31 agosto 2025

Il dito davanti

- Sarà pronto tra una settimana
- Ma come una settimana?!
- Sì, sono tanti i rullini da sviluppare. Devi avere pazienza.
Quanto odiavo quella frase.
Era frustrante, a fine agosto, aspettare il giorno in cui il fotografo ti avrebbe consegnato le foto.
Quelle giornate lunghe di inizio settembre sembravano non passare mai: giorni vuoti di cose da fare ma pieni di nostalgia delle cose fatte, i compiti ancora da iniziare, l'idea di essere in un momento di passaggio, il tempo che trascorreva immobile.
Leggevo la cartoline che mi avevano inviato, pensavo alle occasioni (più quelle perse che quelle colte) e aspettavo.
Ma poi arrivava inesorabilmente il giorno.
Fremevo, nella breve strada assolata che dovevo percorrere per arrivare nel negozio.
Mi accoglieva il rumore di grandi macchinari e un odore un po' acido che - credo - il mio olfatto riconoscerebbe ancora.
Ho la busta tra le mani: la apro e sono felice.

Foto mosse, foto brutte, foto che non ricordavo di aver scattato, foto che è meglio non far vedere a mamma e papà, foto in parte bruciate.
E poi non mancavano mai le foto in parte coperte dal dito davanti all'obiettivo.
In ogni rullino ce n'era almeno una ed ho ancora netta la sensazione dello sforzo di ricordare cosa ci fosse dietro quel dito, cosa mi stesse nascondendo. 
Erano spesso inutili, quelle foto, ma non le strappavo.
Erano un omaggio all'imprecisione.

Cos'è rimasto, oggi, di quella imprecisione?
Ossessionati dalle foto aesthetic, non ci sentiamo soddisfatti fino a quando la foto non è perfetta per essere mostrata. Sorrisi forzati, pose studiate, inquadrature sempre uguali: e poi? Che valore ha la foto? Perde il suo valore evocativo e diventa solo una testimonianza di ciò che volevamo apparire in quel momento. Guarda come ero felice in quella foto: peccato che - magari - quel sorriso era solo una maschera con cui ingannare gli altri, ma mai noi stessi.
Cancelliamo le foto mosse, brutte, non conformi perché occupano spazio nei nostri smartphone e ci creiamo in questo modo una memoria artificiale fatta solo di bellezza e di perfezione.
Non lasciamo traccia di ciò che non è né bello né perfetto, rimuoviamo i dispiaceri e diventiamo sempre meno pronti ad affrontare la noia, il brutto, il dolore.
In un momento di evoluzione sociale in cui apparentemente normalizziamo tutto, non sembriamo disposti ad accettare anche ciò che non è opportuno mostrare. Normalizziamo tutto, ma non le scene tagliate - i ciak sbagliati - della nostra vita.

Nel racconto L'avventura di un fotografo, Italo Calvino scrive:

Il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata, è brevissimo. Se fotografate Pierluca mentre fa il castello sabbia, non c'è ragione di non fotografarlo mentre piange perché il castello è crollato, e poi mentre la bambinaia lo consola facendogli trovare in mezzo alla sabbia un guscio di conchiglia. Basta che cominciate a dire di qualcosa «Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!» e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia

Ma soprattutto, che fine hanno fatto coloro che sviluppavano le foto?

Carl Brave feat. Francesca Michielin e Fabri Fibra, Fotografia

17 agosto 2025

La libertà di non essere inquadrati

Ma agosto, esiste davvero?
Ma esiste davvero, agosto?
E dove si nasconde
quando agosto non è?

Rileggevo l'altro giorno questi versi di Valerio Magrelli, mio guru poetico, contenuti nella sua più recente raccolta poetica, "Exfanzia", pubblicata da Einaudi nel 2022.
Leggevo e pensavo a questo mese crudele, che acuisce le differenze e la solitudine, dietro una facciata sfacciatamente sorridente.
Pensavo a questo mese di vacanza ma anche alla furia classificatoria di cui ultimamente siamo vittime.
Ho letto della staycation e ho iniziato ad avvertire come un prurito, un leggero brivido che ha attraversato la mia spina dorsale in tutta la sua lunghezza.
Ma cos'è la staycation?

