31 agosto 2025

Il dito davanti

- Sarà pronto tra una settimana
- Ma come una settimana?!
- Sì, sono tanti i rullini da sviluppare. Devi avere pazienza.
Quanto odiavo quella frase.
Era frustrante, a fine agosto, aspettare il giorno in cui il fotografo ti avrebbe consegnato le foto.
Quelle giornate lunghe di inizio settembre sembravano non passare mai: giorni vuoti di cose da fare ma pieni di nostalgia delle cose fatte, i compiti ancora da iniziare, l'idea di essere in un momento di passaggio, il tempo che trascorreva immobile.
Leggevo la cartoline che mi avevano inviato, pensavo alle occasioni (più quelle perse che quelle colte) e aspettavo.
Ma poi arrivava inesorabilmente il giorno.
Fremevo, nella breve strada assolata che dovevo percorrere per arrivare nel negozio.
Mi accoglieva il rumore di grandi macchinari e un odore un po' acido che - credo - il mio olfatto riconoscerebbe ancora.
Ho la busta tra le mani: la apro e sono felice.

Foto mosse, foto brutte, foto che non ricordavo di aver scattato, foto che è meglio non far vedere a mamma e papà, foto in parte bruciate.
E poi non mancavano mai le foto in parte coperte dal dito davanti all'obiettivo.
In ogni rullino ce n'era almeno una ed ho ancora netta la sensazione dello sforzo di ricordare cosa ci fosse dietro quel dito, cosa mi stesse nascondendo. 
Erano spesso inutili, quelle foto, ma non le strappavo.
Erano un omaggio all'imprecisione.

Cos'è rimasto, oggi, di quella imprecisione?
Ossessionati dalle foto aesthetic, non ci sentiamo soddisfatti fino a quando la foto non è perfetta per essere mostrata. Sorrisi forzati, pose studiate, inquadrature sempre uguali: e poi? Che valore ha la foto? Perde il suo valore evocativo e diventa solo una testimonianza di ciò che volevamo apparire in quel momento. Guarda come ero felice in quella foto: peccato che - magari - quel sorriso era solo una maschera con cui ingannare gli altri, ma mai noi stessi.
Cancelliamo le foto mosse, brutte, non conformi perché occupano spazio nei nostri smartphone e ci creiamo in questo modo una memoria artificiale fatta solo di bellezza e di perfezione.
Non lasciamo traccia di ciò che non è né bello né perfetto, rimuoviamo i dispiaceri e diventiamo sempre meno pronti ad affrontare la noia, il brutto, il dolore.
In un momento di evoluzione sociale in cui apparentemente normalizziamo tutto, non sembriamo disposti ad accettare anche ciò che non è opportuno mostrare. Normalizziamo tutto, ma non le scene tagliate - i ciak sbagliati - della nostra vita.

Nel racconto L'avventura di un fotografo, Italo Calvino scrive:

Il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata, è brevissimo. Se fotografate Pierluca mentre fa il castello sabbia, non c'è ragione di non fotografarlo mentre piange perché il castello è crollato, e poi mentre la bambinaia lo consola facendogli trovare in mezzo alla sabbia un guscio di conchiglia. Basta che cominciate a dire di qualcosa «Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!» e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia

Ma soprattutto, che fine hanno fatto coloro che sviluppavano le foto?

Carl Brave feat. Francesca Michielin e Fabri Fibra, Fotografia

17 agosto 2025

La libertà di non essere inquadrati

Ma agosto, esiste davvero?
Ma esiste davvero, agosto?
E dove si nasconde
quando agosto non è?

Rileggevo l'altro giorno questi versi di Valerio Magrelli, mio guru poetico, contenuti nella sua più recente raccolta poetica, "Exfanzia", pubblicata da Einaudi nel 2022.
Leggevo e pensavo a questo mese crudele, che acuisce le differenze e la solitudine, dietro una facciata sfacciatamente sorridente.
Pensavo a questo mese di vacanza ma anche alla furia classificatoria di cui ultimamente siamo vittime.
Ho letto della staycation e ho iniziato ad avvertire come un prurito, un leggero brivido che ha attraversato la mia spina dorsale in tutta la sua lunghezza.
Ma cos'è la staycation?

