26 gennaio 2025

La nebbia agli irti colli?

Interno notte.

C'è alle mie spalle un uomo di cui percepisco solo l'odore - profumo da maschio alpha e sigarette di contrabbando - che mi urla che posso fare una sola telefonata, usando l'apparecchio a disco che ho di fronte a me. No, non posso usare il cellulare.
Prendo la cornetta: non la ricordavo così pesante. Infilo il dito nel buco corrispondente al primo numero ma poi mi blocco. Non ricordo nessun numero di telefono a parte il mio.
Lo dico con un filo di voce al mio aguzzino. Sento il freddo della canna della pistola puntata sul mio collo. Chiudo gli occhi e...
Li riapro perché fortunatamente era solo un sogno.

Il mio primo pensiero è stato: "Ma allora vuoi vedere che ha ragione il ministro Valditara quando dice che bisogna tornare a imparare le poesie a memoria come quando ero alle elementari?"

In effetti, se avessi fatto un sogno del genere quando ero una creatura di meno di 10 anni, non solo mi sarei facilmente salvato - conoscevo a memoria i numeri di telefono di parenti e amici e l'elenco telefonico era il mio fedele compagno quando non sapevo cosa leggere nei momenti in cui ero solo con il mio intestino - ma avrei stordito il mio rapitore sciorinandogli i contatti telefonici dei negozi più famosi della mia città.
Alla fine mi avrebbe lasciato andar via per disperazione.
Memorizzavo di tutto, in quegli anni, i miei interessi andavano dagli slogan delle pubblicità al contenuto di un libretto in cui si spiegava come trattare ogni tipo di macchia ma la mia vera passione erano le raccapriccianti canzoni che si imparavano in chiesa: se qualcuno ora mi dicesse "Tu sei la mia vita" risponderei senza alcuna esitazione "Altro io non ho"; quando qualcuno mi si presenta e mi dice di chiamarsi Rosanna nella mia testa risuona immediatamente "Rosanna - come dicevo ai tempi - Cristo Signor".
Se avessi usato quel mio tempo per imparare le lingue, ora probabilmente sarei il massimo esperto mondiale di lingue ugro-finniche.

Torniamo alle parole del ministro. 
Che poi, diciamolo, è la solita anticipazione, la presunta fuga di notizie sulle riforme che verranno che serve solo a tastare il terreno, a far smuovere l'opinione pubblica  - che come spesso accade ha molte opinioni basate sul nulla - e a far parlare di sé: mi vengono in mente le parole di Annalise Keating, spietato avvocato protagonista di Le regole del delitto perfetto, meravigliosa serie che consiglio a tutti: "non deve avere senso, deve solo sembrare un casino". 
Ed è esattamente quello che è successo: poesie a memoria, Bibbia, storia patria e latino sono state la combinazione perfetta per far parlare di una scuola che torna indietro invece di guardare al futuro.

Glisso sull'insegnamento del latino alle medie e sulla storia patria perché andrei oltre il codice penale.
Taccio sulla Bibbia perché non mi piace la pena che Dante dà agli eretici nell'Inferno: preferisco altre punizioni rispetto alle tombe infuocate.

Ovviamente si è levato il coro unanime di quelle persone che ritengono che a scuola si debba insegnare la contemporaneità: le studentesse e gli studenti a scuola dovrebbero imparare il senso civico, il rispetto, l'educazione finanziaria, l'intelligenza artificiale,  case, libri auto viaggi fogli di giornale.
Fermo restando che per poter insegnare queste cose i docenti dovrebbero essere i primi a conoscerle (e non è scontato), ho una convinzione, una delle poche della mia vita: la scuola non deve inseguire la contemporaneità perché resta inevitabilmente sempre cinque passi indietro ma ha il compito di dare gli strumenti grazie ai quali ragazze e ragazzi, usciti da lì, possano interpretare il mondo e siano in grado di acquisire le nuove informazioni necessarie alla propria vita. 
L'idea, poi, di inserire materie - già la parola mi fa ghiacciare il sangue nelle vene - come l'educazione all'affettività è alquanto bizzarra se non è ben strutturata: chi la insegna? Cosa insegna? Dovrà essere valutata? È chiaro che è un tema, questo come tanti altri, su cui non si possono chiudere gli occhi ma credo che più che quello che si può spiegare e che va poi scritto su un registro e formalizzato con un voto, conta piuttosto parlarne, usare gli spunti che nascono dalle discipline per parlare di altro, cogliere le curiosità della classe che si ha davanti e approfondirle, confrontarsi, stimolare curiosità, far nascere dubbi (tanti) e dare certezze (pochissime).

