01 gennaio 2023

Le cose che fanno il Capodanno

(Che Corrado Govoni possa perdonarmi)

Il cibo

La sonnolenza

bilanci (ma non conosco l’economia)

I buoni propositi (che ho smesso di fare)

La marcia di Radetzky

Non ci vediamo dall’anno scorso

Chi [fa una cosa qualunque a Capodanno] la fa tutto l’anno

Le tradizioni che sanno un po’ di stantio, ma anche un po’ di buono

Roberto Bolle che balla leggiadro e ti fa sentire un essere inutile

Saluti, baci e messaggi di circostanza (molti)

Saluti, baci e messaggi sinceri (molti di meno)

La testa verso l’altrove e il cosa sarebbe successo se

L’illusione fanciullesca che tutto cambierà 

La disillusione adulta che tutto resterà uguale (a meno che non ci sia una congiuntura astrale favorevole che colleghi l’impegno costante e una gran botta di koolo)


U2, New year’s day

30 novembre 2022

Latito

Ultimamente latito.

Latito sul blog, latito sui miei boomerissimi social ma faccio della latitanza uno stile esistenziale.

Latito perché mi deludono le persone, nel cui valore continuo ingenuamente a credere; latito perché mi deludono le situazioni in cui mi trovo e per modificare le quali mi scopro impotente; latito perché mi interrogo su quello che faccio, sul modo in cui lo faccio e perché magari se avessi aperto una pompa di benzina ora sarei più felice.

Latito perché mi sembra difficile trovare un codice condiviso per comunicare e la frustrazione di non riuscire a farlo è tale e tanta che mancano le parole: ironico, no? Mi mancano le parole per dire che non riesco a parlare.

Ci sono, esisto ma sono come il sonnambulo delle poesie di Sbarbaro e al momento le visioni salvifiche in grado di risvegliarmi dal torpore sono lontane e sfocate.

Avrei tante cose da dire, sulla necessità di normalizzare le lacrime al pari della risata: cosa c’è di più vergognoso nel piangere davanti agli altri rispetto al ridere? Il riso - dice Umberto Eco nel romanzo “Il nome della rosa - squassa il corpo, deforma i lineamenti del viso, rende l’uomo simile alla scimmia. E le lacrime? Ci mostrano deboli, umani, sono sconvenienti perché fanno l’effetto del sangue sugli squali. Quante volte abbiamo detto o ci siamo sentiti dire “non piangere”? Quante volte abbiamo detto o ci siamo sentiti dire “non ridere”?

Avrei tante cose da dire sui bei libri che ho letto e sto leggendo (e sulla ritrovata voglia di leggere) nonché sulla bellezza di tornare finalmente a viaggiare, a scoprire lingue e fisionomie nuove, a scoprire che gli svedesi hanno la å che somiglia terribilmente ad una vocale tipica di Bari.

E invece non ho voglia.

La voglia tornerà, tornerà un altro inverno, cadranno mille petali di rose, la neve coprirà tutte le cose e forse un po’ di pace tornerà. Nel frattempo sto e confido nel fatto che questo non sia tempo perso, ma sia tempo guadagnato, tempo di riflessione fruttifera su me stesso e non semplicemente un guardarsi il proprio ombelico aspettando che passi la tempesta e arrivi la quiete (che in realtà è solo l’attesa di un’altra tempesta).

Simon&Garfunkel, The sound of silence




01 novembre 2022

Tessere

Aracne era una ragazza della Lidia, nell’odierna Turchia, bravissima a tessere. La sua bravura era tale da spingerla a credere di poter competere con Atena: gli dèi mal sopportavano chi osava sfidarli e con loro era difficile spuntarla. Nonostante questo, Aracne accetta la sfida ma nulla può contro la dea che, adirata per la bravura dimostrata dalla ragazza, la trasforma in un ragno, costringendola a tessere dalla bocca per tutta la vita.

