimo sguardo viene rivolto a lei, ormai anziana e cadente (giocare con le parole è una delle grandi arti di Buzzati) da una coppia che la guarda disinteressata mentre beve il primo caffè del mattino. Sono le nove meno un quarto, precisa Buzzati. 
Tocca il suolo, Marta, ma non si sente neanche il tonfo. È la forza di gravità che la richiama, quella a cui niente e nessuno può opporsi, quella che ci fa aderire a terra, dandoci così un senso di stabilità, quella stessa forza che, però, ci impedisce di librarci in volo.

Marta precipita dal grattacielo per precipitarsi ad una festa che la attende: il richiamo leopardiano è molto evidente. Marta è Silvia, entrambe al limitare di gioventù, entrambe aspettano una festa - quella citata anche in La sera del dì di festa e nel famosissimo Il sabato del villaggio - alle quali nessuna delle due arriverà, entrambe vedono la loro illusione infrangersi di fronte all'apparir del vero.
Certo, Silvia muore per una malattia, per cui non ha alcuna responsabilità sul suo destino, mentre l'atto di Marta è volontario, ma il suo gesto è tipico di quando si è giovani e trovo interessante che Leopardi, nello Zibaldone, parlando di questo, si esprima così:

Il piacere (si può dir con perfettissima verità) non vien mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo. Per questo nel bollore della gioventù, quando l'uomo si precipita col desiderio e colla speranza dietro al piacere, ei non prova che spaventevole e tormentoso disgusto e noia nelle più dilettevoli cose della vita. (30 marzo 1827)

Ciò che spinge Marta a buttarsi, dunque, è il desiderio del piacere.
I ragazzi hanno fretta di crescere perché cercano qualcosa che poi, in fondo, è inafferrabile, è come l'orizzonte che si sposta sempre un po' più in là ad ogni passo che facciamo verso di lui.
Alle volte - scrive Calvino nel suo romanzo Il visconte dimezzato  - uno si crede incompleto ed è soltanto giovane, ma il senso di incompletezza - credo - appartiene all'essere umano in quanto tale, perché viviamo in una sorta di asincronia esistenziale: siamo sempre fuori tempo, siamo bambini e vorremmo essere adulti, siamo adulti e vorremmo essere giovani, siamo anziani e vorremmo tornare indietro nel tempo.

Ho parlato di Ragazza che precipita con le mie ragazze e i miei ragazzi e dalla discussione è emerso un dato sociologicamente interessante: i quindicenni non vogliono diventare grandi, vogliono tornare bambini, al momento della loro vita in cui non avevano responsabilità, in cui erano spensierati e si sentivano protetti dalla loro famiglia. 
Non si proiettano verso il futuro quanto piuttosto verso il passato. Ma perché? 
Perché ciò che verrà fa paura, perché l'idea di confrontarsi con un mondo del lavoro incerto e in rapidissima evoluzione non è stimolante, perché la loro piccola autonomia l'hanno già raggiunta e non la baratterebbero con una maggiore che porterebbe con sé tanti altri pensieri ("ma profe, io non voglio pensare al mutuo, alle tasse da pagare, a dover cucinare"). Di fronte a questa incertezza, è più rassicurante una sorta di utopia regressiva che li porti indietro, in un mondo dai confini limitati e dalle limitate responsabilità.

Siamo destinati, quindi, ad essere perennemente insoddisfatti? Siamo dei perenni wannabe qualcos'altro? Forse no, ed è ancora la letteratura a darci una risposta.
Cesare Pavese, nel suo romanzo La bella estate, scrive:

Ma viene un momento, certe volte, che uno ha paura del tempo che passa, e non sa più se val la pena correre tanto.

Percepire il passaggio del tempo e smettere di correre, non precipitarsi, non cercare altro, emanciparsi dall'incubo delle passioni, come dice Battiato, che sono ciò che ci rende vivi, ma anche - etimologicamente - ciò che genera in noi il pathos, la sofferenza.
Qual è quindi, forse, la vera felicità dell'uomo?
È quella di raggiungere il porto, come scrive Primo Levi nella poesia L'approdo.

Felice l'uomo che ha raggiunto il porto,
che lascia dietro di sé mari e tempeste,
i cui sogni sono morti o mai nati,
e siede a bere all'osteria di Brema,
presso al camino, ed ha buona pace.

Felice l'uomo come una fiamma spenta,
felice l'uomo come sabbia d'estuario,
che ha deposto il carico e si è tersa la fronte,
e riposa al margine del cammino.

Non teme né spera né aspetta,
ma guarda fisso il sole che tramonta.


Bruce Springsteen, The river

1 commento:

  1. Credo che la pace e la felicità possano giungere in quel momento se prima sei stato in qualche modo fiamma, fiume, se hai deposto un carico e percorso un cammino. Ed è quindi la consapevolezza di quanto fatto, non il semplice approdo

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