04 febbraio 2024

In ascolto

Quasi ogni volta è così. 
Nella mia classe prima cerco di impormi un ordine nella lezione, di evitare le divagazioni: preparo schemi, presentazioni, appunti, case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale, ma poi raramente le cose vanno come avevo previsto.
L'altro giorno volevo parlare di mitologia, ma siamo finiti a parlare di religione, di creazionismo, di complesso edipico, del rapporto tra il mito e la filosofia, del mistero della morte.
Tutto ciò che avevo preparato è servito? No.
Ho avuto la sensazione di aver perso tempo? No.
Riesco ancora a stupirmi quando vedo studentesse e studenti che si avventurano in terreni sconosciuti, impervi, scivolosi, che vogliono sapere, che hanno il coraggio di parlare, di dire la propria - anche in maniera non strutturata e talvolta piuttosto naïf -, di avere (spesso ma non sempre) la pazienza di ascoltarsi guardandosi negli occhi.
Mi stupisco e li ascolto e mi rendo conto che forse è proprio l'ascolto quello che ci manca.

Sigaretta tra le dita, occhiali spessi come fondi di bottiglia, capelli cotonati rosso scuro. 
Mi ricordo la mia maestra che diceva: "Se abbiamo due orecchie e una sola bocca è perché dobbiamo ascoltare il doppio di quanto parliamo".
Queste parole mi ritornano spesso in mente e penso che oltre ad ascoltare dovremmo anche sentire, cioè percepire con i sensi, far risuonare più profondamente quello che passa attraverso le nostre orecchie.
Chandra Livia Candiani, nella sua raccolta che compie ormai dieci anni dal titolo La bambina pugile ovvero la precisione dell'amore scrive questa Mappa per l'ascolto

Dunque, per ascoltare
avvicina all’orecchio
la conchiglia della mano
che ti trasmetta le linee sonore
del passato, le morbide voci
e quelle ghiacciate,
e la colonna audace del futuro,
fino alla sabbia lenta
del presente, allora prediligi
il silenzio che segue la nota
e la rende sconosciuta
e lesta nello sfuggire
ogni via domestica del senso.

Accosta all’orecchio il vuoto
fecondo della mano,
vuoto con vuoto.
Ripiega i pensieri
fino a riceverle in pieno
petto risonante
le parole in boccio.

Per ascoltare bisogna aver fame
e anche sete,
sete che sia tutt’uno col deserto,
fame che è pezzetto di pane in tasca
e briciole per chiamare i voli,
perché è in volo che arriva il senso
e non rifacendo il cammino a ritroso,
visto che il sentiero,
anche quando è il medesimo,
non è mai lo stesso
dell’andata.

Dunque, abbraccia le parole
come fanno le rondini col cielo,
tuffandosi, aperte all’infinito,
abisso del senso.

Talvolta le parole degli altri sono un budubumbudubum di sottofondo, senza senso, non ci arricchiscono ma ci stordiscono, ci distolgono dai nostri pensieri, ci allontanano da noi stessi e dalla realtà.

Altre volte, però, ascoltare, ascoltarsi ed essere ascoltati salva.

Ascoltarsi ed essere ascoltati salva da noi stessi, dalle nostre elucubrazioni da overthinker: ci fa sentire meno soli, ci fa percepire delle affinità elettive che rimarrebbero sottotraccia. Ascoltare ci rende anche salvatori inconsapevoli degli altri: una telefonata inattesa, in cui non si dice niente ma in quel niente c'è tutto: c'è la presenza reciproca, c'è la fiducia nella capacità di ascoltare anche il non detto. Tutto sta a cogliere quel movimento - talvolta impercettibile - degli occhi, quel sospiro, quel piccolissimo spostamento d'aria che dice "Ascoltami" oppure "Ti ascolto" e sperare che incrocino le loro traiettorie.
Ascoltare è accogliere, è stabilire un’intimità profondissima

Ascoltare serve ad imparare l'esercizio del dubbio, ad accogliere i diversi punti di vista; come una buona lettura, ci permette di guardare le cose da un'angolazione diversa, sorprendente e vivere un'altra vita. Una delle cose più belle che mi sono sentito dire da un alunno, al termine di una di questi nostri dialoghi è stato che, in queste discussioni, ascoltando le posizioni di tutti, è difficile prendere una posizione netta se non dopo una attenta riflessione. Ha 14 anni, questo alunno e non posso non volergli bene. Per inciso, il libro che abbiamo appena finito di leggere e che consiglio spassionatamente (“Mia” di Antonio Ferrara) è una vera palestra di ascolto perché è il racconto di un femminicidio fatto, però, dalla parte del carnefice.
 
Che poi mi chiedo: che fine fanno le parole non ascoltate? Forse finiscono insieme alle parole non dette, ai sentimenti non esternati, agli abbracci non dati. Me lo immagino un posto buio, triste, pieno di "se avessi fatto", "se avessi detto", "se avessi ascoltato".
Un posto decisamente da non frequentare.



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