In questo quadro imparare le poesie a cosa potrebbe servire? Insegnerebbe il rispetto? Svilupperebbe il senso critico? No, ovviamente no. Per fare quello serve altro e, diciamolo, non è sempre e solo la scuola a doversi fare carico di trovare una soluzione ai disagi che affliggono il mondo.

Imparare le poesie permette sicuramente di esercitare la memoria - che latita sempre di più anche a causa di una difficoltà di concentrazione legata alla gran quantità di stimoli a cui siamo continuamente sottoposti - ma soprattutto ci permette di dare vita a un serbatoio di bellezza, di musicalità, di immagini che - se comprese - potrebbero diventare nostre e a cui potremmo attingere quando ci mancano le parole per dare voce ai nostri pensieri.

Diamoci un compito.
Prendiamo un piccolo (ma gigantesco) libro di poesia come Cento poesia d'amore a Ladyhawke di Michele Mari e proviamo ad imparare una poesia al giorno, iniziando magari da questa:

Coincidere con chi si è diventati
credendo sia saggezza
è il più facile dei tradimenti
perché il suo castigo è nella pace.

Apriamo un libro di poesia, confidando nel caso (che non esiste), leggiamo le parole, diamo loro un senso - il nostro senso - e poi facciamole scorrere dentro di noi.
Seguiamo l'esempio di Carmen di Pietro (perdonatemi per il riferimento altissimo: qui si raggiunge una delle vette più alte), fine declamatrice che dà ad ogni poesia un'intonazione interrogativa in maniera assolutamente immotivata. 
Sempre rimanendo nei riferimenti di un certo livello, facciamo come Fiorello che ridiede vita a San Martino di Giosuè Carducci, musicandola in modo tamarro ma efficace.

Esercitiamo la memoria per avere uno strumento in più nella nostra cassetta degli attrezzi per affrontare la complessità del mondo ma soprattutto per sperare di ricordare un numero di telefono e di non morire come è accaduto a me nel sogno.

Fiorello, San Martino



 

19 gennaio 2025

Questo vento agita anche me

Generazione X e millennials, indossate le cuffie. È il momento di un quiz rivolto a voi.
(Musica tensiva, tipo "Chi vuol essere milionario?")
Ecco la domanda.
Come prosegue il famosissimo verso "Amor, ch'a nullo amato perdona"?
1. mi prese del costui piacer sì forte / che, come vedi, ancor non m'abbandona
2. porco cane
3. dolce un po' salato
La uno, la due o la trèèèèè? (Potrei sfoggiare la mia perfetta imitazione di Mike Bongiorno, ma non lo farò).

Tutta questa inutile cialtronata serve solo per tradurre in parole il pensiero che faccio ogni volta che mi tocca la fortuna e il privilegio di spiegare il quinto canto dell'Inferno: rileggo le tre famosissime terzine che iniziano con Amor e, inevitabilmente, quando arriva quel verso penso a Jovanotti che qualche anno fa (più di trenta a dire il vero) decise di citare il verso dantesco aggiungendo porco cane, creando così una generazione di studenti che credeva di trovare quella aggiunta anche nelle paludatissime versioni della Commedia, salvo poi scoprire con enorme delusione che il verso si concludeva in modo diverso.
Dopo aver fatto questo indispensabile e inevitabile pensiero, torno alla lettura e rifletto sulla storia raccontata da quei versi immortali.