È banalmente un modo piuttosto figo - perché l'inglese fa sempre figo - per indicare che si passano le vacanze a casa perché non si hanno soldi da spendere.
Sapere che si fa parte del 25% di italiani che in estate non va da nessuna parte forse ci fa sentire meno soli o meno inadatti: la situazione in cui ci trova non diventa certamente meno deprimente ma, classificati in questo modo, ci sentiamo parte di un gruppo che ha un proprio nome, è socialmente riconosciuto e quindi accettato e - se ben infiocchettato - anche desiderabile perché permette di perseguire quella vita lenta - altra espressione che fa tanto Instagram; inoltre la staycation permette anche, a chi lo voglia, di ergersi moralmente al di sopra di chi va in luoghi vittime dell'overtourism (altro problema davvero serio che però sta diventando una lotta da social e, quindi, svuotata dall'interno) e di ridere delle lacrime dei balneari per la stagione di stenti e privazioni che stanno attraversando.
Quindi la forma modifica la sostanza e fa diventare cool una situazione che spesso capita per motivi indipendenti dalla volontà di chi si trova a viverla. 
Avere un etichetta da metterci addosso, come prodotti da supermercato, ci fa sentire parte di un gruppo e il paradosso è che in un'epoca di individualismo sfrenato come quella che stiamo attraversando sembra che non possiamo vivere se non siamo all'interno di contesti ben definiti.
Novelli Adamo, diamo un nome a tutto: ad ogni nuova tendenza, ogni nuovo genere musicale, ogni sentimento, ogni modo di pensare, di mangiare, di vivere diamo un nome. E se da una parte è positivo - perché le cose iniziano ad esistere quando vengono nominate - dall’altra capita di dare la dignità dell’esistenza a cose che potrebbero e dovrebbero anche scomparire velocemente.
Irrefrenabili Linneo, classifichiamo tutto e, classificando, semplifichiamo e, semplificando, ci disabituiamo alla complessità e alla diversità.
Tutto deve rientrare in schemi fissi, moltiplicabili all'infinito ma inesorabilmente fissi; ciò che non rientra in categorie già esistenti, crea una categoria a sé con le proprie definizioni e i propri limiti. Cerchiamo affannosamente una categoria in cui rientrare, in cui riconoscerci e siamo disposti a limarci, a modificarci pur di rientrare negli standard di quella precisa categoria.

E mi vengono in mente le parole di Italo Svevo che nel saggio L’uomo e la teoria darwiniana scriveva questo:
“Nella maggioranza degli uomini lo sviluppo per loro fortuna e per fortuna dell’ambiente sociale, s’arresta. Lo sviluppo eccessivo di qualità inferiori, tutte quelle che immediatamente servono alla lotta per la vita, non sono altro che arresto di sviluppo. [...]. Io credo che l’animale più capace ad evolversi sia quello in cui una parte è in continua lotta con l’altra per la supremazia, e l’animale, ora e nelle generazioni future, abbia conservata la possibilità di evolversi da una parte o dall’altra in conformità a quanto gli sarà domandato dalla società di cui nessuno può ora prevedere i bisogni e le esigenze. Nella mia mancanza assoluta di uno sviluppo marcato in qualsivoglia senso io sono quell’uomo. Lo sento tanto bene che nella mia solitudine me ne glorio altamente e sto aspettando sapendo di non essere altro che un abbozzo.”

Essere abbozzi di uomini, non cercare una forma fissa e soprattutto ammettere sinceramente anche a sé stessi che se non si va in vacanza magari è perché non si hanno soldi o tempo o compagnia. O, ancora meglio, sentirsi liberi di non doversi giustificare per il fatto di non essere inquadrati.
Sarà questa la libertà?

