"Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio ero poco più di una bambina, avevo sì due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito, sempre in attesa che qualcosa di bello si configurasse al mio orizzonte. [... ] Insomma ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò [... ] tanto che un giorno [... ] diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un'ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portato in manicomio".
Inizia con queste parole, semplici e crudeli, "L'altra verità. Diario di una diversa" di Alda Merini, un breve testo in cui la poetessa ripercorre gli anni dal 1964 al 1972 passati quasi ininterrottamente nel manicomio "Paolo Pini" di Milano. Leggerle con le studentesse e gli studenti è stato un pugno nello stomaco ben assestato perché, dopo aver letto "Grande meraviglia" di Viola Ardone, affrontare queste parole è equivalso a toccare con mano una storia vera, non romanzata e finalmente smettere di fingere di non vedere l'elefante nella stanza.
La salute mentale è stato considerato spesso un tabù, qualcosa di cui non parlare: per decenni i manicomi sono stati il luogo perfetto per mantenere il silenzio, come il labirinto del palazzo di Cnosso, in cui Minosse poteva nascondere il Minotauro, quel mostro di cui si vergognava, nato - per sua responsabilità - dall'amore tra sua moglie Pasifae e il bellissimo toro bianco che non aveva voluto sacrificare a Poseidone.
Nascondere agli occhi degli altri, fingere di non vedere: è quello che si faceva con i matti, chiusi in queste strutture, sottoposti a trattamenti inumani finalizzati semplicemente a fare in modo che non dessero problemi. Mettere la polvere sotto il tappeto per fingere che la casa sia pulita. Peccato non si trattasse di acari, ma di persone - e spesso di donne - che avevano la sola colpa - se colpa si può chiamare - di essere divergenti, anche solo dalla morale comune o, ancora peggio, di dar fastidio a qualcuno con la loro presenza.
Dal 1978 - anno della cosiddetta legge Basaglia, che impose la chiusura dei manicomi - sono passati oltre 45 anni, ma lo stigma nei confronti dei disturbi psichici è ancora lì. Sono sotto gli occhi di tutti, ma spesso si tende a distogliere lo sguardo e, soprattutto quando si tratta di adolescenti, si tende a derubricare il tutto come qualcosa di passeggero, legato all'età, forse anche ad una moda. Comportandosi in questo modo, però, non si fa altro che utilizzare la propria incapacità di reagire per risolvere il problema che, quindi, viene solo nascosto ma non affrontato, né tantomeno risolto.
In passato - qualcuno potrebbe dire - tutto questo non esisteva e già sento di sottofondo i soliti discorsi tanto inutili quanto irritanti sui bei tempi andati: ciò che caratterizza il passato e lo differenzia dal presente non è il verificarsi o meno di certe situazioni, quanto piuttosto l'impossibilità di parlarne, la mancanza delle parole per esprimersi, la certezza di non essere compresi.
Per fare un esempio, pensiamo a quante persone in un passato anche non troppo remoto hanno nascosto il proprio orientamento sessuale perché diverso rispetto a quello ordinario, ritenendo perciò di essere sbagliati, peccatori, posseduti dal demonio. O a quelle persone che hanno sofferto di attacchi di panico, di ansia o di altri disturbi psichici di cui ora - per fortuna - ci si sente liberi di parlare. O ancora a quelle studentesse e a quegli studenti che venivano considerati asini perché non sapevano leggere o scrivere e magari semplicemente avevano un disturbo specifico dell'apprendimento.
Per decenni, forse per secoli è stata applicata a questi temi quell'idea medievale secondo cui le cose finché non le nomini non esistono: non dare un nome ai comportamenti che deviano dallo standard ed evitare di parlarne se non in termini di condanna è sembrato il modo migliore per mantenere tutto sotto controllo, nei binari stabiliti. D'altra parte, se non si crea un vocabolario per descrivere un sentimento, un problema, un pensiero, se non si hanno le parole per esprimerlo, difficilmente si troverà qualcuno diposto ad accoglierlo, a studiarlo, a tentare di risolverlo.
E mi chiedo quanto senso abbia cercare di capire quale sia l'origine di tutto ciò che rende le persone diverse dal passato: i social, la pandemia, l'iPhone o addirittura - l'ho sentito con le mie orecchie - il cibo del McDonald's... per parlare in termini medici, l'eziologia è importante ma limitarsi a discutere su di essa dà vita a tavoli di lavoro, confronti, convegni, complicate spiegazioni di esperti che tuttavia non aiutano a dare una soluzione concreta.
