25 agosto 2024

Ricordi di fine estate

Il rumore dei freni che stridono invade le orecchie.
L'odore del ferro penetra le narici e arriva in gola.
È arrivato il momento dell'abbraccio, del "ci vediamo l'anno prossimo", del groppo alla gola.
Il treno riparte e, pian piano, riprende velocità.
Rivolgo un'ultima occhiata alla mano che saluta dal finestrino e scendo dalle scale tutte sconnesse, guardando bene a terra per evitare di pestare qualcosa o, peggio, di cadere. Non voglio certo passare l'ultima settimana di vacanza fermo a casa.

Per tanti anni, è stato questo il rituale degli ultimi giorni di vacanza, ripetuto più volte per ogni amico che andava via.
Ho passato circa venti estati della mia vita a San Menaio, paesino di mare sul Gargano, e l'inizio e la fine di agosto si ripetevano sempre uguali. 
I primi giorni sapevano di felicità di rivedersi e sembravano brevissimi: il tempo non bastava mai per fare tutto ciò che si voleva. Ci scrutavamo per vedere come eravamo cambiati, in quegli undici mesi di non frequentazione, il corpo, gli atteggiamenti, la voce; si ascoltavano storie spesso inverosimili, raccontate da chi sapeva che non ci sarebbe stato modo di verificarne la veridicità
I comitati organizzativi per la notte di San Lorenzo e per il Ferragosto iniziavano subito a lavorare, infaticabili: voi cercate la legna per il falò, tu compri le birre, tu porti la chitarra.
Quello con la chitarra ero sempre io: con un altro paio di persone, sentimentalmente irrisolte come me, facevo da colonna sonora alle approfondite visite otorinolaringoiatriche delle coppie che mi erano intorno, ma, in fondo, ero felice così.
Il bagno di mezzanotte del 15 agosto segnava inevitabilmente l'inizio della fine, il momento dello scollinamento, la consapevolezza che quel mese di ferie stava andando verso la fine.
I primi amici, soprattutto delle città del nord, per me allora un sogno proibito, iniziavano a ripartire.
Diminuiva lentamente ma inesorabilmente la fila ai tanti telefoni pubblici che costellavano la pineta.
Le giornate si accorciavano, ma sembravano più lunghe perché già vuote.
Il sole forte, violento, quasi crudele lasciava spazio a nuvole sempre più cariche di pioggia.
Alla sabbia asciutta, rovente si sostituiva la sabbia resa pesante dall'umidità, quella che ti resta attaccata addosso ed è difficile da togliere.
Il suono della chitarra iniziava a rimbombare, come in una stanza vuota.
Vedo i cartelloni dei gelati pieni di X: i gelati che sono finiti difficilmente torneranno perché ormai la stagione è finita. Bisognerà accontentarsi del Piedone alla fragola che hai snobbato per tutta l'estate oppure essere disposti a percorrere tutto il lungomare finché non trovi il bar che ha ancora a disposizione quello che mi piace.
Arrivano le prime piogge, talvolta violente, ma esco lo stesso, incurante dell'ombrello rotto, portato dai miei genitori perché non si sa mai e dell'abbigliamento quanto meno discutibile (felpa in acetato con cerniera, costume, calzini di spugna e ciabatte (le scarpe erano solo per i più chic).
Non posso perdermi questi ultimi scampoli di libertà illimitata di cui godo quando sono al mare, quando le regole familiari sembrano non esistere: tra poco tutto tornerà alla normalità, mi richiuderò in casa rinunciando quasi completamente alla vita sociale ed è strano pensare che sarò la stessa persona che, in questo mese, è stato in casa solo per mangiare e dormire. 

Mentre vado alla stazione, gli occhi scorrono sui muri un po' scrostati, pieni di manifesti che iniziano a scolorire e su quelle scritte non proprio da abbecedario (Nick puzza - Nick merda) che sono state le mie prime letture quando avevo quattro anni. Di anni ne ho qualcuno in più ma le scritte sono ancora a lì.