Franco Battiato, Zone depresse


03 agosto 2025

Lo sbilico

Sicuramente l'ho già scritto in queste pagine: ci illudiamo di scegliere i libri da leggere, ma - tranne quando ci vengono imposti - sono i libri a scegliere noi. Ed è forse questo il motivo per cui Pennac, nell'incipit del  suo saggio Come un romanzo, afferma perentoriamente che il verbo leggere non sopporta l'imperativo. Non possiamo leggere se non siamo scelti, o almeno richiamati da qualche libro come Odisseo dalle Sirene.
Mi è successo di nuovo.
Lunedì ero nella mia libreria del cuore ed improvvisamente mi torna alla mente il titolo di un romanzo: "Lo sbilico". Sicuramente me ne ha parlato qualcuno, ma l'informazione era stata messa da parte.
Lo chiedo.
Ce lo hanno.
Torno a casa.
Lo divoro letteralmente.
Mi viene solo un aggettivo per descrivere questo libro di Alcide Pierantozzi: necessario.

È un libro necessario perché permette a chi sfoglia queste pagine di entrare a fondo nella mente di una persona neurodivergente e con disabilità psichica.
Ma è anche un libro duro, che non normalizza, che non fa sconti, che non romanticizza la malattia mentale, ma la sbatte in faccia e non permette di girarsi dall'altra parte.
Questo libro - scrive Pierantozzi nella nota che accompagna il romanzo - è stato scritto in presa diretta, quasi come un diario di bordo della malattia, e racconta una verità molto spesso alterata dai farmaci e dai miei scompensi emotivi. [...] Questo non è un libro di autofiction.
Tutto vero, quindi, anche quando non è verosimile; tutto vero, quindi, ma chi legge deve avere la consapevolezza che ciò che legge non per forza è la verità, un po' come quando si affronta la lettura di quel caposaldo del Novecento che è La coscienza di Zeno
Il narratore che racconta - Zeno - è, come è stato detto dalla critica, un narratore inattendibile: il patto narrativo con il lettore è rotto in maniera irreversibile, non ci si può fidare di ciò che si legge ma bisogna esercitare il senso critico per capire ciò che è vero e ciò che non lo è.
Nel caso del romanzo di Pierantozzi, invece, si ha la percezione che sia vero anche ciò che palesemente vero non è: la descrizione delle allucinazioni del protagonista colpisce diretta la fantasia di chi legge, che percepisce la realtà di quelle immagini con la stessa forza con cui - forse - le ha percepite chi le racconta.
E il coinvolgimento del lettore è parte essenziale di questo libro.

Noi matti non abbiamo solo il diritto di essere soccorsi dai sani, ma anche il dovere di inceppare ogni giorno il mondo per metterlo in discussione ai loro occhi.

Il linguaggio è allo stesso tempo preciso e violento e rievoca la costruzione della realtà narrata che si ritrova nelle poesie di Alda Merini e Clemente Rebora o nei Canti Orfici di Dino Campana.
Ti perfora le narici l'odore di varichina e sapone di Marsiglia con cui il protagonista lava la schiena della nonna in campagna; quasi ti arrivano in faccia gli schizzi di sangue degli animali che vengono uccisi in campagna con una crudeltà quasi ancestrale; percepisci nel petto i bassi della musica assordante che arriva dallo stabilimento balneare mentre il protagonista sta cercando di scrivere. Ti sembra di vederlo quel polso che si muove continuamente; ti sembra di sentirlo quel vivivivivivi che fa sembrare il protagonista un handicappato.
È un libro che ti sfida, che ti costringe ad imparare parole nuove, quelle che servono per descrivere sensazioni mai provate perché l'indescrivibilità non esiste, bisogna solo attendere le parole giuste.
La ricerca della parola, quindi, non è mai fine a sé stessa: la parola giusta descrive e al contempo salva.
Dopo essere entrato in contatto - in maniera a dir poco rocambolesca - con un dizionario dei sinonimi e dei contrari, l'autore racconta come quella lettura gli abbia cambiato la vita:

