02 ottobre 2022

Una storia (troppo) italiana

Ero in fibrillazione da quando, ad agosto, ho visto le prime immagini. Avrei dovuto solo aspettare il 21 settembre e finalmente avrei potuto vedere “Wanna” la docuserie dedicata ad una delle icone indiscusse (e allo stesso tempo più discusse) degli anni ‘80 e ‘90. Finalmente ce l’ho fatta.

Apro parentesi.

Sì lo confesso: sembrerei una persona da retrospettiva sul cinema polacco da 15 ore tutta in lingua originale e invece amo il trash in ogni sua forma, dal “Boss delle cerimonie” alla musica italiana più becera.

Oh, ora dopo questo coming out mi sento libero tipo quando ho avuto il coraggio di dire a Madre che no, non doveva osare chiamare “parmigiana di melanzane” quella cosa finto salutista che lei faceva con le melanzane grigliate.

Chiudo parentesi.


La serie è decisamente ben fatta e avvincente con una grafica e una colonna sonora azzeccatissime: ricostruisce le origini del fenomeno Wanna Marchi e Stefania Nobile  fino al suo triste (e giusto) epilogo, dando spazio anche a figure apparentemente secondarie ma altrettanto singolari come Milva Magliano, collaboratrice della donna e collusa con la camorra, o Attilio Capra de Carré, sedicente nobile iscritto alla P2. Insomma, bella gente.

In questa vicenda ci sono tutti gli ingredienti necessari: soldi, malavita, drammi, malattia (si scopre, per esempio che la figlia di Wanna Marchi è affetta da artrite reumatoide), rapporti familiari complessi (la morbosità del rapporto tra le due protagoniste è a dir poco inquietante), musica brutta (qui potete ascoltare, se avete lo stomaco forte, il successo discografico “D’accordo”). Ci sono, però, altri elementi che rimangono nella mente di chi guarda: la mancanza assoluta di empatia da parte delle due televenditrici che sembrano non rendersi conto della gravità delle azioni compiute e, dall’altro lato, la rabbia provata per chi è stato truffato che prova vergogna per il modo si è fatto convincere del fatto che se il sale non si scioglieva in acqua ciò era dovuto alla presenza di negatività che solamente il maestro di vita do Nascimento (che in realtà era un cameriere e che nel frattempo è diventato un armadio tatuato e barbuto) avrebbe potuto togliere in cambio di milioni di lire.

Insomma una storia tutta italiana di truffatori e truffati, di furbi e creduloni, di carnefici e vittime profondamente radicata in un Paese che credeva ciecamente alla TV e nel quale il body shaming non esisteva. Provate a pronunciare adesso in pubblico “Lardosi, mi fate schifo” e, come minimo, vi ritroverete - non per vostra volontà - in un reparto di ortopedia. E per fortuna è così.


Don Antonio, Cinque minuti di te

2 commenti:

  1. Se in passato mi sono fiondata ciecamente a guardare serie e film da te consigliati, ti dico subito che Wanna mi rifiuto di vederlo!!!

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    1. Vale assolutamente la pena vederlo perché è ben fatto, al di là del personaggio (discutibile quanto vuoi) di cui parla.

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