19 febbraio 2023

Onora il padre e la madre

Non c'è scritto da nessuna parte che dobbiamo amare i nostri genitori, bimba. Ce lo insegnano, ci obbligano a crederla come unica verità ma così non è, dice Marta. [...] Io ho smesso di chiamare Sabri "mamma" quando ho capito che non la amavo come succedeva a te con Giuliana, a Rico con Daniela o a Pietro con me [...] così mi sono liberata di un peso.
Il peso era tua mamma?
No, il peso era l'idea che mia mamma doveva rispettare agli occhi di tutti e che l'ha distrutta. Anche io me l'ero messa in testa questa idea, ma Sabri non poteva, capisci? Lei non poteva mantenere quell'aspettativa, né lei, né mio padre né nessun altro.

Il passaggio è tratto dal romanzo Tutta intera di Espérance Hakuzwimana che sto leggendo con le mie fanciulle e i miei fanciulli di quinta e che vi consiglio con tutto il cuore.
Non me lo sarei mai aspettato, ma dalla lettura di queste righe è nata una discussione accesa e, per alcuni versi, illuminante: Marta, amica di Sara - la protagonista del romanzo - dice che smettere di chiamare mamma sua madre ha liberato quest'ultima di un peso, il peso delle aspettative di cui si parlava nel post della settimana scorsa e soprattutto afferma che l'amore nei confronti dei genitori è una costruzione sociale.
L'affermazione li ha lasciati spiazzati: ma non è possibile, profe, tutti amano i propri genitori.
Ho osato dire loro che, se fosse così naturale, non sarebbe necessario un comandamento che ci ricorda di onorare il padre e la madre e soprattutto che il legame dei bambini - soprattutto i neonati - con i genitori è dovuto ad una semplice questione di soddisfazione dei bisogni primari. Il bambino si lega in maniera del tutto istintuale a chi gli dà da mangiare, lo pulisce, lo fa addormentare.
Qualcuno timidamente ha sottolineato l'assurdità dell'accettazione delle scelte (anche sbagliate) dei genitori nel nome della frase, sentita e risentita, "ma è comunque tua madre/tuo padre".
Qualcuno ha riflettuto sull'affetto imposto, che è uno dei controsensi più grandi che esistano.

Certo, l'amore verso i genitori non è esclusivamente il frutto di una imposizione sociale ma sicuramente è qualcosa di mediato, di non completamente naturale; oltretutto, può essere considerato come una scelta, come un atto di volontà, come qualcosa che può esserci e anche non esserci (e non deve essere scandaloso affermarlo). In quanto frutto di una scelta, di una costruzione, inoltre, l'amore va conservato e curato e non dato per scontato e questo lo si capisce soprattutto nel momento in cui si vuole bene al proprio genitore in quanto persona e non in quanto mamma o papà, quando si comprendono le scelte fatte, le decisioni prese e le parole dette dalle persone che ci hanno dato generato e che sono, appunto, uomini e donne prima di essere genitori.

In tutto questo, la cosa più bella è stata vedere le mie studentesse e i miei studenti vivi, partecipi, interessati. Sentivano, pensavano, c'erano mentalmente e non solo fisicamente, come spesso accade.
Questi sono i momenti da conservare, al di là di ogni altra considerazione.

Yusuf / Cat Stevens, Father and son

12 febbraio 2023

Il peso delle aspettative

Credo di averlo detto e scritto ovunque: i miei vincitori di questo Sanremo sono stati Colapesce e Dimartino che sono riusciti ad intercettare un mio pensiero e a trasformarlo in musica, facendolo risuonare dentro di me in maniera potente.

È vero, credetemi è accaduto
di notte sopra un ponte guardando l'acqua scura
con la dannata voglia di fare un tuffo giù

Così scriveva Domenico Modugno nel 1968

Campi sconfinati che si arrendono alla sera
qualche finestra accesa
mentre il mondo arpeggia una ringhiera

Così scrivono Colapesce e Dimartino nel 2023

Notturno, una ringhiera che separa da un abisso. Ma c'è una differenza sostanziale: nella canzone di Modugno c'è un angelo vestito da passante che fa sì che la ringhiera non venga scavalcata; in "Splash" invece c'è l'uomo solo con i suoi pensieri, con il suo sentirsi inadeguato, con la sua apatia, con la sua ricerca di solitudine, di metro affollate e di cantieri infiniti, al posto del mare, della pace, dell'amore. Perché tutto ciò che ci mette in relazione con gli altri ci conduce fatalmente a fare i conti con le aspettative. 