Mi attirava che le parole non fossero organizzate in un ragionamento. Potevo pescarne una a caso e leggerla senza dover seguire per forza l'ordine alfabetico. Quando leggevo cosí, il ticche e tacche dei pensieri si fermava, i mille canali aperti della mia mente si chiudevano, e un senso di ristoro mi penetrava.
Non capivo il significato di quasi nessuna parola. Non m'interessavano quelle facili, «casa», «topo», «ospedale», mentre le alternative dei sinonimi mi sconvolgevano.
La sera, quando tornavo dai campi, mi lavavo in una grande bagnarola azzurra che nonna lasciava scaldare al sole per tutto il pomeriggio. Era la stessa dove venivano messi i pomodori da cuocere per le conserve. Me ne stavo a mollo nell'acqua tiepida, in un retrodore di sugo e solventi, e pensavo a quelle parole.
- «Casa» si può dire anche «abituro, casaleccia, tugu-rio», - declamavo a voce alta. Non ero in grado di cogliere le diverse sfumature di significato, se non qualche volta, per intuito. M'interessava solo il suono. - «Complimento» si può dire anche «elogio, lode, omaggio». 
Conoscevo la parola «lode», e cosí cominciavo a capire che quando nonna mi faceva un complimento mi stava facendo anche una lode. M'insaponavo il collo dietro le orecchie ripetendo: - Anima, animula, spirito, essenza.
Ritmi precisi, accenti ben cadenzati. Diversi dal dialetto che si parlava in famiglia. Ogni parola del libretto, a leggerla a voce alta, sembrava ispessirsi di suono. Ogni parola era intera, non si spezzava come quelle che usavamo noi: «anda'», «fa'», «corre», «perde»..
A casa nostra si parlava un dialetto talmente stretto e antiquato da sfiorare il latinorum. Dove non arrivava il mugugno, la sbuffata, la bestemmia, le parole si spampanavano in un «Scí!» «Muvet!» «Piia quest e piia quell!»
Per tutt'altro verso riconoscevo che ciascuna parola del dirionarietto voleva indicarmi qualcosa di preciso. Quando le ripetevo al posto del «didin», sentivo che mi facevano da filtro, mi tenevano alla giusta distanza emotiva dalle cose. Dire «gronda» al posto di «grondaia» non era per niente la stessa cosa: «gronda» richiamava su di sé un'attenzione che mi distoglieva dalla risonanza lirica della grondaia in sé, della sua consistenza di lamiere, della sua forma sinusoidale altrimenti ingestibile per i miei sensi.
[...]
Mi accorsi che ripetere quelle strane parole mi piaceva fisicamente: avevano qualcosa di multisonante, qualcosa che riusciva a drenare il marcio attraverso lo strato corneo della pelle. Non avevo nessun interesse a usarle, non leggevo niente a parte le poesie di scuola, ma quelle parole nella mia testa azzurreggiavano, e inevitabilmente cominciarono a entrare nei miei discorsi. Le insegnanti non capivano da dove le tirassi fuori, i miei nonni mi dicevano "parla normale", i compagni di scuola ridevano. Quelle parole medicamentose, impazienti di essere comprese, pronte a diventare un mezzo, io le consideravo un fine, il compimento di un risultato.

E poi c'è la figura della madre, salvifica, quella del padre, il Negazionista, il fratello con una cosina sulla mano e l'altro fratello, vittima di tutta questa situazione; e i nonni, i medici e tutto il microcosmo che ha come centri di gravità Milano e l'Abruzzo, la palestra, la spiaggia e la biblioteca, in cui il protagonista si muove e di cui ad un certo punto anche chi legge entra a far parte.

Un libro necessario, duro, sfidante, con cui - soprattutto in questi tempi - credo sia indispensabile fare i conti.