Rifletto sulla definizione che Dante dà dei lussuriosi: sono coloro che la ragion sommettono al talento, ovvero coloro che sottomettono la ragione all'istinto, si fanno guidare da quest'ultimo mettendo da parte quello che, secondo il poeta, è il dono più grande che Dio abbia fatto all'uomo, ovvero la capacità di ragionare.
Rifletto su questo e, mentre ne parlo con le mie ragazze e i miei ragazzi, nel silenzio irreale che cala nella classe, miracolosamente sospesa nell'attesa di capire qualcosa in più di queste parole (sono questi i miracoli della poesia), sento distintamente il rumore dei brividi che percorrono il mio corpo.
E mi chiedo: come si può amare se non si mette a tacere la ragione? Amare è un atto di fede: ci si affida, appunto, all'altra persona, si mettono sul tavolo le proprie debolezze, il proprio modo di essere, le proprie fragilità. 
Andiamo nudi incontro all'altro che non sappiamo veramente chi sia: è un'utopia conoscere a fondo gli altri e non è possibile escludere con ragionevole certezza che nascondano un'arma potenzialmente letale.
Eppure lo facciamo ugualmente.
Scommettiamo, azzardiamo, non valutando con attenzione le conseguenze delle nostre azioni. Ma d'altra parte, se le valutassimo, se mettessimo su una bilancia i pro e i contro non sarebbe più amore ma economia. E l'economia e l'amore non vanno d'accordo.

Penso al furor che secondo i poeti latini (penso a Virgilio e a Orazio innanzitutto, ma la lista sarebbe lunghissima) annebbia la mente di chi ama: quello che travolge Didone innamorata di Enea e suicida a causa della sua partenza voluta dal fato, quello che Euridice rimprovera ad Orfeo che si gira durante il tragitto di ritorno dagli Inferi per paura di averla persa una seconda volta dopo essere riuscito - grazie alla poesia - a strapparla miracolosamente alla morte.
Secondo gli antichi, amore è pazzia, è mancanza di lucidità.
Eppure come si fa a non provare empatia per la regina di Cartagine, sedotta e abbandonata, o per Francesca, che con la sua figura dolce e gentile si prende la scena raccontando di quell'amore travolgente per Paolo, che si limita a piangere (eh, come al solito gli uomini... è stato il commento a mezza voce che ho sentito dalle retrovie)?.
Il vento li travolge, li sbatte di qua e di là e la leggerezza dei movimenti che associamo inconsciamente a qualcosa di positivo qui diventa un elemento negativo, di maggiore pena.

Un posto in questo girone potrebbe averlo indubbiamente una delle figure magistralmente disegnate dalla penna di Fabrizio de André che nel 1966 scriveva questo:

Un uomo onesto, un uomo probo
s'innamorò perdutamente
d'una che non lo amava niente.
Gli disse portami domani
gli disse portami domani
il cuore di tua madre per i miei cani.
Lui dalla madre andò e l'uccise
dal petto il cuore le strappò
e dal suo amore ritornò.

Non era il cuore, non era il cuore
non le bastava quell'orrore
voleva un'altra prova del suo cieco amore.
Gli disse amor se mi vuoi bene
gli disse amor se mi vuoi bene
tagliati dei polsi le quattro vene.
Le vene ai polsi lui si tagliò
e come il sangue ne sgorgò
correndo come un pazzo da lei tornò.

Gli disse lei ridendo forte,
gli disse lei ridendo forte,
l'ultima tua prova sarà la morte.
E mentre il sangue lento usciva
E ormai cambiava il suo colore,
La vanità fredda gioiva,
Un uomo s'era ucciso per il suo amore.

Fuori soffiava dolce il vento
ma lei fu presa da sgomento
quando lo vide morir contento.
Morir contento e innamorato
quando a lei niente era restato
non il suo amore non il suo bene
Ma solo il sangue secco delle sue vene.

