28 settembre 2025

B.A.

- Ciao, sono Luca e da ventiquattro ore non parlo di Moby Dick
- Ciao, Luca!
Ormai mi immagino così, in una stanza con le sedie messe in circolo, per confessare le proprie dipendenze.
La balena bianca e Achab hanno occupato militarmente quattro mesi della mia vita e la loro lotta è diventata la mia. 120 giorni circa per oltre 800 pagine
Ho odiato profondamente questo romanzo e sono stato più volte sul punto di mollarlo: nella mia vita non avevo mai pensato di voler avere approfondite informazioni su tutti i dannati tipi di balene esistenti nel mondo, sulla nomenclatura di ogni minuscola parte di una barca, sul modo corretto di squartare una balena franca.
L'ho odiato perché le descrizioni spezzano continuamente la narrazione e sono talmente lunghe da far perdere il filo del discorso.
L'ho odiato perché il lessico marinaresco è spesso di difficile comprensione per me che  - prima di questa lettura - non riuscivo a distinguere poppa e prua.
- Ciao, sono Luca e non ricordo mai la distinzione tra longitudine e latitudine ma ora riesco a ricordarmi il nome della parte anteriore e di quella posteriore della barca.
In Moby Dick, però, c'è molto altro.

Ho trovato tre buone ragioni per leggere questo romanzo che può effettivamente risultare respingente:

1. La lotta tra il bene e il male

La trama del romanzo - che fu pubblicato da Melville nel 1851 e che ebbe inizialmente un successo editoriale pari a quello di un libro sul cinema polacco di argomento politico - è nota più o meno a tutti: il capitano Achab parte sulla sua baleniera, il Pequod, per andare - ufficialmente - a caccia di balene ma in realtà per vendicarsi di una capodoglio - Moby Dick, appunto - che nel loro scontro precedente gli ha portato via una gamba. Il capitano, che guida un equipaggio di 30 persone, fa giurare a tutti che non lo abbandoneranno mai e passa la sua vita a bordo chiuso nella sua cabina a cercare di stanare il suo nemico numero uno.
Di questo capitano si dice che è un pazzo, monomaniaco. ha perso ogni umanità e lo dimostra diverse volte nel corso del viaggio. Non ha pietà per chi lo ostacola: vuole solo raggiungere il suo obiettivo.
E la balena?
Moby Dick non fa altro che fare la balena. Vaga per gli oceani, apparentemente imprendibile. Su di lei si dice di tutto: ha il dono dell'ubiquità, è feroce, è immortale. Compare in scena solo alla fine del romanzo (ed è assurdo pensare che l'eroe eponimo, cioè chi da il nome all'opera, faccia la sua apparizione solo nell'ultima scena.
Fa la balena, dicevo, Moby Dick: ricorda un po' la Natura del dialogo leopardiano. Segue il suo percorso e non si cura di chi vuole in tutti i modi sovrastarla. Di chi ammattisce per lei.
L'interrogativo che mi sono posto alla fine della lettura del libro è stato: chi è il buono e chi è il cattivo? Certo, la balena ha causato la perdita della gamba del capitano, ma questo giustifica in qualche modo l'atteggiamento di Achab che causa la morte del suo equipaggio?
È un eroe titanico, Achab, che decide di sfidare i limiti imposti dalla natura oppure subisce la giusta punizione per la sua hybris, per la sua tracotanza?
Spoiler: non vi aspettate una risposta dal libro. La risposta è dentro di voi (ed è sbagliata come diceva qualcuno)

2. Chi è la nostra Moby Dick?

Alzi la mano chi è andato a caccia di balene.
Credo nessuno, ma sarebbe meraviglioso essere smentito.
Se è vero - come è vero - che la letteratura deve raccontare qualcosa in cui noi possiamo riconoscerci, allora Moby Dick  sarebbe uno dei romanzi che dovremmo evitare come la peste.
Non siamo ramponieri, non ci interessa la produzione dell'olio di balena né tanto meno la storia della balena fossile o il funzionamento della sagola.
Però è anche vero che, spesso, proprio un libro totalmente distante da noi ci può portare ad una riflessione su noi stessi.
La seconda domanda che mi sono posto, infatti, è stata: Chi è la mia Moby Dick? Cosa cerco incessantemente? Qual è il mio obiettivo, l'oggetto della mia monomania, la cosa o la persona che cerco? Qual è - se c'è -  il torto subìto per il quale cerco vendetta e che fa da motore alle mie azioni?
Per chiederselo non ci vuole molto coraggio; per darsi una risposta sì

