23 giugno 2024

Scrivere per vivere

Gli occhi scorrono per l'ultima volta sulle parole che hai scritto, posi la penna e poi, accuratamente, serri il lucchetto che serve a custodire ciò che non vuoi dire a nessuno. 
Non ho memoria di aver avuto in adolescenza un diario segreto: era roba da femmine, si sarebbe detto ai tempi (e purtroppo si sente dire ancora ora), come se scrivere fosse una prerogativa femminile in un mondo che, in realtà, ha sempre presentato un panorama letterario al 95% maschile. Era da femmine esternare i propri sentimenti, che, comunque, avevano confini ben limitati entro cui poter essere espressi, dato che il diario era scritto per non avere lettori.
Non avevo un diario segreto, dicevo, non perché fosse roba da femmine: nonostante il contesto non fosse sempre favorevole a prese di posizione del genere, non ho mai ragionato così e, per quanto sia stato spesso difficile, frustrante e fonte di incomprensione e discriminazione, lo rivendico con orgoglio. 
Non avevo un diario segreto perché non avevo ancora capito quanto sia importante dare ai propri pensieri un corpo, una dimensione materiale: poter accedere nuovamente alle sensazioni di un tempo e trovarsi immutati o cambiati rispetto ad un preciso momento e darsi per questo una pacca sulla spalla o un ceffone.

Il diario dell'era digitale è una rappresentazione di sé rivolta immediatamente agli altri. Nasce come costruzione artificiale, cosciente, anzi alla ricerca quasi spasmodica, del giudizio (e dell'approvazione) degli altri. Rischiando di perdere così uno degli elementi del diario come lo abbiamo visto e conosciuto finora: la ricerca di sé attraverso il racconto della propria esperienza interiore. Che viene sostituita dall'affermazione di sé attraverso la narrazione mitica (o nelle intenzioni, mitopoietica) di ciò che si vorrebbe essere
Queste parole di Maurizio Caminito, tratte da un suo articolo pubblicato 10 anni fa, sono state proposte alle studentesse e agli studenti che hanno affrontato la prova di italiano dell'Esame di Stato. 
Sorvolo sul fatto che, nel mondo digitale, dieci anni equivalgono circa ad un'era geologica e se è vero, com'è vero, che le affermazioni di Caminito sono ancora generalmente valide, non si può non considerare che questo testo è stato scritto quando chi nei giorni scorsi è stato chiamato a commentarlo aveva 8 o 9 anni e quindi era auspicabilmente lontano dal mondo dei social.

Torno al testo e alla domanda che mi ha fatto nascere: perché, ormai quasi due anni fa, ho deciso di aprire questo blog? Per dare un ordine ai pensieri, per argomentare in maniera più dettagliata le mie opinioni, per creare uno spazio sicuro in cui potermi esprimere, al di là dei ruoli, delle convenzioni, delle aspettative altrui.
L'idea è quella di scrivere non per costruire un racconto idealizzato di cui si è i protagonisti, ma per dare voce ad una parte di sé che solitamente non ce l'ha per mille ragioni: non c'è tempo, non c'è occasione, non è opportuno. 
A costruire la narrazione mitopoietica di ciò che si vorrebbe essere (per citare Caminito) concorrono piuttosto le immagini di felicità sintetica e stereotipata che affollano piattaforme come Instagram - che ai tempi dell'articolo proposto muoveva i primi passi - o Tik tok che nel 2014 doveva ancora vedere la luce.
A dirla tutta, non servono neanche i social per questo: il vestito che decido di indossare, l'atteggiamento che decido di avere, le parole che decido di dire o di non dire contribuiscono in maniera determinante all'immagine di me che voglio dare agli altri. Il processo, trasferito sui social, cambia di poco: pubblico foto in cui sono felice per far pensare che io lo sia sempre, pubblico stories in cui mi diverto perché la tristezza non attira follower e soprattutto non va mostrata; se sono un po' oltre l'età media dei fruitori dei social, posto scatti di anni prima per cercare un'approvazione ormai fuori tempo.

La scrittura, per come la intendo, non è questo: non si può fingere felicità troppo a lungo, non si può ingannare chi decide di dedicare del tempo a leggerti.
Scrivere ti mette a nudo, ti rende potenzialmente vulnerabile: quando si parla di sé, inevitabilmente si mostrano i propri nervi scoperti e ci si espone ai colpi degli altri; allo stesso tempo, però, si dà a chi legge la possibilità di conoscere realmente l'altro, di sapere con chi si ha a che fare, al di là delle apparenze.
Ogni volta che scrivo, non so mai se, da chi, quando e come sarà letto ciò che scrivo e, onestamente, non mi pongo neanche il problema: se me lo ponessi, cadrei nel tranello dell'immagine da dare agli altri.
Scrivere, dunque, per mettere ordine, pur nella amara consapevolezza che, come diceva Pirandello, "Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre, chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo come egli l'ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!".
Scrivere, dunque, per farsi conoscere, senza timore degli altri, confidando nel fatto che, come diceva Terenzio, essere umani ci fa sentire (o ci dovrebbe far sentire) meno estranei i sentimenti altrui.

Paola Turci, Io sono



1 commento:

  1. Riflessioni molto stimolanti... un caro saluto. Massimo

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