(Musica tensiva, tipo "Chi vuol essere milionario?")
Ecco la domanda.
Come prosegue il famosissimo verso "Amor, ch'a nullo amato perdona"?
1. mi prese del costui piacer sì forte / che, come vedi, ancor non m'abbandona
2. porco cane
3. dolce un po' salato
La uno, la due o la trèèèèè? (Potrei sfoggiare la mia perfetta imitazione di Mike Bongiorno, ma non lo farò).
Tutta questa inutile cialtronata serve solo per tradurre in parole il pensiero che faccio ogni volta che mi tocca la fortuna e il privilegio di spiegare il quinto canto dell'Inferno: rileggo le tre famosissime terzine che iniziano con Amor e, inevitabilmente, quando arriva quel verso penso a Jovanotti che qualche anno fa (più di trenta a dire il vero) decise di citare il verso dantesco aggiungendo porco cane, creando così una generazione di studenti che credeva di trovare quella aggiunta anche nelle paludatissime versioni della Commedia, salvo poi scoprire con enorme delusione che il verso si concludeva in modo diverso.
Dopo aver fatto questo indispensabile e inevitabile pensiero, torno alla lettura e rifletto sulla storia raccontata da quei versi immortali.
Rifletto sulla definizione che Dante dà dei lussuriosi: sono coloro che la ragion sommettono al talento, ovvero coloro che sottomettono la ragione all'istinto, si fanno guidare da quest'ultimo mettendo da parte quello che, secondo il poeta, è il dono più grande che Dio abbia fatto all'uomo, ovvero la capacità di ragionare.
Rifletto su questo e, mentre ne parlo con le mie ragazze e i miei ragazzi, nel silenzio irreale che cala nella classe, miracolosamente sospesa nell'attesa di capire qualcosa in più di queste parole (sono questi i miracoli della poesia), sento distintamente il rumore dei brividi che percorrono il mio corpo.
E mi chiedo: come si può amare se non si mette a tacere la ragione? Amare è un atto di fede: ci si affida, appunto, all'altra persona, si mettono sul tavolo le proprie debolezze, il proprio modo di essere, le proprie fragilità.
Andiamo nudi incontro all'altro che non sappiamo veramente chi sia: è un'utopia conoscere a fondo gli altri e non è possibile escludere con ragionevole certezza che nascondano un'arma potenzialmente letale.
Eppure lo facciamo ugualmente.
Scommettiamo, azzardiamo, non valutando con attenzione le conseguenze delle nostre azioni. Ma d'altra parte, se le valutassimo, se mettessimo su una bilancia i pro e i contro non sarebbe più amore ma economia. E l'economia e l'amore non vanno d'accordo.
Penso al furor che secondo i poeti latini (penso a Virgilio e a Orazio innanzitutto, ma la lista sarebbe lunghissima) annebbia la mente di chi ama: quello che travolge Didone innamorata di Enea e suicida a causa della sua partenza voluta dal fato, quello che Euridice rimprovera ad Orfeo che si gira durante il tragitto di ritorno dagli Inferi per paura di averla persa una seconda volta dopo essere riuscito - grazie alla poesia - a strapparla miracolosamente alla morte.
Secondo gli antichi, amore è pazzia, è mancanza di lucidità.
Eppure come si fa a non provare empatia per la regina di Cartagine, sedotta e abbandonata, o per Francesca, che con la sua figura dolce e gentile si prende la scena raccontando di quell'amore travolgente per Paolo, che si limita a piangere (eh, come al solito gli uomini... è stato il commento a mezza voce che ho sentito dalle retrovie)?.
Il vento li travolge, li sbatte di qua e di là e la leggerezza dei movimenti che associamo inconsciamente a qualcosa di positivo qui diventa un elemento negativo, di maggiore pena.
Un posto in questo girone potrebbe averlo indubbiamente una delle figure magistralmente disegnate dalla penna di Fabrizio de André che nel 1966 scriveva questo:
s'innamorò perdutamente
d'una che non lo amava niente.
Gli disse portami domani
gli disse portami domani
il cuore di tua madre per i miei cani.
Lui dalla madre andò e l'uccise
dal petto il cuore le strappò
e dal suo amore ritornò.
Non era il cuore, non era il cuore
non le bastava quell'orrore
voleva un'altra prova del suo cieco amore.
Gli disse amor se mi vuoi bene
gli disse amor se mi vuoi bene
tagliati dei polsi le quattro vene.
Le vene ai polsi lui si tagliò
non le bastava quell'orrore
voleva un'altra prova del suo cieco amore.
Gli disse amor se mi vuoi bene
gli disse amor se mi vuoi bene
tagliati dei polsi le quattro vene.
Le vene ai polsi lui si tagliò
e come il sangue ne sgorgò
correndo come un pazzo da lei tornò.
correndo come un pazzo da lei tornò.
Gli disse lei ridendo forte,
gli disse lei ridendo forte,
l'ultima tua prova sarà la morte.
E mentre il sangue lento usciva
E ormai cambiava il suo colore,
La vanità fredda gioiva,
Un uomo s'era ucciso per il suo amore.
gli disse lei ridendo forte,
l'ultima tua prova sarà la morte.
E mentre il sangue lento usciva
E ormai cambiava il suo colore,
La vanità fredda gioiva,
Un uomo s'era ucciso per il suo amore.
Fuori soffiava dolce il vento
ma lei fu presa da sgomento
quando lo vide morir contento.
Morir contento e innamorato
quando a lei niente era restato
non il suo amore non il suo bene
Ma solo il sangue secco delle sue vene.
ma lei fu presa da sgomento
quando lo vide morir contento.
Morir contento e innamorato
quando a lei niente era restato
non il suo amore non il suo bene
Ma solo il sangue secco delle sue vene.
Se l'uomo probo di cui si parla nella Ballata dell'amore cieco avesse usato la ragione certamente la storia non avrebbe avuto questo epilogo; il fatto, però, che lui muoia contento e innamorato segna il suo riscatto, soprattutto nei confronti della donna che, dalla sua morte, non ricava assolutamente nulla, se non il sangue secco delle sue vene.
Probabilmente in questo momento sarà trascinato dal vento insieme a Semiramide, Cleopatra, Elena, Achille, ma me lo immagino con un sorriso stampato sulle labbra. E credo non ci sia vittoria più grande.
Fabrizio de André, La ballata dell'amore cieco (o della vanità)
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