"Chissà cosa si aspettano gli altri da me".
"Vorrei che gli altri facessero quello che mi aspetto da loro".

È con queste due semplici frasi che ci condanniamo ad un’esistenza infelice. Il peso delle aspettative (su di noi e da parte nostra) ci opprime ma è anche quello che non ci fa galleggiare come stronzi: sono come i sassi nelle tasche che ci ancorano a terra e non ci permettono di volare ma anche quello che è indispensabile per entrare in relazione con gli altri. Certo, non si può negare che le aspettative siano spesso tossiche e altrettanto spesso vengono deluse, non si può negare che la relazione con gli altri sia faticosa: Sartre diceva che il nostro inferno sono gli altri e spiegava la sua affermazione dicendo che "se il rapporto con gli altri è contorto, viziato, allora l'altro non può che essere un inferno. Perché gli altri sono, in fondo, ciò che è più importante in noi stessi, per la nostra stessa conoscenza di noi stessi”.

La soluzione a quel punto, non potendo sottrarci alle aspettative, è il tuffo nell'immensità del blu che ci riporta ancora a Modugno, ma quello di Nel blu dipinto di blu, e che a me ricorda, andando più indietro, il naufragar dolce di Leopardi, un annullarsi nell'infinito che permette all'uomo di trovare un senso e un momento di ristoro dalla propria stancante, demotivante ma fatale finitezza.

Colapesce e Dimartino, Splash

05 febbraio 2023

Unici e soli

Da qualche giorno ho concluso con le mie fanciulle e i miei fanciulli di prima la lettura di un libro che sto consigliando compulsivamente a chiunque, ovvero "Senza una buona ragione" di Benedetta Bonfiglioli: vi si racconta la storia di Bianca, una ragazza come tante, che subisce cattiverie gratuite a cui cerca di reagire finché può e che, al culmine della disperazione, trova la salvezza in persone e luoghi assolutamente inaspettati.

Sorvolando sulla bellezza dell'esperienza della lettura collettiva ad alta voce (in cerchio e in biblioteca che fa un po' l'effetto alcolisti anonimi) che riesce a tirare fuori in maniera naturale le emozioni di chi legge e di chi ascolta, c'è un passaggio che mi ha fatto riflettere: Bianca, la protagonista del libro, si rende conto ad un certo punto di essere stata egoista perché ha creduto di poter affrontare i suoi problemi da sola, non confidando negli amici storici, credendo che, in fondo, non avrebbero mai potuto capirla.

Spesso ci sentiamo dire che una delle caratteristiche dell'uomo è l'unicità: non c'è nessuno come noi, che siamo il risultato di una insondabile combinazione di fattori interni ed esterni, di caso e di necessità. Questa unicità, però, ha anche il risvolto della medaglia: la solitudine. Possiamo essere compagnoni online e on-life quanto vogliamo, ma, sostanzialmente, parliamo una lingua che in pochi intuiscono ma che non capisce nessuno, misuriamo gli spazi, i tempi, le persone con un sistema metrico che è solo nostro e che ci dà una percezione e un'interpretazione della vita assolutamente originale.

Unici e soli, quindi.

Scrive Franco Arminio in Studi sull'amore:

Bisogna avere il coraggio di essere fragili,

e non fa niente se diamo a tanti

l'illusione del bersaglio facile,

se mostriamo la crepa

che gli altri possono allargare.

Dobbiamo avere il coraggio di farci trovare

sempre un po' in affanno, in disordine,

in fuorigioco, lontani dalla vita,

in debito di ossigeno, di amicizie,

lontani da ogni porto sicuro,

sperduti anche a noi stessi.

A queste parole aggiungerei che bisogna avere il coraggio di mostrarsi nella propria solitudine: non so se due solitudini (è evocativo il plurale di questa parola) possano fare una compagnia, ma probabilmente la loro somma è quello che più ci si avvicina. 