Forse potrebbero gettare un po' di luce sulla questione le dichiarazioni di due cantanti che hanno partecipato all'ultimo Sanremo, che si conferma specchio nel bene e nel male della società italiana; tra polemiche di geopolitica internazionale, censure e accuse incrociate tra nord e sud del Paese, non sono passate sotto silenzio le parole di Theø, uno dei componenti del gruppo La Sad, e di Sangiovanni.
Il primo ha dichiarato al Corriere: "dopo Sanremo sono stati giorni difficili. Mi sono ritrovato ad affrontare sfide con me stesso, mi sono sentito staccato dalla realtà, di proprietà della massa, e per una persona che soffre di depressione non è facile. Penso sia meglio parlarne con sincerità. Anche nei momenti migliori si può ricadere, ma questo ci renderà ancora più forti".
Sangiovanni, dal canto suo, su un post di Instagram ha espresso la volontà di fermarsi perché si è reso conto di non riuscire più a fingere che vada tutto bene, rinunciando così alla pubblicazione del suo nuovo album ed al concerto previsto al Forum di Assago-
È la voce di due ragazzi che hanno tutto eppure sentono di non essere felici ed hanno il coraggio di ammetterlo. È una testimonianza rispetto alla quale non si può rimanere indifferenti, non fosse altro che per il valore esemplare che assume.
L'esperienza quotidiana mi dà ulteriore conferma di tutto questo: fermarsi a parlare con ragazze e ragazzi apre un mondo insospettabile, fatto di pensieri cupi, consapevolezza e profonda malinconia.
"Sono infelice, eppure so che non dovrei esserlo perché so che c'è gente che sta peggio di me e forse non ho motivi per esserlo davvero" mi dice L. e allora trascorro un'ora a parlare con lei di quanto l'avere tutto non coincida con l'essere felici, di quanto la vera condanna e contemporaneamente la vera forza dell'essere umano sia la sensibilità. Parliamo di genitori che davanti alla sofferenza dei figli piangono o tacciono e mi vengono in mente due personaggi danteschi: Paolo, che non sa far altro che piangere mentre Francesca racconta il loro amore adultero che li ha portati alla dannazione e Ugolino, che alla sofferenza di figli e nipoti ha come unica reazione il silenzio. Parliamo di Kurt Cobain, bellissimo, ricchissimo, con una capacità poetica invidiabile e, nonostante questo, infelice; parliamo di Leopardi e della sua idea di infelicità connaturata all'uomo e con cui l'uomo non può far altro che convivere; mi vengono poi in mente, a proposito del sentire troppo, le parole usate da Lorenzo Marone per descrivere Diego, il protagonista del toccante romanzo Le madri non dormono mai:
Era così, Diego, sentiva il doppio degli altri, l'anima gli vibrava al minimo soffio, studiava chi aveva vicino, faceva caso a tutto, captava i segnali e capiva i punti deboli; s'accorgeva delle mancanze della gente, riconosceva la paura e il turbamento, e bastava uno sguardo a ferirlo, una mezza parola a disturbarlo, viveva in punta di piedi per paura d'offendere, o d'essere offeso. Sapeva del male per eccessiva sensibilità, e s'impegnava per questo a non farlo agli altri, e vivere era per lui una gran fatica, lui che non sapeva quanto durino poco gli animi incapaci di sottrarsi al dolore.
E la domanda che mi pongo è la solita: ci si può prendere cura di tutto ciò con le parole, con la letteratura? Sì, purché diamo alle parole che diciamo e che leggiamo un senso, un peso, un valore: non si può - come dice qualcuno - curare il disagio giovanile con Dante e con Montale, se non a patto di impegnarsi ad attualizzare il loro messaggio e a cogliere le istanze più profonde ed universali che emergono dalle loro parole. Da insegnanti, dovremmo smettere di anteporre l'amore per la nostra disciplina all'amore per i ragazzi ed aiutarli a conoscersi, a comprendersi, a dare significato ciò che li circonda, sfruttando le nostre conoscenze per indicare loro, quando possibile, una strada da percorrere.
E poi far comprendere, soprattutto ai più giovani, che non c'è nulla di strano nei loro pensieri, che li abbiamo fatti anche noi alla loro età e che ci sono cose che, fortunatamente, passano e altre con cui bisogna convivere, come coni d'ombra da cui cercare di non farsi invadere.
Nessun commento:
Posta un commento