Ancora una volta parlo di libri, pagine che descrivono personaggi e situazioni che iniziano a diventare parte integrante della vita di chi dà loro vita leggendoli, pensieri e parole di cui pian piano il lettore si appropria.
"Grande meraviglia": titolo più calzante di questo era difficile da immaginare.
Meraviglia come il cognome di uno dei protagonisti, ma anche come il sentimento - ammesso che la meraviglia lo sia - che suscita questa storia, individuale e corale, in cui con estrema delicatezza si tratta di un tema potente: la salute mentale.
Meraviglia come quella suscitata da Viola Ardone che, usando un linguaggio semplice ma chirurgico e mai retorico, dà vita a personaggi umani, molto umani e allo stesso tempo simbolici: li vedi muoversi davanti ai tuoi occhi, provi simpatia - in senso etimologico - per loro, ne condividi i pensieri, le parole, le opere e le omissioni.
Una storia lunga 37 anni (dal 1982 al 2019) in cui si dipanano e si intrecciano le vite di donne e uomini che proprio grazie a questi intrecci riescono a dare un senso - per quanto provvisorio - alla propria esistenza.
Fausto Meraviglia. un padre che sembra assolutamente inadatto a fare il padre (e forse lo è) ma è in grado di analizzare sè stesso e i propri comportamenti; un dottore che vuole davvero aiutare i pazzi del Fascione. Lui che ritiene che tante cose, tanti valori universalmente condivisi che ricordano i lanternoni di pirandelliana memoria, siano sopravvalutate; lui che invita a non proiettare e cerca di giustificare tutto con Edipo (e sembra di sentire il dottor S. così com'era descritto da Zeno Cosini ne La coscienza di Zeno di Italo Svevo); lui che si sente solo dopo una vita in cui ha tanto amato ed è stato tanto amato.
Non ricorda (o finge di non ricordare) i nomi, fa ipotesi - sbagliate - sulle vite degli altri a cui vorrebbe imporre una direzione, ha un solo amico e insegna le parolacce sl suo assistente vocale. A volte lo vorresti prendere a schiaffi, altre volte lo vorresti abbracciare teneramente e rassicurarlo dicendogli che va tutto bene.
Elba, una bambina che porta il nome del fiume del nord e che ha la sventura di nascere in un manicomio, che lei chiama mezzomondo, che trova nella poesia la propria forma di espressione privilegiata, che deve la sua formazione alle Suore Culone. Analizza i matti, appunta le proprie diagnosi su un diario e nel frattempo cerca: cerca disperatamente la sua Mutti, cerca disperatamente di dare un senso alla propria esistenza e alla propria sofferenza, cerca l'approvazione degli altri, cerca l'amore.
E poi la famiglia di Fausto: Elvira, la moglie che lo abbandona per un altro e che lui non riesce a capire dopo averla tradita per una vita; il figlio Mattia che, novello Sant'Agostino, dopo una vita dissoluta si fa prete e che lui non riesce a capire perché gli sembra che sprechi la sua bellezza; la figlia Vera, che, dopo una vita di ribellione, decide di percorrere la strada che il padre aveva immaginato per lei e che lui non riesce a capire, proiettando su di lei la propria vita e pensandola impegnata in qualche relazione amorosa clandestina quando il mercoledì pomeriggio lascia a casa del nonno il proprio figlio Chiappariello.
A fare da cornice e a regalare piccoli ma preziosi particolari ci sono poi l'infermiera Gillette e la sua rassicurante peluria sul viso, il dottor Colavolpe e Lampadina che curano i matti come andavano curati prima del 1982, e poi il giornalista Alfredo, la Sposina, la Nuova, Aldina e tanti altri.
Quello descritto è un microcosmo in cui distinguere i matti dai sani è tutt'altro che semplice, ma a corredo della storia raccontata c'è anche una profonda riflessione politica intorno alla legge Basaglia che, chiudendo i manicomi, si proponeva il nobile fine di integrare nella società i pazzi e anche quelli che non lo erano ma erano finiti in manicomio perché non conformi alla morale comune. La realizzazione di questo progetto, però, rimase una bella utopia e non saprei dire quale sia la condizione dei malati psichiatrici in questo momento, a oltre 40 anni di distanza.
Una storia fortemente centrata sui personaggi e sulle loro vite ma che spesso offre al lettore spunti di riflessione come questi sulla verità, l'infelicità, la felicità e la vecchiaia.
Tu puoi essere certa di conoscere la verità degli altri? Io no. Non ho questo potere, nessuno lo possiede, senti a me. La verità è un'ipotesi che non basta una vita per verificare.
L'infelicità degli altri, alla fine, ti entra nella radice dei capelli, si insinua sotto le unghie, è un tartaro che si incrosta tra denti e gengive, resistente come il calcare sulle fughe delle mattonelle in bagno, a lungo andare ti consuma fino a farti sanguinare i pensieri. E io l'ho praticata per troppo tempo.
La vita l'hai attraversata frettolosamente, come un ragazzo nelle sere d'estate, con l'unica paura di finire la miscela nel motorino e doverlo spingere a mano in salita fino a casa. La moglie, i figli, le donne, la politica, i pazzi: tutto è andato e venuto così in fretta che al posto delle cicatrici non ti sono rimaste che queste rughe intorno ai baffi e sotto gli occhi. Ogni cosa ti faceva divertire, all'epoca, tutto era teatro, la vita era una farsa e tu eri il primo attore. Ma la felicità è una cosa molto sopravvalutata: rende superficiali. E tu, dico all'immagine che mi osserva di fronte, a differenza di questo specchio, non hai mai avuto molta attitudine a riflettere.
Chiuso il libro, cosa resta? Un profondo senso di gratitudine nei confronti di chi racconta storie così toccanti e un'ammirazione ancor più profonda per chi sa raccontarle in questo modo.
Niccolò Fabi, Meraviglia
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