Vasco Rossi, Siamo soli

29 gennaio 2023

Breve invito a normalizzare le lacrime

Mi è capitato di pensarci tante volte, ultimamente.

Una persona che piange ci mette in difficoltà: ci sentiamo impotenti, impacciati, vorremmo che finisse  subito e che tutto tornasse com'era prima per ristabilire l'equilibrio che le lacrime inevitabilmente rompono. E forse fa poca differenza se le lacrime sono di gioia, di dolore, di sfinimento: quelle gocce d'acqua sono un temporale e noi siamo quelli senza ombrello e lontani da casa.

Anche chi piange, subito dopo, si sente in difficoltà e spesso chiede scusa, consapevole, forse, della sensazione di disagio generata in chi gli era di fronte.

Fin da bambini, ci sentiamo dire: "dài, non piangere" o, ancora peggio, "se piangi diventi brutto" e forse questa idea si radica in noi. Che poi, a voler dirla tutta, per citare Jorge da Burgos, il terribile monaco cieco protagonista del romanzo "Il nome della rosa", non è che quando si ride le cose vadano molto meglio: "Il riso squassa il corpo, deforma i lineamenti, rende l'uomo simile alla scimmia". Nonostante questo, gli inviti a non ridere sono sempre bonari e legati a circostanze in cui la risata non è conveniente. Ripenso anche alla saggezza della mia amatissima nonna che mi metteva in guardia dalla probabile cattiveria delle persone che, ridendo, imbruttivano invece che diventare più belle.

Quindi, il pianto è qualcosa da evitare perché ci rende brutti, perché mette a disagio gli altri, perché, in qualche modo, ci espone: non parliamo poi della questione di genere, quella per cui se sei fallodotato e piangi, sembri una femminuccia. E poi ci si meraviglia dei maschi che - come categoria - risultano poco empatici e inadeguati ad esprimere le proprie emozioni.

Nell'ultimo anno mi è capitato - com'è normale che sia - di piangere, ma due occasioni sono state per me fonte di riflessione perché sono avvenute in classe: mi sono commosso leggendo il finale, delicato e tragico, di Io e te di Ammaniti e spiegando un'ode di Orazio per la prima volta dopo la morte del mio professore di letteratura latina dell'università che amava (e mi aveva fatto amare) questo testo. È stata una sensazione stranissima: sentirsi nudo e non trovare vestiti per coprirsi, ma la cosa inaspettata è stata un'altra. Nella mia classe prima, in cui leggevo la storia di Lorenzo e Olivia, ho percepito il bisbiglio delle studentesse e degli studenti che hanno accolto questa mia reazione con tenerezza (mentre razionalmente temevo - quanto meno - lo sbigottimento, se non il dileggio... io da studente, probabilmente, lo avrei fatto); nella quinta nessuna reazione al momento, ma nel pomeriggio mi ha scritto una studentessa che mi ha detto di aver notato la mia difficoltà ad andare avanti ed ha commentato così: "Penso che se quest'uomo è stato in grado di farle nascere la passione per il latino doveva essere proprio bravo". La mia felicità è dipesa dal fatto di essere riuscito, in qualche modo, a trasmettere il mio debito di riconoscenza nei suoi confronti e a perpetuarne in qualche modo il ricordo. 

Dicevo, questi due episodi sono stati significativi perché mi sono sentito nudo, ma non ho visto di fronte a me persone che, di fronte alla mia nudità, scappavano o si stringevano maggiormente nei propri vestiti o ancora cercavano di coprirmi, ma persone che si sono in qualche modo spogliate per farmi sentire meno solo. 

Da allora sto provando - senza riuscirci sempre - ad eliminare dal mio vocabolario la frase "non piangere" e ad accogliere le lacrime altrui, siano adulti o bambini, senza parlare, senza spiegare, senza razionalizzare, senza cercare ossessivamente una soluzione per far smettere, lasciando che il pianto si sfoghi così come si sfoga una sonora risata fatta in compagnia. È umano piangere, si piange appena nati (sperando davvero che non sia come diceva Lucrezio, secondo cui il neonato piange perché già sa quali sventure lo aspettano) e non accettare in noi o negli altri questa emozione non ci rende più forti o più felici, ma solo più poveri.

