La ricreazione è il momento che amo di più.
Lo amo da docente, perché, nella scuola che ho frequentato, negli anni in cui l'ho frequentata, la ricreazione non c'era per cui eri costretto a mangiare in perfetto stile Fantozzi nella clinica dimagrante e a trattenerla il più possibile fino a vincere il prestigiosissimo premio vescica d'oro.
Dicevo, amo la ricreazione perché vedo le studentesse e gli studenti della mia scuola che vagano per i corridoi, riprendendo quel vecchio rituale che dalle mie parti si chiama fare lo struscio, altrove si chiama fare le vasche: detto in parole povere, continuano a girare in senso antiorario nei corridoi della scuola guardandosi attorno e facendosi guardare.
Ovviamente tutto questo riguarda solo i più spigliati: gli altri sono in aula solitamente a giocare, qualcuno a chiacchierare con una cerchia ristretta di compagni e vi posso giurare di aver visto l'altro giorno una ragazza che leggeva un libro durante l'intervallo. Un libro, capite? Avrei voluto andare lì ad abbracciarla.
Guardo questo rituale e noto qualcosa che mi colpisce: ognuno cerca di emergere, di uscire dalla massa, di giocare le sue carte migliori in una sorta di speed date perpetuo dove solo chi si fa notare ha possibilità di sopravvivere.
L'impressione è quasi quella di una lotta darwiniana alla sopravvivenza e penso inevitabilmente al mondo naturale (grazie, Piero Angela! Sei stato l'unico a dare uno sprazzo di scienza alla mia vita da triste letterato!): penso ai fiori dai colori sgargianti finalizzati a farsi notare dalle api o agli uccelli dai piumaggi variopinti che li rendono preferibili in una selezione a fini riproduttivi. Una perenne competizione, quindi, che vedrà uno prevalere sugli altri.
Competizione è un termine strano perché, etimologicamente, non ha in sé alcuna idea di graduatoria ma solamente di andare nella stessa direzione (pètere) insieme (cum), per raggiungere uno stesso fine, tipo Gianmarco Tamberi e Mutaz Barshim che, alle Olimpiadi di Tokyo del 2021, decisero di concludere la gara a pari merito aggiudicandosi entrambi l'oro. Questa è l'immagine perfetta di una competizione in senso etimologico all'interno di una competizione nel senso che la parola ha assunto nel linguaggio quotidiano. D'altra parte, come diceva l'ingegnere americano William Edwards Deming, la competizione porta alla sconfitta. Persone che tirano la corda in due direzioni opposte si stancano e non arrivano da nessuna parte.
Guardando le studentesse e gli studenti, sorrido, penso che sia necessaria tutta l'energia propria della adolescenza per vivere così e tiro un sospiro di sollievo all'idea di aver superato più o meno indenne quella fase della mia vita; la cosa si fa più inquietante quando vedo questi atteggiamenti nei miei coetanei che spesso assumono l'aspetto di patetici pavoni che fanno la ruota con la coda un po' scolorita, in un delirio di (presunta) perpetua giovinezza, nel tentativo di prevalere sugli altri.
Per carità, non c'è nulla di male in assoluto nel volersi affermare, nell'ambizione (altro termine etimologicamente interessante), ma credo che ad un certo punto della propria vita ci si dovrebbe sentir liberi di uscire dalla competizione, rinunciare al piumaggio da acchiappo (all'uomo è data questa possibilità che è preclusa all'animale) e dedicarsi ad altro, al perfezionamento individuale, alla cura dei rapporti umani, al proprio benessere fisico e mentale. O, in alternativa, per citare l'amato Pirandello, diventare forestiere della vita, colui che, avendo capito le regole del gioco e la loro assurdità, si isola e guarda gli altri giocare. Detta così, sembrerebbe quasi che ci si debba trasformare negli umarell che, mani incrociate dietro la schiena, osservano i lavoratori dei cantieri scuotendo la testa perché loro, quel lavoro, lo avrebbero fatto diversamente, ma, in realtà, nella rinuncia alla competizione c'è anche altro: c'è indulgenza verso sé stessi, le proprie mancanze e i propri errori, ma anche voglia di essere (e non di mostrarsi) e di dare la giusta e meritata attenzione all'unica persona con cui, volenti o nolenti, dovremo passare la nostra intera vita: noi stessi.
Francesco De Gregori, La leva calcistica della classe '68
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