Se l'uomo probo di cui si parla nella Ballata dell'amore cieco avesse usato la ragione certamente la storia non avrebbe avuto questo epilogo; il fatto, però, che lui muoia contento e innamorato segna il suo riscatto, soprattutto nei confronti della donna che, dalla sua morte, non ricava assolutamente nulla, se non il sangue secco delle sue vene.
Probabilmente in questo momento sarà trascinato dal vento insieme a Semiramide, Cleopatra, Elena, Achille, ma me lo immagino con un sorriso stampato sulle labbra. E credo non ci sia vittoria più grande.



12 gennaio 2025

L'arte del glissare

In una vita passata, quando i miei genitori cercavano disperatamente di farmi fare qualche sport o comunque una qualsiasi attività diversa dal leggere o dal guardare tv (tendenzialmente spazzatura), ho anche indossato un kimono e non per partecipare al sacro rito del tè ma per praticare - con esiti tragicomici - la nobile arte del Judo.
Fortunatamente ho appeso la candida divisa al chiodo e non credo che il mondo delle arti marziali stia piangendo per questo.
Sempre nella vita passata, ma in un altro capitolo, ho studiato musica: organo, in particolare. Ricordo l'incubo di dover muovere le due mani e il piede sinistro contemporaneamente. Ognuno seguiva una propria melodia che leggevo (o avrei dovuto leggere) sullo spartito: fingevo di seguirlo anche con aria studiatamente ispirata ma in realtà suonavo completamente ad orecchio e nel frattempo pensavo a quanto è amara la vita di chi deve seguire con gli occhi alcune note scritte in chiave di violino, altre scritte in chiave di basso, dire alla mano destra di muoversi in un modo mentre la sinistra si muove in un altro e il piede in un altro modo ancora e, mentre maltratti Bach, desiderare solo di suonare "Buona giornata" dei Ricchi e Poveri.
Fino ad un certo punto è andata bene: l'orecchio mi aiutava e riuscivo a contenere la mia deriva trash pop. Poi ad un certo punto sono comparsi segni strani sugli spartiti, tipo quello che c'è nell'immagine che accompagna questo post. E lì mi sono detto che era il momento di lasciare la musica seria per diventare un chitarrista da falò o un pianista di pianobar (come dice il buon de Gregori nella sua splendida canzone che quest'anno compie mezzo secolo).
Cosa accomuna il judo e lo strano simbolo musicale, a parte la mia cialtroneria conclamata in entrambi i casi?

Partiamo in ordine inverso: quella specie di doppio baffo che va verso l'alto e che mi ha procurato più di una frustrazione si chiama, in termini musicali, glissando, ovvero quella didascalia - probabilmente ideata da Satana in persona - che chiede di passare velocemente, quasi di  scivolare (è questo il significato del verbo francese glisser da cui il termine deriva) da una nota all'altra.
Le mani devono volare leggere, sollevandosi sulla tastiera dello strumento e produrre un suono lieve, piacevole mai dissonante. 

Spostiamoci sul tatami.
I maestri di arti marziali insegnano una cosa: la parola judo (柔道, jūdō) significa letteralmente via della cedevolezza. Spesso - dicono - nei combattimenti non vince il più forte ma chi capisce quando è il momento di non opporsi con la forza all'avversario, di non fare il muro contro muro, ma di cedere: l'altro, in questo modo, sarà spiazzato dalla mossa, perderà l'equilibrio, sarà la sua stessa forza ad atterrarlo. Come sempre, come in ogni campo della mia vita, sulla teoria sono sempre forte ma mi perdo miseramente sulla pratica.

Sorvolare leggeri, non forzare la mano: in altri termini glissare
Parola dal suono piacevole ed evocativo, questa, e anche un po' esotico grazie a quel nesso gl in cui le consonanti vanno pronunciate separate e non producono il suono laterale palatale [ʎ] (quello per imparare il quale ho ripetuto ossessivamente, tipo Jack Nicholson in Shining, la filastrocca Sul tagliere l'aglio taglia, non tagliare la tovaglia. La tovaglia non è aglio, se la tagli fai uno sbaglio).