Vedo il treno che arriva in lontananza e so già come andrà: ci scriveremo qualche lettera nei primi giorni, proveremo a sentirci sfidando le ire dei nostri genitori per il costo altissimo delle chiamate interurbane.
Assorbiti dalle nostre vite, poi, ci dimenticheremo di scriverci, di sentirci, magari anche di pensarci; un altro agosto arriverà e saremo pronti a rivivere tutto, sempre uguale e sempre impercettibilmente diverso.

San Menaio, stazione di San Menaio.

Brunori Sas, Guardia '82


18 agosto 2024

Sliding doors

Arriverà il giorno in cui una persona saggia e potente deciderà che l’overthinking deve essere considerato uno sport olimpico e io, quel giorno, sarò lì a battere cassa per avere tutte le medaglie che mi spettano e diventare il Michael Phelps di questa disciplina.

L’ultima mia impresa? Una riflessione sulla creazione.

Lasciamo stare il tema del chi ci ha creato (Dio, il Caso, Peppino di Capri): è una questione troppo complessa che porta con sé implicazioni religiose e scientifiche di difficile gestione. 
Il dove è una variabile interessante: immagino una scena da film in cui c’è un mappamondo che gira e qualcuno bendato che punta il dito a casaccio per stabilire dove vedremo la luce per la prima volta. Che sia a Manhattan, in Botswana o a Codroipo (paese che porta con sé una maledizione per gli anagrammi) non importa a nessuno: quello è stato scelto e quello ci tocca. Il luogo di nascita ci influenza: essere più vicini ai centri di potere, ai luoghi da cui parte tutto può renderci la vita più semplice. Certo, qualora siamo nati altrove, nessuno ci vieta di spostarci, ma dovremo sempre considerare che a questo si accompagnerà un senso di sradicamento, di nomadismo, velato di un senso di colpa difficilmente eliminabile.
Pensiamo al come, piuttosto: usando una terminologia da informatici, noi abbiamo un hardware e un software: il primo è il nostro corpo, il secondo la nostra mente.

Quando si assembla un qualunque oggetto, ci possono essere difetti di fabbrica e così anche nell’uomo. Comincio io: ho occhi da vecchio, spalle strette e fianchi larghi, disposizione tricotica piuttosto bislacca. Niente di invalidante, per carità, ma comunque piccole cose con cui fare i conti e che devi imparare ad accettare.
Più interessante il software: tutti abbiamo un file del tipo sopravvivenza.exe dopodiché il resto della programmazione dipende dall’ambiente in cui viviamo e, solo in un secondo momento, da noi.
Nascere in un dato ambiente culturale o sociale, nascere ricchi o poveri, nascere sotto le bombe o nella bambagia fa la differenza; essere circondati di persone e di affetto, avere a disposizione tanti libri o non averne nessuno, avere una strada già segnata da seguire, dover lavorare per sopravvivere o poter contare sui soldi di mamma e papà fa la differenza. Su tutto questo non abbiamo alcun potere: con un termine altamente scientifico, l’insieme delle condizioni che determinano il nostro punto di partenza si può definire culo.
A questo punto entriamo in gioco noi.
Con una sorta di effetto farfalla ogni azione che abbiamo compiuto, ogni scelta che abbiamo fatto, ogni parola che abbiamo scelto di pronunciare o di tacere ha condizionato il nostro futuro: se, ad esempio, nel 1986 avessi condiviso la merenda con il mio compagno di banco, ora potrei essere multimiliardario; se avessi detto a quella persona ciò che pensavo veramente, ora la mia vita sarebbe altrove o magari non esisterei più.
Ovviamente, quando agiamo, è impossibile immaginare tutte le conseguenze a lungo termine delle nostre azioni: scegliamo ciò che ci sembra migliore in quel momento ignorando dove ci porterà l’azione compiuta.
Va anche detto che la nostra possibilità di scelta non è infinita e siamo messi, talvolta, di fronte a muri invalicabili che condizionano inevitabilmente la nostra vita: quando si dice che impegnandosi si può ottenere qualunque cosa si voglia, in realtà si mente perché non si tiene conto delle condizioni di partenza o, comunque, di quelle che esulano dalle nostre possibilità. Machiavellianamente, si può avere tutta la virtù che si vuole, ma se manca la fortuna le nostre capacità, pur eccezionali, sono destinate a rimanere inespresse.
Penso a Sliding doors,  un film che ha segnato la mia generazione e mi soffermo a riflettere su quante volte, dopo aver metaforicamente preso o perso un treno, ho pensato a cosa sarebbe successo se avessi fatto la scelta opposta. Si entra in un labirinto in cui non c'è Arianna che tenga. L'unico filo che salva è la convinzione di fare la cosa giusta (dove giusto non è inteso in senso morale, quanto piuttosto nel senso di giusto per noi in quel momento) e il pensiero che guardare la vita degli altri e paragonarla alla propria ha poco senso perché ognuno vive in condizioni proprie, fa scelte che altri sono precluse, si perde in un ginepraio che, spesso, è solo il proprio. 

