14 luglio 2024

La foto sulla lapide

"... ma cambiamo decisamente argomento. È scomparso ormai da giorni, senza dare più alcuna notizia di sé, un docente di Empoli. La parola al nostro inviato nella cittadina toscana".
Immagino così l'inizio di un servizio al tg sulla mia scomparsa. No, mamma: non ho alcuna intenzione di scomparire e di fare la fine di Mattia Pascal (almeno a qualcosa serve aver letto libri: impari che se decidi di scomparire e poi cambi idea, ciò che resta di te è il nome su una lapide che non contiene neppure le tue spoglie).
Immagino così, dicevo, l'inizio di un servizio al tg sulla mia scomparsa, corredato da una foto preso dai social: la prima cosa che ho fatto è stata andare a spulciare le foto che ho caricato nel corso degli anni per capire quale sceglierebbero. Amando pochissimo l’obiettivo, farebbero fatica a trovare uno scatto adatto a diventare il mio volto pubblico.
Penso poi ai casi di cronaca degli ultimi anni: associamo i protagonisti a determinate immagini, spesso desunte dai social. Efferati assassini che ci sorridono ammiccanti con un bicchiere in mano, donne vittime di femminicidio abbracciate strette al loro futuro assassino.

Ho poi scorso i miei post, cercando di immaginare l'idea che si farebbero di me persone che non mi conoscono: uno schizofrenico che passa senza soluzione di continuità dalla letteratura al trash, da sovrumane boiate a profondissime riflessioni e forse non sarebbero tanto lontani dalla realtà.
Morale della favola: non posso scomparire. Non ho niente di adatto per Chi l’ha visto.

Tramite i social cerchiamo di veicolare un immagine di noi che corrisponde non tanto a ciò che vorremmo essere ma a ciò che riteniamo socialmente più accettabile: siamo felici, abbiamo famiglie felici, siamo sportivi, donatori di sangue, frequentiamo concerti, mangiamo cibo impiattato magnificamente, siamo discretamente fighi (nei limiti imposti dai nostri mezzi e dai filtri di Instagram), prendiamo facilmente posizione su questioni che magari non conosciamo abbastanza.
Chiaramente non è la verità, o meglio è solo una parte della verità, quella più degna di essere diffusa. Il problema sorge nel momento in cui non si è più in grado di distinguere la realtà dalla narrazione della realtà: ci si sente infelici perché la propria vita è diversa da quella raccontata dagli altri e ciò fa nascere il desiderio di emulazione che porta a riproporre - talvolta con risultati al limite del grottesco - situazioni vissute da altri solo perché la loro felicità percepita li ha resi invidiabili ai nostri occhi. Anche noi, in fondo, vogliamo condividere la nostra felicità o meno poeticamente essere a nostra volta oggetto di invidia e questo crea un mondo di plastica fatto di persone perfette in cui, sorridenti come manichini della Rinascente, facciamo tutti le stesse cose e non c’è spazio per la quotidianità, la noia, la tristezza. 

Questo mi ricorda una delle innumerevoli mie fissazioni, indotta dal mio professore di Letteratura latina all’Università, l’indimenticabile prof. Cipriani: le iscrizioni sulle lapidi.
Andando al cimitero, mi perdevo nel guardare le parole scritte per ricordare le qualità della persona defunta. L’immagine che emerge è, inevitabilmente, quella secondo cui sono sempre i migliori quelli che se ne vanno: ovviamente, non è carino scrivere sulla tomba padre ignobile, madre anaffettiva, amico infedele, però è straniante scoprire che tutti i defunti erano ottime persone, tutte con qualità al grado superlativo, modelli insuperabili di comportamento. 
(Piccola parentesi da antichista perché ogni tanto ho bisogno di ricordarmi da dove vengo: nel mondo romano, le donne contavano come il due di coppe quando la briscola è bastoni o, se preferite, come il Parlamento italiano in questi ultimi anni. Nonostante questo, da morte diventavano tutte perfette pie, caste, custodi della casa, perfette filatrici. Perché questo? Perché ciò voleva dire che i maschi di casa - prima il padre, poi il marito -  erano riusciti a domare questo essere indomabile, dalla sessualità esplosiva, irrazionale e inutilmente emotiva. Lodare le donne, quindi, era un modo per gli uomini di darsi una pacca sulla spalla e dire a tutti "ehi, ho fatto davvero un ottimo lavoro"). 
Notevole anche la scelta della foto da mettere sulla lapide: le persone sono sorridenti, in salute, felici perché è giusto che vivano così nella nostra memoria. A questo proposito, ricorderò sempre la faccia di mia nonna - donna coriacea dalla invidiabile che capacità di sopportazione che mi ha lasciato in eredità l’approccio disincantato alla vita - quando venne a sapere che il fotografo che doveva immortalare i momenti più belli del matrimonio di mia sorella voleva approfittare per farle una foto in quel giorno in cui era elegante, sorridente, ben pettinata perché non si sa mai.

Usciamo dal cimitero  - fortunatamente con le nostre gambe - e torniamo a noi.
È assolutamente umano scegliere quale immagine dare di sé, si è sempre fatto e sempre si farà. Il problema nasce quando si elimina coscientemente il brutto dalla nostra vita pubblica sperando che, grazie a questo, possa crescere la stima nei nostri confronti.
Riserviamo uno spazio, magari aperto a poche e selezionate persone, in cui tenere le foto brutte, i nostri insuccessi, le scelte e le azioni di cui non andiamo orgogliosi, ma anche la noia, le difficoltà quotidiane, l’apatia per ricordarci che siamo fatti anche di quello, che l’immagine che noi diamo è solo un’ombra e che un’ombra non può esistere se manca un corpo.


Niccolò Fabi, Rosso

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