Alcide Pierantozzi, Lo sbilico, Einaudi 2025

Fabrizio de André, Un matto

27 luglio 2025

Ciò che ci salva

Ci sarebbe tanto di cui parlare.
Di quanto ci piace spiare dal buco della serratura o ascoltare le conversazioni altrui (dico solo Coldplay e Raoul Bova). Per sentirci migliori degli altri, forse?
Di quanto la nostra memoria sia corta: lo scorso anno c'era stata una sollevazione popolare perché la gente aveva preferito "Temptation Island" al programma di Alberto Angela (se non ve lo ricordate, avevo dedicato un post alla questione che si può leggere qui); quest'anno, invece, milioni di persone a guardare queste storie, salvo poi ricordarci -  concluso il programma - di prendere posizione contro le storie tossiche di cui questo programma è un serbatoio notevole. Salvo poi ricordarci che la normalizzazione dell'ignoranza e delle reazioni violente da maschio alpha vanno condannate. Ma d'estate tutto sembra lecito.
Ci sarebbe da parlare dell'acaro che sorride perché il mondo è una polveriera (come direbbe Caparezza) e del nostro sentirci inadeguati e impotenti, quasi in colpa perché noi godiamo di una condizione di - relativa - pace.
Ma non voglio parlare di tutto questo.

Di fronte al mondo che non è come mai come vorremmo che fosse - nel micro e nel macro - oltre all'impegno personale che serve a rendere il proprio centimetro quadrato un posto migliore ci può aiutare la lettura.
Isolarsi alla ricerca di un equilibrio, di una quadratura del cerchio, anche quando intorno c'è rumore: a questo serve la lettura.
Cerchiamo le pagine ci risuonano, ci toccano, ci commuovono. O facciamoci trovare.
Questa poesia di Mariangela Gualtieri, ad esempio.

Sento il tuo disordine
e lo comparo al mio. C’è
somiglianza. C’è lo stesso slabbro
di ferite identiche. C’è tutta la voglia
di un passo largo in una terra
sgombra che non troviamo.
Sento il tuo respiro schiacciato
lo sento somigliante
ti sento piano morire
come me che non controllo
l’accensione del sangue.

Anch’io cerco una libertà che mi
sbandieri, una falcata
perfetta, uno stacco d’uccello
dal suo ramo, quando si butta
improvviso e poi plana.

Trovare elementi di somiglianza nella comune sofferenza, nel disordine, alla ricerca di una libertà che improvvisa che è la stessa dell'uccello che trova improvvisamente il coraggio di volare.
La poesia ci salva.

20 luglio 2025

Nelle puntate precedenti

L'anno trascorso non è stato facile.
Ricco, ma per nulla agevole.
È stato una corsa affannosa in alcuni momenti; in altri una sosta indesiderata quando avrei solo avuto voglia di allontanarmi.
Ho camminato su strade note, ampie e accoglienti, ma ho anche visto un crepaccio sotto di me: ho dovuto allargare le braccia e, come un equilibrista, mettere un piede davanti all'altro concentrandomi con lo sguardo fisso in avanti per non cadere.
Non ho camminato solo: c'è stato chi, come una lampadina che sta per fulminarsi, dopo avermi fatto luce ad intermittenza per un po', si è spento definitivamente; chi ha saputo adattare il proprio passo al mio per godere insieme il panorama; chi ha fatto sgambetti per il gusto di vedermi a terra; chi ogni tanto mi ha spinto in avanti per farmi smettere di fissare particolari inutili o mi ha impedito di proseguire per costringermi a guardare ciò che non volevo vedere.
Ora è il momento di rifiatare un attimo, ritrovare l'equilibrio perso, consultare la mappa e provare a capire dove andare. Ma è anche il momento di riguardare indietro ad una delle esperienze più significative fatte negli ultimi mesi, ovvero la radio.
Costruire mondi con le parole è un po' il mio lavoro e un po' la mia utopia. 
Fare questa stessa cosa in radio, dove mancano fisicamente gli occhi di chi guarda, dove non hai da insegnare ma da raccontare, dove non hai da mettere voti ma da accompagnare, è una bella sfida, che ho raccolto con tutta l'incoscienza che mi caratterizza (e no, non è colpa del fatto che sono gemelli).