Caparezza, La scelta


11 agosto 2024

La luce senza misericordia

Uno dei motivi per cui amo la letteratura è che ti permette di dare un nome ed una forma ai pensieri a cui non riesci a dare una forma e un nome.
È il caso di questo articolo di Natalia Ginzburg, intitolato Odio l’estate e pubblicato su La stampa il 22 agosto del 1971.

Odio l’estate. Odio il mese d’agosto fino al giorno di ferragosto. Passato il ferragosto, mi sembra di uscire da un incubo. Mi sembra che tutto lentamente migliori per me.

Nell’infanzia l’estate mi piaceva. Era la mia stagione preferita. Mi rallegravo del caldo e delle prime ciliegie. […] L’estate significava andare in villeggiatura. Comparivano nel corridoio i nostri bauli, enormi e vecchissimi, con lastroni di ferro rugginosi, una sorta di dinosauri. Mia madre, nel fare i bauli, sospirava e sbuffava. Né a lei né ai miei fratelli piaceva andare in villeggiatura. Si annoiavano. Io mi divertivo. Per quattro mesi, stavamo in montagna. Il luogo e la casa li decideva mio padre. Erano sempre, secondo mia madre, case scomode e luoghi noiosi, dove non si trovava nessuno con cui scambiare mezza parola. Assistevo alla cerimonia dei bauli con viva gioia. La mia felicità era solo un poco offuscata dal malumore di mia madre. Appena ero in montagna, mi immaginavo di essere un’abitante di quei luoghi, nata là e destinata a vivere là per sempre. Mi sforzavo di cancellare dalla mia memoria la nostra casa di città. Non avevo altri bambini con cui giocare, e camminavo sola nei prati cercando cavallette e ranocchie. Allora non conoscevo la noia o la conoscevo appena, mi durava pochi istanti. Per pochi istanti, sbuffavo e ciondolavo intorno alla casa. Venivo subito rimproverata. Secondo mio padre, annoiarsi era una colpa sempre, ma soprattutto in montagna. Mia madre invece sembrava pensare che il diritto alla noia l’avevano soltanto i miei fratelli e lei stessa. Io non avevo questo diritto essendo piccola. Secondo mia madre, i bambini non dovevano mai né sbuffare né ciondolare. Mi diceva di lavarmi la faccia e fare i compiti delle vacanze. Non l’ascoltavo, perché sapevo che fare i compiti delle vacanze era contro la noia un sistema pessimo. Comunque mi liberavo dalla noia con una facilità estrema.