Tessere è una parola intrigante perché polisemica, cioè dai tanti significati: tessere vuol dire costruire fili sottili collegati tra loro, ma tessere sono anche i pezzi di un puzzle, quelli che hanno un posto ben preciso (e solo quello) per completare un disegno prestabilito.


Quindi, da una parte c’è un ragno che costruisce la sua tela seguendo un percorso imprevedibile; dall’altra c’è un quadro già dipinto che bisogna solo ricostruire confidando ciecamente nel fatto che tutto poi assuma un senso (anche ciò che un senso non ce l’ha).

Mi interrogo spesso se gli uomini siano ragni o costruttori di puzzle. Forse entrambi, forse nessuno dei due.


Mi piace pensare che siamo artefici del nostro destino e, come ragni, tessiamo i nostri rapporti, talvolta con fili più spessi, talvolta con fili più sottili. Abbiamo la possibilità (questo non vuol dire che ne abbiamo sempre la voglia o il coraggio) di recidere legami stretti e vicini, ma magari consunti; sappiamo, però, anche arrivare lontano e stringere rapporti saldissimi nonostante la complessità delle distanze e gli intrecci con altri fili.

La forma della ragnatela varia sempre e non so se il ragno sa, quando inizia a tessere, quale sarà il risultato finale.

Può anche capitare che il ragno resti intrappolato nella sua tela che diventa la causa della sua morte. E lo stesso può succedere per la nostra tela, fatta dai rapporti che costruiamo quotidianamente.


Certo, l’idea della predestinazione, l’idea che ci limitiamo a mettere in ordine tessere di un puzzle il cui disegno è stato creato per noi da qualcuno è da una parte avvilente (a cosa serviamo noi? A cosa ci serve il libero arbitrio?) dall’altra ci solleva dalla responsabilità (non siamo noi a decidere, è il destino che decide per me è non possiamo fare altro che accettarlo).


E se, in realtà, noi come Aracne fossimo bravissimi a tessere e riuscissimo a creare tele splendide, avendo come unico limite quello di non pensare di poter superare gli dei, o almeno di non dirlo apertamente?

E se il nostro disegno - che noi crediamo frutto del nostro estro - ci fosse, invece, suggerito dall’alto?


No doubt, Spiderwebs

23 ottobre 2022

Diverso da chi?

Era prevedibile ed è patetico dire che non ce lo aspettavamo: è nato il governo ed è un governo palesemente di destra. E, se da una parte tiro un sospiro di sollievo nel vedere finalmente una donna a capo del governo, dall'altra parte penso che il fatto di essere donna non possa e non debba oscurare tutto quello che questo governo porta con sé.

Il merito unito all'istruzione; la natalità con le pari opportunità; la sovranità alimentare; il Made in Italy; il mare. Sono tutte questioni lessicali che portano con sé una considerazione politica.

Chi non è meritevole non ha diritto all'istruzione?

Come si concilia la promozione della natalità con le pari opportunità? E se non si può o non si vuole avere figli?

Cosa vuol dire "sovranità alimentare"? O era solo per introdurre il concetto di sovranità che tanto piace ai patrioti?

E voglio tacere del mare (Nostrum?) e del Made in Italy, che sa vagamente di autarchia, ma soprattutto della scelta di Giorgia Meloni di farsi chiamare "Il Presidente", magari per strizzare l'occhio alla tradizione linguistica italiana che mal digerisce il fatto che, come dicevo nello scorso post, certi ruoli possano essere ricoperti anche dalle donne e che il riconoscimento di questa possibilità passi anche attraverso l'uso della lingua.

Al di là di tutto questo, quello che mi sconvolge è la sensazione che tutto voglia essere riportato alla normalità, mettendo a tacere ogni diversità.

Ma cosa vuol dire "diverso"? De-vertere, allontanarsi, prendere una strada alternativa. Ma allontanarsi da cosa? Da ciò che è normale, ovvero dalla norma, da ciò che è legato alla consuetudine e che, statisticamente, è o è stato più frequente e che quindi da qualcuno è stato stabilito che doveva essere universalmente valido. Dove è scritto che la normalità è l'eterosessualità e chi è diverso sbaglia? Chi stabilisce che la donna in età fertile deve fare figli? Chi ha deciso che solo il possesso di determinate abilità e competenze ci rende degni di essere accolti nella società? 