Janis Joplin, Cry baby

22 gennaio 2023

Di viaggi in treno, covi e intelligenza artificiale

Sai quando dici "ho voglia di scrivere" ma non trovi un centro di gravità permanente attorno a cui far girare tutto? Ecco, è proprio quella la sensazione.

Settimana impegnativa ma ricca di fatti e cose (quei termini che aborro nella correzione dei compiti in classe ma che, con la coerenza che mi contraddistingue, uso con un certo sadico piacere): la visita alla mostra di Olafur Eliasson a Palazzo Strozzi, ad esempio, è stato uno dei momenti più belli dei miei ultimi anni, quelli in cui ti senti tremare la terra sotto i piedi, in cui perdi le certezze ma sai che da questi nasce una nuova riflessione e una nuova capacità di vedere le cose non viste fino a quel momento nonostante ti fossero sotto gli occhi.

Ma non è di questo che voglio parlare.

Lo spazio sui giornali e l'attenzione dei media è stata equamente suddivisa tra due notizie: la conclusione della latitanza di Matteo Messina Denaro e la storia di Giuseppina, la collaboratrice scolastica che per non pagare l'affitto a Milano coprirebbe ogni giorno, due volte al giorno, la tratta ferroviaria che da Napoli la porta al capoluogo lombardo. Già il fatto che le due notizie abbiano avuto una medesima copertura mediatica fa sorridere e la dice lunga sullo stato dell'informazione italiana ma anche sulle modalità di informazione degli italiani. Si può davvero dare lo stesso rilievo a due notizie di caratura così differente? Ma soprattutto, è questo il modo di fare giornalismo?

Vedere come si è parlato della cattura di Messina Denaro, vedere il/lo/la/i/gli/le presidente del consiglio che è corso/corsa/corsƏ in Sicilia a mettere la bandierina sull'operazione dei ROS come se fosse merito suo ma anche notare che del fatto che, tra l'altro, il capomafia ha fatto sciogliere nell'acido un bambino, molti - se non tutti - se ne sono altamente fregati, andando invece a disegnare un personaggio dai tratti quasi epici, di cui si sono stanati i covi ("parola di plastica" come l'ha definita giustamente la mia musa Vera Gheno), di cui sappiamo che faceva uso di viagra e tante altre amenità. Ecco, io tutto questo lo trovo ingiusto per chi, per causa sua, ha perso parenti, amici, lavoro, casa, e trovo molto strano questo festeggiamento il cui festeggiato non si sa chi sia: lo Stato che ha comunque impiegato 30 anni per catturarlo o il catturato che per tre decenni si è fatto bellamente i fatti suoi, continuando a manovrare uomini e ricchezze? I dubbi nascono, sono tanti e resteranno probabilmente irrisolti.

Altrettanti dubbi ha suscitato la storia di Giuseppina, collaboratrice scolastica maxipendolare. Se penso che detesto fare 50 minuti di macchina tra andata e ritorno, mi chiedo che resistenza possa avere chi fa (o dovrebbe fare) 10 ore di treno ogni giorno. Dovrebbe fare, appunto. La storia puzza di bufala da 770 chilometri (la distanza tra Milano e Napoli) e il primo dubbio che mi è venuto è stato proprio questo: è mai possibile che giornali di rilievo nazionale, i due quotidiani più letti del Paese, abbiano nel loro organico giornalisti che non si preoccupano di verificare l'attendibilità di una storia?

Per un attimo ho pensato (e sperato) che fosse tutta una grande trovata di Trenitalia che ha scritto a tavolino questa storia e ha creato questa grande eco mediatica solo per promuovere, che so io, una favolosa offerta sui biglietti dei treni o qualche innovativo servizio. Ma poi ho pensato che Trenitalia non ha il social media manager di Taffo, e soprattutto che Trenitalia è il regno del disagio (per il quale si scusa alcune volte anche preventivamente) e quindi, no, non è stata sicuramente una gran trovata pubblicitaria.