Pensavo allora che ogni pomeriggio potesse racchiudere straordinari avvenimenti. Potevo andarmene nei prati e trovare qualche grosso rospo. Nei boschi c’erano scoiattoli, e la speranza di acchiappare e portare a casa un piccolo scoiattolo non m’abbandonava mai. O potevo tentare di scrivere un romanzo o di cucinare un dolce, o anche fare a un tratto una grande scoperta scientifica. I miei genitori e i miei fratelli ne sarebbero rimasti strabiliati. Il mio costante desiderio era di strabiliarli, perché trovavo difficile richiamare la loro attenzione su di me. Tutte le cose che io facevo e che trovavo meravigliose non li meravigliavano mai. Il giorno della partenza dalla montagna era per me quasi ancora più bello del giorno dell’arrivo. Alla felicità di partire, di salire prima su una corriera e poi su un treno, si univa la sottile e deliziosa tristezza di dire addio all’estate, essendo per me allora la tristezza una cosa tanto insolita e leggera da mescolarsi con delizia nella felicità. Tristemente salutavo quei luoghi che forse non avrei mai riveduto. Mio padre diceva che l’anno prossimo saremmo andati altrove, in un luogo più economico. Inoltre mio padre usava dire, al termine di ogni villeggiatura e nel corso dell’inverno, che non saremmo andati mai più in nessuna villeggiatura perché non avevamo più soldi. Questa minaccia lasciava i miei fratelli e mia madre nella più assoluta indifferenza, essi non ci credevano e d’altronde non sognavano altro che un’estate in città. Quanto a me, all’idea che eravamo così poveri ardevo di felicità e di paura, perche temevo e speravo di trovarmi in una situazione drammatica. Tuttavia quei lunghi mesi di montagna sui quali mia madre e i miei fratelli sbuffavano si ripetevano per volontà di mio padre ogni anno puntualmente e inesorabilmente.

A un certo punto, mi accorsi che quelle villeggiature in montagna erano diventate di una noia insopportabile anche per me. Compresi allora che la mia infanzia era finita. Non me ne importava più niente delle cavallette e dei rospi. I libri che avevo portato con me li avevo letti e riletti nello spazio di pochi giorni. E inoltre stare a leggere in solitudine mi sembrava un’umiliazione. Mi sembrava che avrei dovuto avere degli amici, ma non ne avevo. […]. Sentivo cantare i grilli, mi assordava la pace abbagliante e sterminata del pomeriggio estivo. Essa sembrava promettere qualcosa, qualcosa che misteriosamente era destinato a tutti ma non a me.

Qui Ginzburg coglie un punto essenziale: se la primavera è per eccellenza la stagione della rinascita e, in qualche modo dell’attesa, l’estate è il momento in cui questa attesa si dovrebbe concretizzare in qualcosa. E se da bambini quello che l’estate ci offre ci soddisfa, crescendo, le promesse sembrano disattese e noi rimaniamo delusi.

Io non trovavo il mondo triste, lo trovavo bellissimo, solo che a me per qualche ragione oscura era vietato di celebrarne le radiose giornate, così non potevo che cercare e amare l’autunno, l’inverno, il crepuscolo, la pioggia e la notte. Scopersi, in seguito, che una simile sensazione non ero io sola a provarla, che era una sensazione comune a molti, perché molti come me in qualche istante della loro esistenza si sono sentiti esclusi e mortificati dall’estate, giudicati per sempre indegni di raccogliere i frutti dell’universo. Molti come me allora hanno odiato lo splendore abbagliante del cielo sui prati e sui boschi. Molti come me ai primi segni dell’estate si sentono in angoscia come all’annuncio di una disgrazia, perché in essi risorge lo spavento del giudizio e della condanna.

A noi sembra allora di trovarci senza scampo, inchiodati nel punto dove siamo. Chi è solo, a un tratto, ha l’esatta misura della propria solitudine. Il ritmo abituale dei giorni si spezza. Le consuete sofferenze diventano insopportabili, rischiarate incessantemente da una luce solare e crudele. La nostra vita giace in disordine ai nostri piedi. Ci sentiamo costretti a enumerarne ogni dolore o errore. La luce dell’estate illumina senza misericordia il nostro silenzio, la nostra persona immobile, circondata di antiche e nuove catastrofi. Ci sentiamo a un tratto seduti sul banco degli imputati. Come in un interrogatorio di terzo grado, noi restiamo immobili, annichiliti e stravolti. Impossibile nasconderci a noi stessi e agli altri. Impossibile alzare un braccio per nascondere il nostro volto. Alle domande che ci saranno poste non sapremo rispondere. I gesti che ci verranno comandati non sapremo compierli. Essere noi stessi ci sembra una colpa peggiore d’un assassinio, da ogni parte ci viene dichiarato che per una simile colpa non c’è assoluzione.