3. Pesci liberi e pesci legati

In uno dei numerosi capitoli che eufemisticamente potremmo definire di difficile lettura (e che con meno diplomazia definirei una martellata nel punto del corpo che immaginate essere il meno adatto a riceverla) Melville ci delizia con una disputa di baleneria relativamente alla corretta attribuzione della proprietà di un pesce una volta arpionato (per i più temerari che vogliano leggerlo, si tratta del capitolo 89).
Anche in questo caso, a partire da una riflessione particolare, sono arrivato ad una più generale.
Quanto della nostra vita è determinato dalla nostra volontà e quanto, invece, crediamo che lo sia?
È possibile che, in realtà, noi siamo solo legati ad una lunghissima catena di cui non vediamo il capo?
Quanto è probabile che, a nostra insaputa, le nostre vie e il nostro destino siano già segnati?
Siamo pesci liberi o pesci legati?

Questi 120 giorni avrei sicuramente potuto spenderli peggio.
E se vi ho fatto venire voglia di leggerlo, credete che non s’è fatto apposta.
Ora posso tornare sereno alla mia seduta dei B.A. (balenieri anonimi).

Banco del Mutuo Soccorso, Moby Dick

21 settembre 2025

Quel momento dell'anno

Finalmente è arrivato quel momento dell'anno.
A breve il rumore della pallina che batte sui racchettoni sarà solo un ricordo.
Dimenticheremo presto l'odore della crema solare e il ronzio delle zanzare, il caldo sfiancante e l'ansia da prestazione vacanziera.
Ma saranno anche sufficientemente lontani i fan di Babbo Natale e delle lucine, del siamo tutti più buoni e del cosa facciamo a Capodanno.
È alle porte il periodo perfetto.
Quello che sa di arancia, di copertina leggera sulle gambe, di pioggia.
Quando ero bambino, al momento del tramonto mi pervadeva una profonda malinconia: non era un sentimento negativo, non ho mai avuto le parole per spiegare come mi facesse sentire e non saprei farlo neppure adesso.
So solo che ho coltivato con cura quel sentimento che è diventato parte di me e che sento rinascere, con un certo piacere - o, per dirla letterariamente con una certa voluttà - ogni volta che arriva l'autunno.

Uno dei poeti più ingiustamente sottovalutati del Novecento italiano, Vincenzo Cardarelli, ha dedicato alla stagione che sta per iniziare questi versi

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d'agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest'autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

L'autunno non arriva inatteso, ci prepara al suo arrivo con il vento di agosto e le piogge di settembre.
È gentile, l'autunno: non violento e opprimente come l'estate. Gentile come la malinconia, che non è devastante come sanno essere la tristezza o la disperazione.
L'autunno scorre piano, incede con lentezza indicibile: è come un treno che riparte dalla stazione di una città, la cui lentezza ci permette di soffermare lo sguardo su ogni particolare di ciò che stiamo lasciando.

Il ciclo delle stagioni non inganna: l'uomo sa già cosa la natura gli riserva e sa che a questa lenta morte seguirà una nuova rinascita.
All'uomo, però, che pure è parte integrante della natura, non spetta lo stesso destino. Cardarelli pensa all'estate come al miglior tempo della nostra vita e all'autunno come al lungo addio.
E qualcuno, qualche secolo prima, scriveva questo

La neve è scomparsa, ritorna l’erba
sui prati, le foglie sugli alberi;
si rinnova la terra e i fiumi scorrono 
smagrandosi in mezzo alle rive;

si affaccia la Grazia a guidare nuda
le danze con le sorelle e le ninfe.
Non sperare nell’immortalità: te lo dice l’anno,
e l’ora che porta via il giorno fecondo.

Lo Zefiro mitiga il freddo, l’estate
travolge la primavera e morrà a sua volta,
quando l’autunno produce i frutti e le messi,
poi presto ritorna l’inverno inerte.

Però la luna ripara alla svelta i danni
del cielo; noi invece, quando siamo caduti
dove sono il padre Enea, Anco e Tullo,
noi siamo polvere e ombra.