Il punto di partenza per le puntate di "Mita è un mito" è stata storia delle parole della moda (potete riascoltare la puntata cliccando qui) che ho provato a ricostruire parlando alla velocità di Milly Carlucci sotto acido - no, ma non avevo l'ansia, stavo semplicemente provando a replicare nella vita reale un vocale whatsapp ascoltato in 2x.
Marzullianamente, poi, ci siamo chiesti non se la vita è un sogno o se i sogni aiutano a vivere meglio (questo lo lasciamo fare all'unico uomo sulla terra che può indossare camicie con strisce orizzontali), ma se siamo noi a inseguire la moda o se è la moda a inseguire noi. Se non sapete rispondere e volete fare bella figura con gli amici con i quali sicuramente affronterete questo discorso, potete trovare le risposte a tutte le domande cliccando esattamente qui
Abbiamo quindi cercato di scandagliare ogni ambito della moda e del suo rapporto con il mondo circostante: ci siamo addentrati nei meandri della psicologia, chiedendoci se l'abito fa il monaco (troverete qui la risposta che cercate), se è possibile parlare di etica nella moda (spoiler: la risposta è sì anche se ci sono ancora tanti passi da fare e ascoltando la puntata capirete il perché) e se e in che modo esiste una connessione tra moda e linguaggio (una delle puntate che mi ha divertito di più e credo si sia sentito. Ve la siete persa? Potete pentirvi e recuperarla qui).

Grande spazio è stato dato al rapporto che la moda ha con il cinema: il nome Edith Head vi dice qualcosa? No? Allora, come se fossimo L'edìpeo enciclopedico - la pagina della "Settimana enigmistica" che vanta il maggior numero di tentativi per capire cosa si fosse fumato chi le ha dato questo nome - ve lo raccontiamo noi in questa puntata. Per non parlare di quando abbiamo parlato di film che parlano di moda o vi abbiamo trascinato nell'abisso dei b-movies italiani, districandoci tra l'Esorciccio, supplenti e dottoresse ammiccanti e i congiuntivi sbagliati del ragionier Fantozzi.
Ma avremmo poi potuto tralasciare la letteratura o l'arte? Pensate di poter vivere senza sapere qualcosa di più del tramezzino di D'Annunzio o dell'abito aragosta di Salvador Dalì? No, non ci credo.
E poi la musica: da Kurt Cobain a Orietta Berti, da Madonna a Jula de Palma, da Missy Elliot alle Figlie del Vento. Abbiamo sfiorato decenni di musica, indagando sul rapporto che la moda ha con il rock internazionale, con il pop internazionale, con la cultura hip-hop e lo streetstyle fino a toccare l'abisso del nazional popolare parlando di Sanremo, argomento sul quale non capisco come mai non mi sia ancora stata conferita una laurea della prestigiosa università "Pippo Baudo" di Militello.

Insomma, tante, tantissime parole che hanno richiesto un po' di studio e parecchia sfacciataggine.
Avrei ancora parole di ringraziamento per tutte quelle persone che mi hanno aiutato, ascoltato, sostenuto, consigliato, ma i grazie più belli sono quelli che si dicono guardandosi negli occhi.
Consideratevi, comunque, tutti ringraziati.
Ci risentiamo a settembre?

Eugenio Finardi, La radio

13 luglio 2025

Rifiuto e vado avanti

È successo a Padova, a Belluno, a Firenze e a Treviso.
In questi ultimi giorni non si è parlato di altro se non di studentesse e studenti che da Trieste in giù - per fare citazioni di un certo spessore che non possono mai mancare fra queste righe - hanno deciso di non sostenere il colloquio dell'esame di Stato come forma di protesta verso l'intero sistema scolastico.
Su 524415 studenti che hanno sostenuto l'esame, 4 si sono ribellati.
Statisticamente è un numero irrilevante: il fenomeno ha riguardato lo 0,0008% dei maturandi, eppure è bastato questo a far parlare i media di "moda tra gli adolescenti", a far scaldare i motori della polemica gratuita da parte dei senes severi - che è un modo catullianamente elegante per definire i boomer che presidiano i social come gli umarell presidiano i cantieri - e a far intervenire anche il Ministro che non ha risparmiato toni draconiani.
Ma guardiamo il lato positivo.
Questi episodi hanno fatto sì che sui social si smettesse di parlare di mazzi di fiori, corone di alloro e di quanto i festeggiamenti al termine del colloquio siano inutili, per iniziare, invece, a concentrarsi sull'esame vero e proprio. Ovviamente la maggior parte delle opinioni sono state espresse da chi non ha la minima cognizione di causa ma parla con il solo scopo di dare voce al proprio livore nei confronti della scuola o, ancora peggio, nei confronti delle giovani generazioni; questo, però, fa parte del gioco e si impara a fare la tara. 
La verità che il problema sollevato non è affatto secondario.