Il ritmo che cambia e rallenta, il vuoto che caratterizza queste giornate (d’altra parte vacanza deriva da vacuus, cioè vuoto) ci costringono a fare i conti con noi stessi, a pensare, a dedicare del tempo a tutto ciò a cui non possiamo dedicarne durante l’anno. Intendiamoci, non è affatto un male a patto che si sappia gestire il flusso di pensieri e si sia in grado di metterlo a frutto quando le giornate saranno più corte e più piene.
L’estate, quindi, è un’occasione di divertimento, nel senso letterale di devertere, allontanarsi dai soliti percorsi per cercare strade nuove, anche se poco agevoli. 

Amalia Gré, Estate












04 agosto 2024

Taccio

Sarà il caldo opprimente.
Sarà che odio l'estate.
Sarà che ci sono delle situazioni che mi pesano come macigni.
Sarà che tutto questo mi rende (più) intollerante (del solito).
Di fronte a tutto quello che sto sentendo in questo periodo, ho capito che l'unica via d'uscita è tacere.

Taccio di fronte a chi, dopo aver visto la serie Netflix su Yara Gambirasio, pontifica su DNA mitocondriale e alleli. Ma da quando siete diventati genetisti?

Taccio di fronte a chi ha criticato la cerimonia di apertura dei giochi Olimpici, il governo francese e la Francia intera, avanzando pretestuose accuse di immoralità. Pensate che abbiano chiamato il primo venuto solo per dar fastidio a voi?

Taccio di fronte a chi, sentendo le parole di Benedetta Pilato, arrivata quarta in una gara alle Olimpiadi, ha sentenziato che lei è la portavoce della GenZ, che in questo modo i giovani affrontano le gare. Tanto di cappello a Pilato e al suo sorriso aperto e sincero, ma le generalizzazioni sono sempre pericolose: non mi sembra che tutti i suoi coetanei affrontino le sconfitte in questo modo (se di sconfitta si può parlare, visto che comunque sei la quarta al mondo nei 100 metri rana).

Taccio di fronte a chi ha criticato le pur sgradevoli parole di Elisa di Francisca su Benedetta Pilato: soprattutto ai calciofili, vorrei chiedere come avrebbero reagito se, dopo essere stati eliminati agli Europei, uno dei calciatori avesse risposto come Pilato.

Taccio di fronte alla brutta sensazione che tutto, nel nostro Paese, diventi politica nel senso deteriore del termine, inteso come scontro tra fazioni che parlano per partito preso e spesso senza cognizione di causa. Mi riferisco alla questione Angela Carini (diventata subito icona della destra nazionalista) e Imane Khelif, atleta algerina per parlare della quale tutti hanno sfoderato la loro specializzazione in endocrinologia.
Ho sentito gente insospettabile parlare di ideologia woke, discettare di persone intersex, di cromosomi con la stessa sicumera con cui fino a ieri parlavano di Ferragnez e di New Martina.

Tacere credo sia l'unica soluzione. Tacere fino a quando non ci si è informati abbastanza per poter farsi un'idea ed esprimere un'opinione.

Per dare un tocco poetico a tutto ciò, avrei potuto dedicare a tutti la prima parola della poesia La pioggia nel pineto di Gabriele D'Annunzio, ma poi, casualmente, mi è capitata sotto gli occhi questo testo di Saramago, perfetto per l'occasione:

Oggi non era un giorno di parole,
con mire di poesie o di discorsi,
né c'era strada che fosse la nostra.
A definirci bastava un solo atto,
e visto che a parole non mi salvo,
parla per me, silenzio, che io non posso.

Simon&Garfunkel, The sound of silence

Ventuno prime volte

Ci risiamo. Era il 2004: varcavo per la prima volta un’aula scolastica e incontravo una classe che avrei avuto davanti per tutto l’anno. È i...