E chi sa mai se gli dei vorranno aggiungere
un domani alla somma degli oggi?
Ma sfuggirà alle mani avide del tuo erede
ciò che darai a te stesso con animo amico.

Quando sarai morto, Torquato, e su te Minosse
pronuncerà una chiara sentenza, non varranno
a riportarti in vita la fede,
la nobiltà, l’eloquenza. Non libera

mai Diana il puro Ippolito
dalle tenebre infernali, né Teseo
riesce per il suo Piritoo
a spezzare le catene del Lete.


È il settimo componimento del quarto libro delle Odi di Orazio, poeta latino vissuto nel I secolo a.C.

La natura - scrive Orazio -  ha il suo ciclo di morte e rinascita, le stagioni ritornano sempre; l'uomo, invece, è destinato a diventare pulvis et umbra, polvere e ombra, una volta morto e nessuno potrà salvarlo, non le sue doti terrene (la fede, la nobiltà, l'eloquenza), non un intervento divino.

Ma allora, si potrebbe dire, come si può amare l'autunno se non è altro che l'inizio della fine?
Forse perché è un momento di maggior ripiegamento su se stessi.
Non è un momento in cui ci sentiamo in obbligo di sentirci felici o più buoni.
O perché è l'ora della malinconia e mi ricorda il mio naso schiacciato contro le finestre della casa dei miei nonni a guardare il cielo cambiare colore.
Non lo so. 
So solo che ora mi sento bene.

Carmen Consoli, Autunno dolciastro

14 settembre 2025

Le scarpe nuove

Dei miei primi 13 anni di vita ho pochissimi ricordi.
In psicologia si chiama "rimozione" ed è un normale processo di sopravvivenza: la tua mente sa che devi andare avanti e mette da parte la memoria degli episodi negativi per far sì che tu non ci affoghi.
Tutto questo, però, crea un vuoto fastidioso, direi quasi un buco nella trama: ho dei flash che mi balenano davanti agli occhi di me bambino, ma sono come luci improvvise nel buio. Cosa c'era prima? Cosa c'è stato dopo? Come mi sentivo? E le persone intorno a me cosa facevano?
C'è, però, un tratto che sono certo di aver ereditato dal me del passato e che ritorna costante nelle mie esperienze: l'entusiasmo di fronte alle cose nuove, anche piccole.

Una matita con la punta affilata, di quelle che se la tocchi con il pollice senti un piccolo brivido.
Un paio di calze nuove per andare a correre (perché quelle vecchie a cui eri affezionato ormai hanno buchi dappertutto)
Una gomma ancora candida, con gli angoli squadrati, che ti aiuterà a cancellare i tuoi errori.
Un quaderno bianco.
L'agenda di inizio anno, quella scelta tra tante e che inizialmente compilerai con cura, segnando ogni appuntamento, usando una bella grafia, la penna giusta e poi diventerà comprensibile come la Stele di Rosetta prima che Champollion ci capisse qualcosa.
Un profumo che ti piace e che per la prima volta ti spruzzi addosso.
Quella maglia che aspetti di indossare per celebrare un'occasione: un nuovo incontro, una persona da rivedere, il ritorno in un luogo in cui sei stato felice.

Sono tutti particolari minuscoli, insignificanti agli occhi degli altri.
Nessuno si accorge della gomma candida, della matita affilata, del quaderno, dell'agenda, della maglia.
Ma io so che sono lì a significare qualcosa di nuovo, a rappresentare materialmente un ennesimo inizio; cercherò di preservarne l'integrità, all'inizio starò attento a non rovinarli, sporcarli o corromperli in qualche modo, avrò la cura di quando si entra in una casa nuova e si cerca di camminare sulle punte per non rovinarla o di quando si acquista una macchina e si evita in ogni modo di procurarle un piccolo graffio.
Poi succederà.
Gli angoli della gomma si smusseranno perché gli errori ci sono stati e vanno cancellati.
La matita perderà la sua punta perché ho avuto tanto da scrivere, sottolineare, annotare e per quanta cura tu ci possa mettere, non tornerà più quella punta che aveva all'inizio.
Il quaderno e l'agenda riporteranno pezzi della mia vita, appunti, scritte incomprensibili, lampi di genio, maledizioni.
Quegli oggetti smetteranno di essere nuovi per diventare vissuti: alla bellezza della novità si sostituirà quella della consuetudine.
E penserò che ciò che era una novità mi è servito - magari anche solo psicologicamente - per affrontare la vita che mi si parava davanti.
Mettere le scarpe nuove per i giorni di fango, per quanto apparentemente insensato, è forse la cosa migliore che possiamo fare.