A questo punto le strade possibili sono due: o è stato solo un tema portato avanti per il clickbaiting (per cui i giornali danno rilievo a storie assurde pur di attirare i lettori) ma mi sembrerebbe una cosa di una tristezza immonda, oppure c'è un messaggio subliminale. Ma quale? Quale messaggio ci volevano veicolare i giornali? Che non è vero che non ci sono giovani disposti a fare sacrifici? Che viaggiare in treno è più sicuro? Che gli affitti a Milano sono troppo alti? Che la famiglia finlandese che ha rotto le scatole con la scuola italiana avrebbe potuto continuare a vivere a Siracusa facendo ogni giorno Palermo/Helsinki andata e ritorno in giornata? Davvero non lo capisco.

Ma soprattutto... e se questo post fosse stato scritto da ChatGPT, l'intelligenza artificiale in grado di pontificare su qualunque cosa come un Umberto Eco o un Dante Alighieri qualunque? Sapremmo distinguere il falso dal vero? Qual è la verità? Qual è l'apparenza?

Giorgio Gabere, Il tutto è falso

15 gennaio 2023

C'erano una volta Alvaro Vitali, Shakira e le auto di grandi dimensioni

Cosa abbiamo in comune io, Shakira, Alvaro Vitali e le dimensioni del pene?

Lo so, il discorso potrebbe facilmente virare verso il porno, ma non sono qui per farvi una rivelazione shock su un ipotetico ménage à trois con l'interprete dell'indimenticabile Waka Waka (che era superato nella capacità di irritare solo dalle vuvuzelas che avevano funestato ogni partita dei Mondiali del 2010) e l'attore che ha fatto sempre della bellezza e della pacata ironia il suo cavallo di battaglia.

Semplicemente, il mio anno si è aperto con il furto della macchina (motivo per il quale il 2023 ha già suscitato in me una reazione pacata del tipo "NO MARIA CHIUDI LA BUSTA"); Alvaro Vitali ha rilasciato la seguente dichiarazione: «Cambiavo auto e donne ogni 3 mesi. Ora vivo con 1.200 euro di pensione»; Shakira, non mostrandosi per nulla rancorosa, ha dedicato al suo ex una canzone in cui gli dice: «Hai scambiato una Ferrari con una Twingo», ardita metafora in cui la cantante sarebbe la macchina di Maranello e la nuova fiamma la semplice ma dignitosissima Renault; infine, uno studio della University College London dimostrerebbe che c'è un rapporto inversamente proporzionale tra dimensione della macchina e dimensione del pene.

Ora, capite il mio stato d'ansia nel momento in cui devo scegliere la macchina nuova: se la compro grande, potrei destare sospetti sulla mia virilità; se la compro piccola, non vorrei che la mia 500L mi ricomparisse nel sogno accusandomi di essermi abbassato ad una categoria inferiore; se la prendo a noleggio e la cambio spesso, non vorrei passare per l'Alvaro Vitali di turno. Un dilemma da cui veramente non so come uscire.

Al di là delle considerazioni stupide (e togliendo dal ragionamento la mia sfiga di inizio anno), una riflessione si impone: possiamo fare tutti i discorsi che vogliamo sul gender gap, sulle pari opportunità, sulla dignità, ma finché sarà non dico consentito ma socialmente accettato il fatto che persone possano essere paragonate ad oggetti, finché sarà lecito ironizzare - in maniera anche pesante - sul corpo delle donne e degli uomini forse, e dico forse, le nostre saranno solo chiacchiere. E no, non è più grave se lo fa una donna e soprattutto non fa differenza se l'oggetto della discussione sia il corpo maschile o quello femminile. Mi spiego meglio: provo ad immaginare uno studio che stabilisce una correlazione tra le dimensioni della borsa della donna e quelle del suo seno. La reazione - credo - sarebbe stata un po' diversa rispetto allo spirito goliardico con cui è stato accolto lo studio di cui si parlava sopra; non è un segreto, però, che il discorso delle dimensioni del pene è un tema abbastanza delicato, oggetto di vergogna per gli adolescenti e non solo e che forse (e dico forse) andava trattato in un modo diverso.

Sarà solo questione di politically correct o è invece qualcosa di più sostanziale?

Torno a macerarmi nel mio dubbio sulla macchina (e sulle conseguenze sulla mia reputazione che questa scelta potrebbe avere).