Ne avevo parlato non più di qualche settimana fa: l'insofferenza di ragazze e ragazzi nei confronti del sistema scolastico è evidente a chiunque abbia a che fare - con un minimo di coscienza - con il mondo della scuola. 
Frequentare un liceo significa muoversi in un contesto le cui regole sono state stabilite oltre 100 anni fa, fatto salvo qualche ritocco qua e là che non sempre è stato migliorativo.
Ci sono molte cose che sono palesemente inattuali e i discorsi sui bei tempi andati, su quanto prima si fosse abituati al sacrificio, su quante cose si imparavano prima a scuola e su quanto ora i ragazzi siano molli, inadatti alla vita, agevolati mi procurano un fastidio fisico. Quei tempi sono andati. Stop.

La modalità di svolgimento dell'esame finale, poi, è stata rivista diverse volte soprattutto in anni più recenti (chi si ricorda l'anno delle buste in cui tutti i commissari si sentivano un po' come Mike Bongiorno quando chiedeva ai concorrenti se volevano la uno, la due o la trèèèèè?) ma nessun ministro è riuscito - almeno per ora - a trovare la formula giusta; d'altra parte, però, questo è il punto di arrivo di un percorso ma se è il percorso stesso a suscitare perplessità, è irrealistico aspettarsi che l'esame possa essere considerato appropriato.

La questione, comunque, è molto più complessa di quanto si possa immaginare: da una parte è forte la tentazione di derubricare l'atto di ribellione degli studenti come una furbata: chi ha rinunciato a sostenere il colloquio sapeva già che avrebbe comunque ottenuto il diploma grazie al punteggio ottenuto fino a quel momento quindi il suo gesto è stato puramente dimostrativo. Come se io proclamassi di voler fare la lotta ai negozi di alimentari dichiarando di non voler fare più la spesa, sapendo di avere in casa tutto il cibo necessario per sopravvivere.
Magari, le persone che ridicolizzano questa scelta sono le stesse che, in occasione della morte di Goffredo Fofi, hanno condiviso una delle sue frasi più emblematiche: "Quando trovo dei giovani bravi, il primo limite che cerco di smontare è il pensare di farcela da soli. Avrei anche quattro comandamenti: resistere, studiare, fare rete, rompere le scatole".
Se, però, rompono le scatole vanno subito rimessi a posto, altrimenti, come ha detto Gramellini sul "Corriere" poi non sono abituati a quello che succederà loro nel mondo del lavoro. 
Non credo che sia mai stato chiesto alla scuola di far abituare i ragazzi al mondo del lavoro: non credo sia questo il mio compito da educatore, quanto piuttosto quello - utopico quanto si vuole - di alimentare in loro il desiderio di sapere e la voglia di conoscere sempre di più. 
Sto sognando? Certo, ma trovo personalmente agghiacciante l'idea di doverli maltrattare perché un giorno saranno maltrattati dal docente universitario o dal datore di lavoro: non sarebbero studenti abituati, ma semplicemente studenti maltrattati due volte.