Calcutta, Tutti

07 settembre 2025

Ricominciamo

E così si sta per ricominciare.
Tra qualche giorno finirà questo tempo sospeso, vuoto solo all'apparenza, e riprenderemo con la nostra routine.
E ci lamenteremo - perché lo facciamo sempre - della sveglia che ricomincia a suonare al mattino, del traffico, dei genitori, di quanto sia frustrante la nostra professione, di quanto sia difficile seguire le regole che cambiano in corso d'opera e applicare delle norme calate dall'alto senza alcun aiuto. Vi dico cosa fare, ma non come farlo.
Inizieranno le lotte per i cellulari, le ansie per il nuovo esame, i soliti siparietti con cani che mangiano i quaderni e zii che muoiono 3 o 4 volte; dovremo affrontare crisi esistenziali, chatGPT, proteste, mugugni, apatia, domande del tipo acosaservelascuola, varie ed eventuali.
Fortunatamente, però, questa è solo una piccola parte del mio lavoro.
Perché ci sono loro.

Molti li rivedremo in classe: magari cambiati, maturati, con uno sguardo diverso. E avremmo voglia di chiedere loro quali esperienze hanno fatto sì che i loro occhi cambiassero, di sapere se hanno finalmente trovato il divertimento che la scuola-carcere e i professori-carcerieri hanno negato loro durante i mesi precedenti e se un po' hanno sentito la mancanza del tempo scandito con tanta precisione dalla campanella.  
Non lo faremo, per pudore, perché alla nostra domanda seguirebbe un silenzio imbarazzato o infastidito, perché bisogna iniziare a fare lezione altrimenti poi non avremo il tempo necessario per fare chissà cosa.
Altri non li rivedremo più: hanno cambiato scuola, sono andati via in silenzio per ragioni che possiamo solo supporre. E ci chiederemo cosa sia successo, cosa faranno, se staranno meglio con la nuova classe e i nuovi insegnanti. Sarà un pensiero che ci sfiorerà e andrà via
Poi ci saranno quelli che rivedremo ancora nei corridoi, ma non nella nostra classe: un sorriso appena accennato, una mano sollevata e via, ognuno per la propria strada. Sono gli studenti non promossi, come si dice per una sorta di pudore, così come i ciechi sono i non vedenti, con un giro di parole che suona davvero poco inclusivo perché, per non voler parlare di una mancanza, effettivamente la sottolinea.
E - alcuni di loro - non riesco a guardarli senza un sottile senso di colpa.
Ho fatto abbastanza? Cosa non ho capito? Cosa avrei potuto fare? La sensazione di aver sbagliato qualcosa è sempre dietro l'angolo e lotta con ciò che da un punto di vista professionale è giusto e giustificabile.

Mi vengono in mente le parole di Daniel Pennac nel suo saggio Diario di scuola:

Ogni studente suona il suo strumento, non c'è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l'armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, è un'orchestra che prova la stessa sinfonia. E se hai ereditato il piccolo triangolo che sa fare solo tin tin, o lo scacciapensieri che fa soltanto bloing bloing, la cosa importante è che lo facciano al momento giusto, il meglio possibile, che diventino un ottimo triangolo, un impeccabile scacciapensieri, e che siano fieri della qualità che il loro contributo conferisce all'insieme. Siccome il piacere dell'armonia li fa progredire tutti, alla fine anche il piccolo triangolo conoscerà la musica, forse non in maniera brillante come il primo violino, ma conoscerà la stessa musica.

Saper riconoscere l'importanza del triangolo e apprezzare gli sforzi fatti per suonarlo.
Ma anche.
Ricordarmi di imparare ogni giorno qualcosa.
Non dimenticarmi l'umanità, anche quando tutto sembra remare contro.
Non farmi sovrastare da tutto quello che non ha a che fare con ciò che mi ha fatto innamorare di questo lavoro.
Sarà questo il mantra di quest'anno.

Gazzelle, Settembre


Diseducazione affettiva

Mi stavo guardando allo specchio, l'altra mattina. Appena sveglio, con gli occhi ancora pieni di sonno e il segno del cuscino sulla facc...