Tutti siamo diversi. Io sono diverso.

Ho l'alopecia areata: se mi facessi ricrescere i capelli apparirei maculato come una pantera o, per essere più chic, sembrerei una borsa di Alviero Martini. E anche sul resto del corpo la situazione tricotica non è dissimile. È normale questo? No.

Sono nato con la cataratta congenita: per i primi vent'anni della mia vita ho vissuto, inconsapevolmente, nella nebbia; mi sono operato e ora non ho comunque un occhio di lince (e no, le mie diottrie non le ho perse con Sabrina Salerno). È normale questo? No.

Ho avuto bisogno dell'aiuto di una psicologa e di parecchio lavoro su me stesso per sciogliere dei nodi che mi portavo dietro. Ci sto lavorando, sento che sto iniziando a somigliare all'idea di me che ho, ma so che la strada è sempre lunga e va percorsa con attenzione. È normale questo? No.

Non ho mai amato la vita sociale. Ho passato l'adolescenza a casa, percependomi molto distante dal modo di vedere, di agire, di pensare dei miei coetanei. È normale questo? No.

E potrei andare avanti a lungo.

Quello che voglio dire è che il mio sogno è quello di una società in cui ognuno si senta libero di essere e di mostrarsi come è, sapendo di essere accettato, innanzitutto dalle persone che gli sono accanto e gli vogliono bene; vedo intorno a me un mondo, su piccola e su grande scala, in cui, a fronte di una crescente percezione della possibilità di divergere rispetto a ciò che è consueto, c'è una volontà di rimettere tutto in carreggiata per far andare tutto in un'unica e sola direzione, quella della normalità, che è sicuramente tranquillizzante ma non rispecchia fedelmente tutte le sfaccettature della realtà.

E questa è una cosa terribilmente politica.

Skunk Anansie, Yes, it's fucking political


16 ottobre 2022

Chiamami per nome (e cognome)

Diciamolo una volta per tutte: i Romani (intendo gli antichi), fatte le debite eccezioni, erano un popolo di rozzoni, beceri maschilisti, una sorta di celoduristi della prima ora, senza il minimo rispetto per la figura femminile.

Le donne non avevano nome, ma a loro era riservato il nome gentilizio, ovvero il nome della stirpe a cui appartenevano, declinato al femminile: ovvero, se appartenevi alla gens Iulia ti chiamavi Giulia, alla gens Claudia ti chiamavi Claudia e così via. Per evitare confusioni, poi, si distinguevano le varie donne di casa - che portavano tutte inevitabilmente lo stesso nome - distinguendole con maior, minor quindi "più grande" o "più piccola". Tra le poche donne a cui spettava un nome c'erano le prostitute, donne di bassa estrazione sociale il cui nome era spesso legato ad una loro caratteristica fisica (ad esempio Rutilia era una donna rossa di capelli). 

La condizione femminile era di perenne minorità: le donne passavano dal dominio del padre al dominio del marito (e il gesto del passaggio dal padre al marito è rimasto ancora nel matrimonio cristiano) a cui da quel momento spettava il compito di domare le passioni  - sempre esagerate - della donna. Al momento della morte, apparentemente, avevano finalmente il loro riscatto: i mariti dedicavano loro parole di stima (mai di affetto, per carità) per essere state delle buone madri, mogli, domestiche; "sono sempre i migliori quelli che se ne vanno", verrebbe da dire, ma in realtà la lode della donna nascondeva la lode ai familiari (maschi) che erano riusciti a tenerne a freno gli istinti rendendola aderente all'immagine che di sé era opportuno dare.

Quindi, donne senza nome, senza identità, senza volontà.

Certo, essere liberi dal nome - che si sia uomini o donne - diventa un privilegio per Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello: stufo di sentirsi attribuire dagli altri delle identità che non aderiscono al suo modo di essere, decide di rinunciare al proprio nome (quindi, comunque, un atto volontaristico, non un atto imposto da altri) per preservare la propria libertà.

Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita ; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. 

Ma questa è tutta un'altra storia.

È di questi giorni la polemica sul capitano Samantha Cristoforetti, chiamata Astrosamantha: non evidenziare il tuo titolo, negarle il cognome è stato percepito come una volontà di sminuirla con l'intento di renderla più vicina e quindi - in quanto donna - più rassicurante. Mai sia che una donna possa essere un capitano e possa svolgere lavori da uomini (tanto che infatti l'utente medio di Facebook ha avuto da ridire sull'acconciatura che il capitano aveva in una foto). Avete mai sentito parlare di Astroluca? Mai, perché Luca Parmitano non ha necessità di questi nomignoli.

Nelle ultime settimane si è anche discusso della scelta del vocabolario Treccani di inserire, accanto alle forme maschili, anche le forme femminili per cui, ad esempio, il lemma dottore è riportato come dottore, dottoressa. L'utente medio di Facebook - sempre lui oppure lei - ritiene che sia una scelta inutile, legata alla moda senza comprendere che, invece, finché non diamo un nome alle cose, le cose non potranno essere concepite: ad Adamo Dio ha dato il compito di nominare le cose non affinché esistessero (esistevano già, le aveva create lui..) ma affinché l'uomo le potesse comprendere e far diventare parte del proprio modo di pensare. Se accanto a sindaco esiste sindaca è perché questo incarico può essere ricoperto indifferentemente da un uomo e da una donna e non è mai superfluo ricordarlo.

Dare un nome, un cognome e un titolo vuol dire riconoscere - anche formalmente - la dignità di una persona; negarglielo vuol dire cercare di rendere la persona più vicina alla ggente ma - magari - anche distruggere in un attimo tutto quello che quella persona (spesso di sesso femminile) ha fatto per giungere fino al punto in cui si trova. Pensiamoci.

Mia Martini, Donna

09 ottobre 2022

Di Leopardi, feste di compleanno e oculisti

C'è un merito che va ascritto a Leopardi: anche gli studenti più sonnacchiosi quando sentono parlare del giovane favoloso, al netto delle battute sulla gobba, sulla sfiga e (cito testualmente) su Silvia che pur di non dargliela è morta, non riescono a restare indifferenti. In rarissimi casi, nascono anche discussioni interessanti, si formano schieramenti di ultras (che talvolta temo possano arrivare alle mani): da una parte ci sono quelli che difendono il povero Giacomo dicendo che ha ragione, dall'altra ci sono quelli che "no, raga, non può essere che la vita faccia davvero così schifo" e poi ci sono quellƏ che controllano la propria squadra di fantacalcio o scrollano pigramente la propria pagina di Instagram.

Dentro di me, pur essendo leopardiano fino al midollo, penso sia sacrosanto che ragazzi e ragazze diciottenni non condividano una visione così razionalmente disperante della vita: è l'età delle illusioni, quella - e se si legge A Silvia lo si capisce chiaramente - ed è giusto pensare che la vita sarà bellissima. Ci penserà il tempo a svelare la verità, quando si è adulti, strutturati e pronti ad accoglierla: non sapere come stanno realmente le cose è sempre un ottimo modo per vivere felici. 

Ieri, durante la festa di compleanno di Figlio1, osservavo la gioia scomposta di bambini e bambine, li vedevo ballare, cantare, picchiarsi (e non escludo che - lontano dagli occhi dei genitori - abbiano dato vita anche a qualche sacrificio umano: non mi sono premurato di controllare se il numero di bambini entrati alla festa fosse uguale a quello dei bambini usciti). Quello che ho notato è che a loro basta veramente poco per essere felici. Corrono e ridono. Mangiano e ridono. Dicono cose senza senso e ridono. Vederli felici ha reso felice anche me.

Mai nella vita ricapita una felicità facile come durante l'infanzia. 