È banalmente un modo piuttosto figo - perché l'inglese fa sempre figo - per indicare che si passano le vacanze a casa perché non si hanno soldi da spendere.
Sapere che si fa parte del 25% di italiani che in estate non va da nessuna parte forse ci fa sentire meno soli o meno inadatti: la situazione in cui ci trova non diventa certamente meno deprimente ma, classificati in questo modo, ci sentiamo parte di un gruppo che ha un proprio nome, è socialmente riconosciuto e quindi accettato e - se ben infiocchettato - anche desiderabile perché permette di perseguire quella vita lenta - altra espressione che fa tanto Instagram; inoltre la staycation permette anche, a chi lo voglia, di ergersi moralmente al di sopra di chi va in luoghi vittime dell'overtourism (altro problema davvero serio che però sta diventando una lotta da social e, quindi, svuotata dall'interno) e di ridere delle lacrime dei balneari per la stagione di stenti e privazioni che stanno attraversando.
Quindi la forma modifica la sostanza e fa diventare cool una situazione che spesso capita per motivi indipendenti dalla volontà di chi si trova a viverla. 
Avere un etichetta da metterci addosso, come prodotti da supermercato, ci fa sentire parte di un gruppo e il paradosso è che in un'epoca di individualismo sfrenato come quella che stiamo attraversando sembra che non possiamo vivere se non siamo all'interno di contesti ben definiti.
Novelli Adamo, diamo un nome a tutto: ad ogni nuova tendenza, ogni nuovo genere musicale, ogni sentimento, ogni modo di pensare, di mangiare, di vivere diamo un nome. E se da una parte è positivo - perché le cose iniziano ad esistere quando vengono nominate - dall’altra capita di dare la dignità dell’esistenza a cose che potrebbero e dovrebbero anche scomparire velocemente.
Irrefrenabili Linneo, classifichiamo tutto e, classificando, semplifichiamo e, semplificando, ci disabituiamo alla complessità e alla diversità.
Tutto deve rientrare in schemi fissi, moltiplicabili all'infinito ma inesorabilmente fissi; ciò che non rientra in categorie già esistenti, crea una categoria a sé con le proprie definizioni e i propri limiti. Cerchiamo affannosamente una categoria in cui rientrare, in cui riconoscerci e siamo disposti a limarci, a modificarci pur di rientrare negli standard di quella precisa categoria.

E mi vengono in mente le parole di Italo Svevo che nel saggio L’uomo e la teoria darwiniana scriveva questo:
“Nella maggioranza degli uomini lo sviluppo per loro fortuna e per fortuna dell’ambiente sociale, s’arresta. Lo sviluppo eccessivo di qualità inferiori, tutte quelle che immediatamente servono alla lotta per la vita, non sono altro che arresto di sviluppo. [...]. Io credo che l’animale più capace ad evolversi sia quello in cui una parte è in continua lotta con l’altra per la supremazia, e l’animale, ora e nelle generazioni future, abbia conservata la possibilità di evolversi da una parte o dall’altra in conformità a quanto gli sarà domandato dalla società di cui nessuno può ora prevedere i bisogni e le esigenze. Nella mia mancanza assoluta di uno sviluppo marcato in qualsivoglia senso io sono quell’uomo. Lo sento tanto bene che nella mia solitudine me ne glorio altamente e sto aspettando sapendo di non essere altro che un abbozzo.”

Essere abbozzi di uomini, non cercare una forma fissa e soprattutto ammettere sinceramente anche a sé stessi che se non si va in vacanza magari è perché non si hanno soldi o tempo o compagnia. O, ancora meglio, sentirsi liberi di non doversi giustificare per il fatto di non essere inquadrati.
Sarà questa la libertà?

Franco Battiato, Zone depresse


03 agosto 2025

Lo sbilico

Sicuramente l'ho già scritto in queste pagine: ci illudiamo di scegliere i libri da leggere, ma - tranne quando ci vengono imposti - sono i libri a scegliere noi. Ed è forse questo il motivo per cui Pennac, nell'incipit del  suo saggio Come un romanzo, afferma perentoriamente che il verbo leggere non sopporta l'imperativo. Non possiamo leggere se non siamo scelti, o almeno richiamati da qualche libro come Odisseo dalle Sirene.
Mi è successo di nuovo.
Lunedì ero nella mia libreria del cuore ed improvvisamente mi torna alla mente il titolo di un romanzo: "Lo sbilico". Sicuramente me ne ha parlato qualcuno, ma l'informazione era stata messa da parte.
Lo chiedo.
Ce lo hanno.
Torno a casa.
Lo divoro letteralmente.
Mi viene solo un aggettivo per descrivere questo libro di Alcide Pierantozzi: necessario.

È un libro necessario perché permette a chi sfoglia queste pagine di entrare a fondo nella mente di una persona neurodivergente e con disabilità psichica.
Ma è anche un libro duro, che non normalizza, che non fa sconti, che non romanticizza la malattia mentale, ma la sbatte in faccia e non permette di girarsi dall'altra parte.
Questo libro - scrive Pierantozzi nella nota che accompagna il romanzo - è stato scritto in presa diretta, quasi come un diario di bordo della malattia, e racconta una verità molto spesso alterata dai farmaci e dai miei scompensi emotivi. [...] Questo non è un libro di autofiction.
Tutto vero, quindi, anche quando non è verosimile; tutto vero, quindi, ma chi legge deve avere la consapevolezza che ciò che legge non per forza è la verità, un po' come quando si affronta la lettura di quel caposaldo del Novecento che è La coscienza di Zeno
Il narratore che racconta - Zeno - è, come è stato detto dalla critica, un narratore inattendibile: il patto narrativo con il lettore è rotto in maniera irreversibile, non ci si può fidare di ciò che si legge ma bisogna esercitare il senso critico per capire ciò che è vero e ciò che non lo è.
Nel caso del romanzo di Pierantozzi, invece, si ha la percezione che sia vero anche ciò che palesemente vero non è: la descrizione delle allucinazioni del protagonista colpisce diretta la fantasia di chi legge, che percepisce la realtà di quelle immagini con la stessa forza con cui - forse - le ha percepite chi le racconta.
E il coinvolgimento del lettore è parte essenziale di questo libro.

