È per questa guerra dei numeri che ci siamo lasciati.
Dopo vent'anni, per caso ci incontriamo per strada. Sei sempre bellissima. È bastato guardarci:
tu volevi dirmi che avevi capito che due più due può fare cinque e anche sei,
io volevo dirti che avevo capito perché due più due fa sempre solo quattro.
Mi sono imbattuto - come spesso avviene - quasi per caso nel libro L'arte di legare le persone di Paolo Milone e sono inciampato in queste parole che mi hanno stordito.
In questi giorni si sta parlando tanto e forse troppo di educazione all'affettività: dico "troppo" perché ormai conosco il genere umano, almeno quello dell'italico ceppo e so che tutta questa attenzione che ora è concentrata sui temi dell'affettività, della parità di genere, dei diritti delle donne sarà presto messa da parte per permetterci di concentrarci su temi altrettanto importanti e socialmente significativi come la lista dei cantanti che parteciperanno al prossimo Sanremo, il documentario su Ilary Blasi, l'affaire Pino Insegno o l'annosa questione panettone o pandoro.
A me, invece, piace soffermarmi, essere fuori tempo, analizzare, la mente indaga accorda disunisce (per citare Montale); chiudo gli occhi per ascoltare, per cercare il silenzio e provare a capire e poi li riapro, constatando amaramente che intorno a me le persone stanno guardando in un'altra direzione.
Le parole di Milone mi hanno fatto riflettere sul fatto che la cosa che sarebbe più utile diffondere è la capacità di indossare gli occhi degli altri e di relativizzare il proprio punto di vista.
Siamo abituati alla cultura del per me è così, è sempre stato così e in questo modo alimentiamo storture e pregiudizi che ci portiamo avanti da anni, decenni, secoli.
Ora, capisco che ragionare per stereotipi possa essere economicamente vantaggioso per il nostro cervello ma mi pongo una domanda: a cosa ci serve tutta l'intelligenza di cui potenzialmente siamo dotati se andiamo avanti per schemi precostituiti?
È difficile, difficilissimo assumere un punto di vista altro rispetto al nostro: lo è perché, per quanto pieni di buone intenzioni e di amore per il prossimo, tendiamo a costruire intorno a noi una circonferenza di cui siamo il centro. Il diametro di questa circonferenza può essere lungo quanto si vuole, ma noi ne restiamo - giustamente - il centro. Decentrarsi, distogliere anche solo per un attimo la nostra attenzione dal nostro ombelico richiede un grande sforzo ma potrebbe essere utile per riuscire a comprendere davvero gli altri: è questa la tanto sbandierata empatia, termine che vuol dire proprio entrare nel sentimento altrui, diverso e più pregnante rispetto alla simpatia etimologicamente intesa che allude più semplicemente alla condivisione di un sentimento.
Piccola postilla: spesso la conoscenza e la comprensione di noi stessi è altrettanto precaria quanto la conoscenza e la comprensione degli altri. Vorremmo che gli altri ci comprendessero quando magari noi siamo i primi ad essere sconosciuti a noi stessi. Noi stessi siamo convinti di volere cose che non vogliamo e di essere persone che non siamo. Ma questo è un altro discorso.
Come credo di aver già scritto altre volte, accogliere l'altro, i suoi silenzi, le sue paure può essere un modo per indossare la sua pelle: si parte dal piccolo, dal minuscolo, dalla nostra realtà, dalle persone che abbiamo sempre visto ma non abbiamo mai guardato.
Accettare che per qualcuno due più due possa fare cinque e anche sei non vuol dire dover rinunciare a pensare che il risultato sia quattro ma semplicemente aprirsi alle possibilità, valutare le opzioni possibili, magari anche per tornare con maggiore decisione sui propri passi. Ma soprattutto vuol dire evitare la guerra dei numeri di cui parla Milone, che lascia sul campo tante vittime e nessun vincitore.
Calcutta, Tutti
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