Janis Joplin, Mercedes Benz

10 gennaio 2023

Il circo degli orrori

Ricapitoliamo: Maria De Filippi racconta una storia oggettivamente brutta di un amore ai limiti della patologia, infarcito di machismo e di particolari degni di quei gruppi tanto presi in giro da personaggi del mondo social come Il signor distruggere.

La storia finisce relativamente bene perché il marito schifosamente maschilista decide di perdonare la donna che lo ha tradito ma a quel punto il popolo del web insorge. O meglio, insorge la coppia che regna nel mondo dei social, quella che ha diritto di vita e di morte su tutto, la coppia che potrebbe dire “Instagram c’est moi”, ovvero Ferragni e Fedez. I due puntano il dito contro la trasmissione, contro la storia, contro l’uomo e tutti coloro che li seguono fanno, comprensibilmente, altrettanto. 
Da lì prese di posizione, articoli di giornale e tutto il battage possibile ed immaginabile tanto da essere arrivato a me che non guardo “C’è posta per te” e non seguo le gesta eroiche di Fedez e Ferragni (non per snobismo, in nessuno dei due casi, ma per reale disinteresse).
Parto da alcune considerazioni sparse: in primo luogo la tv è business e la De Filippi lo sa bene. Lei lavora per un’azienda il cui fine è fatturare, non certo insegnare i modelli di comportamento; essendo lei stessa la produttrice delle sue trasmissioni sa che ogni mossa azzeccata le porta denaro in tasca e, se vuole, c’è sempre il tempo e il modo per ripulirsi la coscienza presentando una storia che faccia da controcanto a quella oggetto di critiche ma economicamente fruttuosa. Nel frattempo, ciò che lei probabilmente voleva lo ha ottenuto: se ne parli, anche male, purché se ne parli.
Certo, poi, stiamo parlando di una tv (Mediaset in generale e Canale 5 in particolare) che non accetta e sanziona in maniera dura una bestemmia pronunciata tra i denti ma che poi infarcisce i propri palinsesti di storie truci e di modelli disfunzionali; dati alla mano, il pubblico a cui si rivolge Canale 5 è formato per lo più da donne, con un basso grado di istruzione e casalinghe, per cui tendenzialmente privo degli strumenti per discernere ciò che si sta guardando.
So che anche altre volte i programmi della Maria nazionale (ma non solo) hanno veicolato modelli comportamentali discutibili di mascolinità tossica (penso a quell’altro prodotto di dubbio gusto che risponde al nome di Temptation Island) ma, a parte qualche anonimo utente del web e il Codacons (di fronte alle cui critiche si tende solitamente ad alzare gli occhi al cielo), non sono stati sollevati polveroni.
Ma stavolta è diverso perché a parlare sono stati loro, da cui tutto mi sarei aspettato fuorché passassero il loro sabato sera a guardare “C’è posta per te”.
Loro dicono che non va bene.
Tutti hanno il coraggio di dire che non va bene.
Penso che a quello che mi dicevano sempre i miei: “se X si butta da un ponte ti butti anche tu dal ponte?”
Certo, hanno fatto bene, ma il sospetto che sia una gran trovata di marketing inquina ai miei occhi tutto il buono che potrebbe esserci.
Perché in fondo quello a cui assistiamo è un gioco delle parti, un circo degli orrori in cui la morale è messa sotto i piedi da biechi calcoli economici e in cui non c’è niente di vero (e quindi niente di falso), niente di giusto (e quindi niente di sbagliato).
C’è chi ha i mezzi per capirlo e cerca di non farsi fregare; c’è chi si mette a posto la coscienza indignandosi contro la mascolinità tossica perché qualcuno gli ha detto di farlo; ci sono i veri sconfitti di questa storia, quelli che non hanno i mezzi per capire, restano imbrigliati in brutte storie come quella raccontata lo scorso sabato ma vedono che la coppia è tornata insieme, benedetta dalla papessa Maria e perpetuano i loro comportamenti sbagliati o accettano di subirli passivamente perché “lo ha detto la tv”.
Che schifo.

Afterhours, Non si esce vivi dagli anni 80

Le scarpe nuove

Dei miei primi 13 anni di vita ho pochissimi ricordi. In psicologia si chiama "rimozione" ed è un normale processo di sopravvivenz...