Sono lì, seduti o appoggiati di fronte a Tommaso. Non hanno neppure il coraggio di guardarlo in faccia mentre gli dicono che all'uscita del cinema hanno visto Cecilia, la sua ex ragazza di cui è ancora innamorato, mentre baciava ed abbracciava un altro, un bel ragazzo con la motocicletta e il foulard. A quel punto, Tommaso dice: "Perché siete così sinceri con me? Cosa vi ho fatto di male?" e quando si sente rispondere che loro gli stanno dicendo la verità per il suo bene, lui ribatte: "E chi vi ha chiesto niente? Queste non sono cose che si dicono in faccia. Queste sono cose che si dicono alle spalle dell'interessato, si sono sempre dette alle spalle. Ma chi vi ha chiesto niente?"
Credo di aver visto decine di volte questa scena (chi è curioso può vederla qui) tratta da "Pensavo fosse amore invece era un classe", film citato letteralmente a memoria da me e dalla mia grande sorella che condivide con me questa passione insana al limite del maniacale, che ha come protagonisti Massimo Troisi, Francesca Neri e Marco Messeri e che si conclude con un'altra considerazione che, con la sua ironia, tocca una verità profonda:
"Io non è che sono contrario al matrimonio solo che... non lo so, un uomo e una donna siano le persone meno adatte a sposarsi tra loro... troppo diversi"
Ritorno alla considerazione iniziale sulla sincerità.
In questo tempo in cui, nonostante l'enorme sviluppo dei mezzi di comunicazione, comunicare è diventato estremamente faticoso, in cui parlarsi guardandosi negli occhi sembra quasi una scelta di resistenza rispetto alle sirene dei messaggi vocali e della messaggistica di Whatsapp, quale valore ha la sincerità? Ti dico una cosa ma senza guardarti negli occhi. Perché? Magari per paura delle tue reazioni, perché non mi sento pronto ad affrontare le conseguenze delle mie parole, perché è più rassicurante fare un monologo, per paura delle mie stesse emozioni. Certo che, in questo modo, il concetto di comunicare, ovvero mettere in comune è sicuramente depotenziato dalla mancanza di un'interazione diretta che - forse - stiamo perdendo la capacità di gestire.
Ma soprattutto quanto c'è di vero nelle parole di Tommaso/Troisi? Quanto può far male sentirsi dire la verità? E soprattutto, siamo sempre pronti ad ascoltarla e ad accoglierla?
Tommaso, in questo caso, non lo era e quasi rimprovera gli amici, i suoi amici di una vita, di essere stati troppo sinceri con lui e davvero mi sembra una protesta condivisibile: non voleva sentirsi dire come stavano le cose ma gli amici, proprio in virtù del sentimento che li lega a lui, non ne hanno potuto fare a meno.
Se sia giusto o sbagliato io non saprei dirlo.
So che, certe volte, anzi spesso, anzi sempre, bisognerebbe davvero pesare ad una ad una le parole rivolte agli altri, non per falsità o per cortesia ma per cercare di limitare i danni che le parole, bombe in attesa di deflagrare, possono fare.
Questo ce lo imporrebbe quel sentimento di umanità che dovrebbe esserci connaturato ma anche l'educazione, su cui mi tornano in mente le parole scritte da Michela Murgia in Utero in affido, uno dei racconti contenuti in Tre ciotole:
La buona educazione è addestramento alla finzione, a dire che stai bene anche se non è vero, perché in realtà nessuno vuol davvero sapere che quel giorno hai la diarrea o il reflusso. Educazione è affermare che sei lieta di fare una cosa che non vorresti fare per niente. È sorridere a qualcuno a cui vorresti spaccare la faccia, altrimenti andremmo tutti in giro con i connotati scomposti dalle botte. Il senso di responsabilità nasce dal fatto che ogni ipocrisia mancata genera conseguenze, ma il bambino il problema delle conseguenze non ce l'ha.
Se questa sincerità non mediata dall'educazione è comprensibile nei bambini (che un vecchio adagio definisce bocca della verità), lo è sicuramente meno negli adulti. Quante volte dietro un ma io sono sincero! si cela quella mancanza di educazione che fa dimenticare di filtrare i pensieri, gettando addosso agli altri il proprio veleno che, di tanto in tanto, ha bisogno di sgorgare con violenza per far sì che chi lo ha dentro non imploda.
A proposito di bugie e di bambini mi viene in mente un episodio che ogni volta mi stringe il cuore.
Sono in quarta elementare e la maestra, la mia maestra Rosa - capelli biondi, occhi azzurri, sguardo dolce e un accento a me familiare, lo stesso della nonna da cui imparato la lingua madre - ci dà da fare una composizione sul colore verde.
A casa scrivo un tema in cui descrivo il tragitto che percorro per andare da casa a scuola soffermandomi su tutto ciò che di verde trovo, riuscendo ad individuare anche le sfumature di verde: ricordo in particolare di qualcosa che avevo descritto di colore verde oliva che ora non saprei neppure distinguere.
Arriva il momento della correzione: leggo il tema ad alta voce.
La maestra mi dice che il tema è molto bello e mi chiede se mi abbia aiutato qualcuno a scriverlo.
Non poteva accettare che un testo così fosse stato scritto da un bambino di 9 anni.
Forse non potevo accettarlo neanche io.
Dico che sì, mi hanno aiutato i miei genitori (anche se non era vero).
La presunta verità è ristabilita grazie alla mia bugia, ma io a 35 anni di distanza ci penso ancora (e non solo perché ho ricevuto più volte il primo premio nel campionato dei rimuginatori seriali).
Perché l'ho detta? Per non deludere la maestra, per non doverle far accettare una cosa che andava oltre il suo modo di pensare. Una bugia bianca per non essere troppo sincero con lei.
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