La mia felicità di bambino era andare dall'oculista: sapevo che mi avrebbe messo le gocce per dilatare le pupille che mi avrebbero impedito di svolgere i compiti per il giorno successivo, quando sarei andato a scuola tutto tronfio esibendo come un trofeo la giustificazione scritta dai miei genitori.

La mia felicità di adulto è andare in libreria, magari dopo aver atteso l'arrivo di un libro: prenderlo, sfogliarlo e poi prenderne almeno un altro per fargli compagnia nel sacchetto (non vorrei mai soffrisse di solitudine); la mia felicità di adulto è poter trovare un attimo per parlare con calma con le persone a cui tengo e scoprire che, nel turbinio continuo in cui siamo avvolti e da cui siamo sconvolti, i fili che mi legano a loro non si spezzano mai. 

Probabilmente non esiste la felicità. Esistiamo noi che siamo felici. a volte solo per un attimo, a volte a fasi alterne, altre volte (poche volte) per una vita intera.

Carmen Consoli e Mario Venuti, Mai come ieri

02 ottobre 2022

Una storia (troppo) italiana

Ero in fibrillazione da quando, ad agosto, ho visto le prime immagini. Avrei dovuto solo aspettare il 21 settembre e finalmente avrei potuto vedere “Wanna” la docuserie dedicata ad una delle icone indiscusse (e allo stesso tempo più discusse) degli anni ‘80 e ‘90. Finalmente ce l’ho fatta.

Apro parentesi.

Sì lo confesso: sembrerei una persona da retrospettiva sul cinema polacco da 15 ore tutta in lingua originale e invece amo il trash in ogni sua forma, dal “Boss delle cerimonie” alla musica italiana più becera.

Oh, ora dopo questo coming out mi sento libero tipo quando ho avuto il coraggio di dire a Madre che no, non doveva osare chiamare “parmigiana di melanzane” quella cosa finto salutista che lei faceva con le melanzane grigliate.

Chiudo parentesi.


La serie è decisamente ben fatta e avvincente con una grafica e una colonna sonora azzeccatissime: ricostruisce le origini del fenomeno Wanna Marchi e Stefania Nobile  fino al suo triste (e giusto) epilogo, dando spazio anche a figure apparentemente secondarie ma altrettanto singolari come Milva Magliano, collaboratrice della donna e collusa con la camorra, o Attilio Capra de Carré, sedicente nobile iscritto alla P2. Insomma, bella gente.

In questa vicenda ci sono tutti gli ingredienti necessari: soldi, malavita, drammi, malattia (si scopre, per esempio che la figlia di Wanna Marchi è affetta da artrite reumatoide), rapporti familiari complessi (la morbosità del rapporto tra le due protagoniste è a dir poco inquietante), musica brutta (qui potete ascoltare, se avete lo stomaco forte, il successo discografico “D’accordo”). Ci sono, però, altri elementi che rimangono nella mente di chi guarda: la mancanza assoluta di empatia da parte delle due televenditrici che sembrano non rendersi conto della gravità delle azioni compiute e, dall’altro lato, la rabbia provata per chi è stato truffato che prova vergogna per il modo si è fatto convincere del fatto che se il sale non si scioglieva in acqua ciò era dovuto alla presenza di negatività che solamente il maestro di vita do Nascimento (che in realtà era un cameriere e che nel frattempo è diventato un armadio tatuato e barbuto) avrebbe potuto togliere in cambio di milioni di lire.

Insomma una storia tutta italiana di truffatori e truffati, di furbi e creduloni, di carnefici e vittime profondamente radicata in un Paese che credeva ciecamente alla TV e nel quale il body shaming non esisteva. Provate a pronunciare adesso in pubblico “Lardosi, mi fate schifo” e, come minimo, vi ritroverete - non per vostra volontà - in un reparto di ortopedia. E per fortuna è così.


Don Antonio, Cinque minuti di te

Le scarpe nuove

Dei miei primi 13 anni di vita ho pochissimi ricordi. In psicologia si chiama "rimozione" ed è un normale processo di sopravvivenz...