Non è facile glissare perché significa imparare a non reagire istintivamente, a non farsi trascinare dalle cose che non hanno il diritto di esercitare alcun potere su di noi perché irrilevanti, ad essere indifferenti - così come insegnavano i filosofi stoici - nei confronti di ciò che non può influenzarci, a rispondere con un sorriso di superiorità a chi pensa di sottrarci la serenità con le sue azioni.

Glissare quando si viene provocati, soprattutto quando la provocazione viene da chi non ha altro mezzo per emergere se non quello di mettere in difficoltà l'altro.
Glissare quando ci si rende conto di avere a che fare con qualcuno che - senza alcun motivo - si sente come il pianeta Terra nel sistema tolemaico e vuole che tutto giri intorno a sé.
Glissare quando si viene invitati a prendere parte a qualcosa a cui si sa di non essere interessati, sia questo qualcosa un lavoro, una festa o anche un rapporto interpersonale, prendendo a modello Bartleby, protagonista dell'omonimo racconto di Herman Melville, che risponde ad ogni richiesta che non risponde al suo volere con un cortese ma fermo preferirei di no.  

Non significa sottrarsi allo scontro, glissare, e neppure non esprimere la propria opinione: significa decidere di impiegare il proprio tempo e le proprie energie in ciò che è fruttuoso.
Non significa neppure evitare in toto le polemiche (senza le quali credo potrei morire) ma limitarsi a farle quando sono necessarie per difendere una nostra idea oppure semplicemente quando ci va di farle.

Glissare dà un’aria leggera e al contempo elegante, quella che ha chi è seduto in un ristorante francese e chiacchiera amabilmente con i suoi commensali, mentre in sottofondo c'è un piacevole jazz caldo e il maître chiede con discrezione se la cena sta procedendo per il meglio. Tutto questo mentre il mondo intorno non smette di girare ma si limita a sfiorarci con un tocco leggero,
Glissiamo, anzi glissons.

Daisy Lumini, Glissons

05 gennaio 2025

Di tempo sprecato e buoni propositi mancati

Quest'anno ho deciso: non farò buoni propositi.
Ogni nuovo inizio - anche se dettato semplicemente dal calendario - ci fa quasi sentire costretti a farlo.
Non farò buoni propositi non perché io non voglia diventare una persona migliore ma perché, a lungo andare, questi diventano delle prigioni da cui sento il bisogno di scappare e ciò mi porta, poi, per fingere (davanti a chi?) di aver rispettato i propositi, che altro non sono che limiti autoimposti, a ingannare me stesso.
Poter scegliere ogni giorno cosa fare è una delle più grandi libertà che l'uomo possa concedersi. 
Coltivare sincerità e dubbi, essere l'adulto che avrei voluto incontrare da bambino, portare avanti l'azione di resistenza del dirsi le cose guardandosi negli occhi e non fissando uno schermo: sono questi alcuni dei miei obiettivi di vita, che perseguo da mesi, da anni, perdendo spesso la strada, facendo talvolta pericolose inversioni ad U, andando raramente per vie battute e rassicuranti.
C'è una cosa, però, a cui vorrei imparare a dare subito il posto che merita: il tempo.

Ci sto riflettendo da quando una persona preziosa mi ha suggerito la lettura di La vita a volte capita di Lorenzo Marone. 
Il romanzo affronta il tema del tempo (e della strenua volontà di recuperare il tempo perduto una volta che se ne è compreso il valore) in un modo al contempo profondo ed ironico che mi ha risuonato dentro in modo profondo.
Non è mai troppo tardi, ma neppure troppo presto, per rendersi conto di quanto ogni istante sia prezioso, ma questo pur banale concetto sembra difficile da comprendere perché ci si sente immortali, si pensa di avere davanti una quantità pressoché infinita di anni e si rimanda con superficialità il momento in cui mettersi a tavolino a fare i conti non più con quello che abbiamo davanti ma con quello che abbiamo ormai lasciato alle nostre spalle.
Il mio maestro in questo (e in tanto altro) è il filosofo Seneca, che nella prima delle Lettere a Lucilio scrive questo:

Fa' così, caro Lucilio: renditi veramente padrone di te e custodisci con ogni cura quel tempo che finora ti era portato via, o ti sfuggiva. Persuaditi che le cose stanno come io ti scrivo: alcune ore ci vengono sottratte da vane occupazioni, altre ci scappano quasi di mano; ma la perdita per noi più vergognosa è quella che avviene per nostra negligenza. Se badi bene, una gran parte della vita ci sfugge nel fare il male, la maggior parte nel non fare nulla, tutta quanta nel fare altro da quello che dovremmo. 

Talvolta il tempo ci viene sottratto con la violenza, altre volte con l'inganno ma spesso siamo noi a perderlo per nostra negligenza, facendo altro rispetto a quello che dovremmo.
Capire cosa sia questo altro è il primo, fondamentale passaggio per smettere di sprecare un bene di inestimabile valore.

Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo e alla sua giornata, e che si renda conto com'egli muoia giorno per giorno? In questo c'inganniamo, nel vedere la morte avanti a noi, come un avvenimento futuro, mentre gran parte di essa è già alle nostre spalle. Ogni ora del nostro passato appartiene al dominio della morte. Dunque, caro Lucilio, fa' ciò che mi scrivi; fa' tesoro di tutto il tempo che hai. Sarai meno schiavo del domani, se ti sarai reso padrone dell'oggi. Mentre rinviamo i nostri impegni, la vita passa. Tutto, o Lucilio, dipende dagli altri; solo il tempo è nostro. Abbiamo avuto dalla natura il possesso di questo solo bene sommamente fuggevole, ma ce lo lasciamo togliere dal primo venuto. E l'uomo è tanto stolto che, quando acquista beni di nessun valore, e in ogni caso compensabili, accetta che gli vengano messi in conto; ma nessuno, che abbia cagionato perdita di tempo agli altri, pensa di essere debitore di qualcosa, mentre è questo l'unico bene che l'uomo non può restituire, neppure con tutta la sua buona volontà.

Dum differtur vita transcurrit, scrive Seneca, con invidiabile capacità di sintesi. Tendiamo a rimandare e nel frattempo la vita passa: sprechiamo così il tempo, unico nostro bene a cui non rinunciare e di cui non privare gli altri.

Mi domanderai forse come mi comporti io che ti do questi consigli. Te lo dirò francamente: il mio caso è quello di un uomo che spende con liberalità, ma tiene in ordine la sua amministrazione; anch'io tengo i conti esatti della spesa. Non posso dire che nulla vada perduto, ma sono in grado di dire quanto tempo perdo, perché e come lo perdo; posso cioè spiegare i motivi della mia povertà. Capita anche a me, come alla maggior parte della gente caduta in miseria senza sua colpa: tutti sono disposti a scusare, ma nessuno viene in aiuto. E che dunque? Per me non è povero del tutto colui che, per quanto poco gli resti, se lo fa bastare. Ma tu, fin d'ora, serba gelosamente tutto quello che possiedi; e avrai cominciato a buon punto, poiché - ci ammoniscono i nostri vecchi - «è troppo tardi per risparmiare il vino, quando si è giunti alla feccia». Nel fondo del vaso resta non solo la parte più scarsa, ma anche la peggiore.
Addio.

Saper ammettere di aver sprecato il tempo è fondamentale, fondamentale è anche capire quando è il momento di iniziare a non disperderlo.
Qual è il momento giusto? Non c'è una risposta, ma di sicuro non possiamo sentirci sbagliati se il momento giusto non è il primo gennaio.

Elogio dell'imprecisione

Finalmente riesco a capire quale impatto possa aver avuto l'invenzione del fuoco sull'uomo preistorico. Me li immagino, le donne e g...