In una vita passata, quando i miei genitori cercavano disperatamente di farmi fare qualche sport o comunque una qualsiasi attività diversa dal leggere o dal guardare tv (tendenzialmente spazzatura), ho anche indossato un kimono e non per partecipare al sacro rito del tè ma per praticare - con esiti tragicomici - la nobile arte del Judo.
Fortunatamente ho appeso la candida divisa al chiodo e non credo che il mondo delle arti marziali stia piangendo per questo.
Sempre nella vita passata, ma in un altro capitolo, ho studiato musica: organo, in particolare. Ricordo l'incubo di dover muovere le due mani e il piede sinistro contemporaneamente. Ognuno seguiva una propria melodia che leggevo (o avrei dovuto leggere) sullo spartito: fingevo di seguirlo anche con aria studiatamente ispirata ma in realtà suonavo completamente ad orecchio e nel frattempo pensavo a quanto è amara la vita di chi deve seguire con gli occhi alcune note scritte in chiave di violino, altre scritte in chiave di basso, dire alla mano destra di muoversi in un modo mentre la sinistra si muove in un altro e il piede in un altro modo ancora e, mentre maltratti Bach, desiderare solo di suonare "Buona giornata" dei Ricchi e Poveri.
Fino ad un certo punto è andata bene: l'orecchio mi aiutava e riuscivo a contenere la mia deriva trash pop. Poi ad un certo punto sono comparsi segni strani sugli spartiti, tipo quello che c'è nell'immagine che accompagna questo post. E lì mi sono detto che era il momento di lasciare la musica seria per diventare un chitarrista da falò o un pianista di pianobar (come dice il buon de Gregori nella sua splendida canzone che quest'anno compie mezzo secolo).
Cosa accomuna il judo e lo strano simbolo musicale, a parte la mia cialtroneria conclamata in entrambi i casi?
Partiamo in ordine inverso: quella specie di doppio baffo che va verso l'alto e che mi ha procurato più di una frustrazione si chiama, in termini musicali, glissando, ovvero quella didascalia - probabilmente ideata da Satana in persona - che chiede di passare velocemente, quasi di scivolare (è questo il significato del verbo francese glisser da cui il termine deriva) da una nota all'altra.
Le mani devono volare leggere, sollevandosi sulla tastiera dello strumento e produrre un suono lieve, piacevole mai dissonante.
Spostiamoci sul tatami.
I maestri di arti marziali insegnano una cosa: la parola judo (柔道, jūdō) significa letteralmente via della cedevolezza. Spesso - dicono - nei combattimenti non vince il più forte ma chi capisce quando è il momento di non opporsi con la forza all'avversario, di non fare il muro contro muro, ma di cedere: l'altro, in questo modo, sarà spiazzato dalla mossa, perderà l'equilibrio, sarà la sua stessa forza ad atterrarlo. Come sempre, come in ogni campo della mia vita, sulla teoria sono sempre forte ma mi perdo miseramente sulla pratica.
Sorvolare leggeri, non forzare la mano: in altri termini glissare.
Parola dal suono piacevole ed evocativo, questa, e anche un po' esotico grazie a quel nesso gl in cui le consonanti vanno pronunciate separate e non producono il suono laterale palatale [ʎ] (quello per imparare il quale ho ripetuto ossessivamente, tipo Jack Nicholson in Shining, la filastrocca Sul tagliere l'aglio taglia, non tagliare la tovaglia. La tovaglia non è aglio, se la tagli fai uno sbaglio).
Non è facile glissare perché significa imparare a non reagire istintivamente, a non farsi trascinare dalle cose che non hanno il diritto di esercitare alcun potere su di noi perché irrilevanti, ad essere indifferenti - così come insegnavano i filosofi stoici - nei confronti di ciò che non può influenzarci, a rispondere con un sorriso di superiorità a chi pensa di sottrarci la serenità con le sue azioni.
Glissare quando si viene provocati, soprattutto quando la provocazione viene da chi non ha altro mezzo per emergere se non quello di mettere in difficoltà l'altro.
Glissare quando ci si rende conto di avere a che fare con qualcuno che - senza alcun motivo - si sente come il pianeta Terra nel sistema tolemaico e vuole che tutto giri intorno a sé.
Glissare quando si viene invitati a prendere parte a qualcosa a cui si sa di non essere interessati, sia questo qualcosa un lavoro, una festa o anche un rapporto interpersonale, prendendo a modello Bartleby, protagonista dell'omonimo racconto di Herman Melville, che risponde ad ogni richiesta che non risponde al suo volere con un cortese ma fermo preferirei di no.
Non significa sottrarsi allo scontro, glissare, e neppure non esprimere la propria opinione: significa decidere di impiegare il proprio tempo e le proprie energie in ciò che è fruttuoso.
Non significa neppure evitare in toto le polemiche (senza le quali credo potrei morire) ma limitarsi a farle quando sono necessarie per difendere una nostra idea oppure semplicemente quando ci va di farle.
Glissare dà un’aria leggera e al contempo elegante, quella che ha chi è seduto in un ristorante francese e chiacchiera amabilmente con i suoi commensali, mentre in sottofondo c'è un piacevole jazz caldo e il maître chiede con discrezione se la cena sta procedendo per il meglio. Tutto questo mentre il mondo intorno non smette di girare ma si limita a sfiorarci con un tocco leggero,
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