La perfezione.
C'è chi la insegue a lungo, chi, ad un certo punto, decide saggiamente di smettere di cercarla, chi pensa di averla trovata e la impone agli altri.
Per qualcuno diventa un'ossessione: voglio essere l'uomo perfetto, il genitore o il figlio perfetto, l'amico o il lavoratore perfetto. Voglio piacere.
Ammettiamolo, succede a tutti.
Inizio io: a me succede. Razionalmente so che non ha alcun senso, però è più forte di me.
Non ha senso perché l'idea che gli altri hanno di noi segue sentieri che ci sono sconosciuti: a volte ci ritroviamo ad essere amati senza che - a nostro parere - abbiamo fatto niente per meritarcelo, quell'amore; altre volte siamo oggetto di disprezzo o veniamo ignorati (il che per me è molto peggio) e non capiamo perché.
Talvolta pensiamo di essere stati perfetti, ci siamo impegnati per esserlo. E invece no: quello che abbiamo fatto non è bastato, o magari non si è neppure avvicinato al concetto di perfezione che hanno gli altri e questo ci fa soffrire, tremendamente. Dipendiamo sempre, troppo dal giudizio degli altri, senza valutare che ognuno giudica secondo parametri propri e talvolta incomprensibili agli altri.
E qui si pone la prima questione: aver raggiunto la propria idea di perfezione non equivale ad essere perfetti per gli altri e questo già crea una enorme disarmonia.
Eppure siamo fatti per essere imperfetti, perché ciò che è perfetto è morto, ma non riusciamo ad accettarlo.
Perfectum in latino è ciò che è compiuto, concluso una volta per tutte. Nel momento in cui ci si ritiene perfetti, si smette di evolvere, di migliorarsi, di aprirsi alla possibilità che esista un modo di vedere le cose divergente rispetto al proprio, dimenticandosi che è dal confronto che nasce il pensiero: la vulnerabilità, il non considerarsi perfetti e la disposizione al dialogo non sono atteggiamenti da perdenti o da incerti, ma sono gli elementi che ci rendono raggiungibili dalla presenza e dalla posizione degli altri e quindi disponibili a contenere un contributo che viene dagli altri, decisivo per la nostra stessa esistenza. Dialogare, letteralmente, vuol dire ragionare insieme, condividere il lògos, cioè il pensiero oltre che la parola, per dare un senso a ciò che ci circonda. Se non ci si confronta, se si pensa di essere conclusi in sé, questo non può avvenire.
Aggiungo un altro elemento di riflessione: il nostro corpo si rinnova ogni 7 anni. Tale è, infatti, il tempo necessario affinché le nostre cellule si rigenerino - ce lo dice la scienza - e questo conferma uno dei principi sostenuti da migliaia di anni dalla medicina cinese che scandisce la vita proprio in cicli di questa durata. A questo punto verrebbe da dire che la perfezione ha in sé un elemento di precarietà in quanto - sto volutamente facendo un paradosso - c'è il rischio concreto di non essere più le stesse persone di 7 anni prima: cambiamo noi e cambiano le situazioni, per cui ciò che è perfectum è assolutamente inadatto all'uomo.
D'altra parte, anche il buon Eraclito che nel VI secolo a.C. ci parlava dell'impossibilità di bagnarsi per due volte nello stesso fiume perché cambia l'acqua del fiume e cambiamo anche noi ci dà un ulteriore conferma di quanto possa essere inutile la ricerca per noi di forme definitive e date una volta per tutte.
Questa ricerca, oltre che inutile, rischia di essere anche dannosa: lo racconta benissimo Andre Agassi nella sua autobiografia Open da cui emerge la storia di un ragazzo che deve dare un corpo all'ossessione paterna di essere il migliore in campo sportivo - nel tennis, in questo caso - per porre rimedio al paterno fallimento.
Una ricerca ossessiva di perfezione che perseguita il tennista come un demone, rovinandone la vita in ogni aspetto:
"Se insegui la perfezione, se fai della perfezione il tuo obiettivo ultimo, sai che succede? Insegui qualcosa che non esiste. Rendi infelici tutte le persone attorno a te. Rendi infelice te stesso. La perfezione? Saranno sì e no cinque in un anno le volte che ti svegli perfetto, le volte che non puoi perdere con nessuno, ma non sono quelle cinque volte che fanno un tennista. O un essere umano, se è per questo. Sono tutte le altre"
Un'ultima considerazione: si potrebbe obiettare che la perfezione in natura esiste. I cristalli di ghiaccio, ad esempio, sono la prova di una perfezione geometrica che lascia senza fiato.
Se questo è vero, se è vero che l'uomo è integrato con la natura, perché all'uomo, allora, la perfezione dovrebbe essere negata?
A chiarirmi il dubbio giunge - come spesso accade - Wisława Szymborska che dedica una poesia alla cipolla:
La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.
In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d’inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.
Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.
La cipolla, d’accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezione.
E a noi resta negata
l’idiozia della perfezione.
Se fossimo perfetti saremmo cipolle, non donne e uomini.
Franco Battiato, Di passaggio
Ma siamo cipolle.
RispondiEliminaNon fisicamente, no, quello no.
Ma esseri di luce siamo noi, non questa materia grezza.
Siamo cipolle mentalmente.
Dove abbiamo un nostro nucleo centrale, chiaro forse solo a noi (ma anche li non del tutto), e tutto il resto protetto da strati diversi a seconda dell'interazione con le persone che orbitano nella nostra vita.
Un po' come le maschere pirandelliane, ma il tutto concentrico nell'idea della cipolla.
Perché poi se ci sfogliano, facciamo piangere... :P