Per quanto possa sembrare sfrontato, l'atto di rifiutarsi di sostenere il colloquio - è innegabile - è comunque un atto di coraggio, coraggio che io, lo confesso senza problemi, alla loro età non avrei avuto e che non dubito che qualcuno dei miei pupilli avrebbe. Potremo dire, forse, di non aver fallito nel nostro compito se riusciremo a far sì che questo non avvenga, non perché lo avremo vietato ma perché avremo creato le condizioni perché ragazze e ragazzi non avvertano la necessità di farlo, o magari abbiano la capacità e la forza di argomentare e sostenere le proprie idee anche se questo non fa notizia.
L'atto di rifiutarsi di sostenere il colloquio, per quanto inutile, per quanto fatto - forse - per avere visibilità, non va sottovalutato: è un campanello d'allarme, è una richiesta di ascolto fatta - forse - nel contesto e nel modo sbagliato. La richiesta di porre attenzione a mettere al centro la persona e a non considerare la studentessa o lo studente un voto o un numero è sicuramente legittima ma, oggettivamente, richiede che ci sia un processo più lungo: è durante i 13 anni di scuola che deve avvenire tutto questo, non certamente nel momento dell'esame in cui - è un dato di fatto - quattro delle sette persone chiamate a giudicare vedono per la prima volta la persona che hanno di fronte.

L'ho detto altre volte e lo ribadisco perché ci credo profondamente: si può essere empatici anche senza essere molli, si possono usare i voti ed essere allo stesso tempo attenti alla valutazione della persona.
E no, non serve neppure minacciare di bocciare chi boicotta l'esame: o se ne cambia totalmente l'impianto oppure, visto che ora funziona come una raccolta punti del supermercato, non può essere bocciato chi ha raggiunto il numero necessario di punti per ottenere il diploma. A questo punto, ha più senso l'ironica proposta di Valentina Petri, la docente che c'è dietro la pagina "Portami il diario", di inserire un sistema di bonus e malus per la valutazione in stile Fantasanremo.

La soluzione non è facile e sicuramente non si può affrontare con proclami social.
I ragazzi rifiutano di sostenere l'esame, gli adulti si rifiutano di ascoltarli.
E da due rifiuti raramente nasce qualcosa di buono.

Fiorella Mannoia, Il peso del coraggio







06 luglio 2025

Aspetto

Aspettare.
Si pensa che questo verbo sia strettamente legato al tempo, e invece è legato ad altro.
Etimologicamente "aspettare" significa guardare intensamente e con attenzione nella direzione da cui ci aspettiamo che arrivi qualcosa o qualcuno.
Quando aspettiamo, guardiamo in una direzione nell'attesa - spasmodica o paziente - che arrivi ciò che attendiamo.
Talvolta ci sentiamo come Giovanni Drogo, il sottotenente protagonista del capolavoro di Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, che spende la propria vita nella Fortezza Bastiani aspettando lo scontro con i Tartari che potrebbe dare un senso alla propria vita.
Altre volte ci sentiamo come Giacomo Leopardi che lascia spazio all'immaginazione e aspettando, ovvero, guardando - senza realmente vedere - oltre la siepe, naufraga dolcemente, fino ad annullarsi, nel mare dell'infinito.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Sono sul monte Tabor, accanto al poeta e mi concentro su ciò che non vedo.
Ciò che non vedo è ciò che non ho.
Non avere provoca, contestualmente, desiderio e sofferenza
Desiderio e sofferenza, quindi, sono intimamente connessi.

Aspettare, cioè continuare a guardare fissamente nella direzione da cui aspetto che arrivi ciò che potrebbe placarli, significa, però, che  - forse - ho fiducia nel fatto che prima o poi arriverà,
Potrei muovermi, andare nella direzione verso cui guardo, ma so che si tratta di un viaggio che richiede un equipaggiamento importante e quindi, prima di preparare i bagagli, studio con attenzione l'itinerario sulla mappa.
E aspetto.
Aspetto che passi questo lungo periodo di felicità coatta, generalizzata, esibita.
Che ferite - antiche e recenti - si rimarginino.
Aspetto di trovare un equilibrio e di riuscire a dare un senso al mondo.
Di dare un senso a me stesso nel mondo.
Di riuscire ad accettare che la felicità di qualcuno non può e non deve minare la felicità altrui.
Aspetto di capire che le persone non si identificano solo con le loro azioni.
Aspetto la maglia rotta nella rete.
Aspetto l'alba, cercando di godermi la notte.

Carmen Consoli, Guarda l'alba

Ricominciamo

E così si sta per ricominciare. Tra qualche giorno finirà questo tempo sospeso, vuoto solo all'apparenza, e riprenderemo con la nostra r...