Ci risiamo.
Era il 2004: varcavo per la prima volta un’aula scolastica e incontravo una classe che avrei avuto davanti per tutto l’anno.
È il 2024: il rito si ripete sempre uguale per la ventunesima volta e la sensazione è esattamente la stessa. Lingua felpata - in perfetto stile Fantozzi - sudorazione fuori controllo e ansia gioiosa (o gioia ansiosa): cosa racconterò a queste 50 pupille che mi fisseranno? Preparo tutti i miei bei discorsi su libertà di parola, rispetto, gentilezza, partecipazione che tanto so perfettamente che non pronuncerò mai.
Penso ai miei studenti che affronteranno un ennesimo primo giorno, a quelli più piccoli che entreranno per la prima volta nella scuola dei grandi, ai loro sentimenti, ai loro desideri, a cosa vorrebbero, a cosa vorrebbero evitare; penso a chi fa già il conto alla rovescia per il 10 giugno e a chi, invece, trova nella scuola un rifugio, un conforto, un’occasione di riscatto. Penso anche alle colleghe e ai colleghi che sono alla prima esperienza: da una parte provo invidia per la bellezza di un nuovo inizio, penso che se fossi in loro potrei evitare errori che ho fatto in passato per l'inesperienza (bilanciata dell'entusiasmo), ma dall'altra non so se vorrei essere al loro posto. Forse sì.
Penso anche a chi non sa ancora se, dove e quando lavorerà quest'anno: gli ostacoli da superare per diventare insegnanti sono sempre più alti (e talvolta insensati) e la elefantiaca burocrazia italiana ci mette del suo. Delle due, l'una: o si arriva a scuola motivatissimi, o ci si arriva con l'affabilità di Jack Nicholson in Shining.
I miei studenti, dicevo. Li posso vedere tutti in viso, ma spesso e volentieri le loro fragilità rimangono ugualmente nascoste, segrete, sconosciute anche a loro stessi, salvo poi esplodere in modi e tempi inaspettati. E mi chiedo se sarò pronto ad accoglierli, ad aiutarli, a spronarli; se sarò in grado di mostrare loro, a tutti loro, la bellezza del sapere, del confronto, anche dello scontro purché rispettoso e, accanto a questo, la ricchezza della letteratura che parla di noi anche quando ci sono millenni che ci separano da ciò che leggiamo. Se riuscirò a convincerli che, in fondo, ma proprio in fondo, la scuola non è cattiva, è che la disegnano così.
E poi ci sono i programmi, la burocrazia, gli adempimenti, le cose che non si possono rimandare, quello che non si vuole fare ma si deve, quello che si vorrebbe fare ma non si può.
Tutto questo sembra avere il sopravvento, ma lo nascondo dietro il “Buongiorno” migliore che io riesca a pronunciare.
Un nuovo anno, una nuova occasione per imparare e cercare di fare (del) bene.
(Per i miei lettori più attenti: sì, lo so che non si fa. È sbagliato riprendere post vecchi, cambiare qualcosa e spacciarli per nuovi. Per chi non se n'è accorto: fate finta di non aver letto quello che ho appena scritto)
Niccolò Fabi, Costruire
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