Noi matti non abbiamo solo il diritto di essere soccorsi dai sani, ma anche il dovere di inceppare ogni giorno il mondo per metterlo in discussione ai loro occhi.

Il linguaggio è allo stesso tempo preciso e violento e rievoca la costruzione della realtà narrata che si ritrova nelle poesie di Alda Merini e Clemente Rebora o nei Canti Orfici di Dino Campana.
Ti perfora le narici l'odore di varichina e sapone di Marsiglia con cui il protagonista lava la schiena della nonna in campagna; quasi ti arrivano in faccia gli schizzi di sangue degli animali che vengono uccisi in campagna con una crudeltà quasi ancestrale; percepisci nel petto i bassi della musica assordante che arriva dallo stabilimento balneare mentre il protagonista sta cercando di scrivere. Ti sembra di vederlo quel polso che si muove continuamente; ti sembra di sentirlo quel vivivivivivi che fa sembrare il protagonista un handicappato.
È un libro che ti sfida, che ti costringe ad imparare parole nuove, quelle che servono per descrivere sensazioni mai provate perché l'indescrivibilità non esiste, bisogna solo attendere le parole giuste.
La ricerca della parola, quindi, non è mai fine a sé stessa: la parola giusta descrive e al contempo salva.
Dopo essere entrato in contatto - in maniera a dir poco rocambolesca - con un dizionario dei sinonimi e dei contrari, l'autore racconta come quella lettura gli abbia cambiato la vita:

Mi attirava che le parole non fossero organizzate in un ragionamento. Potevo pescarne una a caso e leggerla senza dover seguire per forza l'ordine alfabetico. Quando leggevo cosí, il ticche e tacche dei pensieri si fermava, i mille canali aperti della mia mente si chiudevano, e un senso di ristoro mi penetrava.
Non capivo il significato di quasi nessuna parola. Non m'interessavano quelle facili, «casa», «topo», «ospedale», mentre le alternative dei sinonimi mi sconvolgevano.
La sera, quando tornavo dai campi, mi lavavo in una grande bagnarola azzurra che nonna lasciava scaldare al sole per tutto il pomeriggio. Era la stessa dove venivano messi i pomodori da cuocere per le conserve. Me ne stavo a mollo nell'acqua tiepida, in un retrodore di sugo e solventi, e pensavo a quelle parole.
- «Casa» si può dire anche «abituro, casaleccia, tugu-rio», - declamavo a voce alta. Non ero in grado di cogliere le diverse sfumature di significato, se non qualche volta, per intuito. M'interessava solo il suono. - «Complimento» si può dire anche «elogio, lode, omaggio». 
Conoscevo la parola «lode», e cosí cominciavo a capire che quando nonna mi faceva un complimento mi stava facendo anche una lode. M'insaponavo il collo dietro le orecchie ripetendo: - Anima, animula, spirito, essenza.
Ritmi precisi, accenti ben cadenzati. Diversi dal dialetto che si parlava in famiglia. Ogni parola del libretto, a leggerla a voce alta, sembrava ispessirsi di suono. Ogni parola era intera, non si spezzava come quelle che usavamo noi: «anda'», «fa'», «corre», «perde»..
A casa nostra si parlava un dialetto talmente stretto e antiquato da sfiorare il latinorum. Dove non arrivava il mugugno, la sbuffata, la bestemmia, le parole si spampanavano in un «Scí!» «Muvet!» «Piia quest e piia quell!»
Per tutt'altro verso riconoscevo che ciascuna parola del dirionarietto voleva indicarmi qualcosa di preciso. Quando le ripetevo al posto del «didin», sentivo che mi facevano da filtro, mi tenevano alla giusta distanza emotiva dalle cose. Dire «gronda» al posto di «grondaia» non era per niente la stessa cosa: «gronda» richiamava su di sé un'attenzione che mi distoglieva dalla risonanza lirica della grondaia in sé, della sua consistenza di lamiere, della sua forma sinusoidale altrimenti ingestibile per i miei sensi.
[...]
Mi accorsi che ripetere quelle strane parole mi piaceva fisicamente: avevano qualcosa di multisonante, qualcosa che riusciva a drenare il marcio attraverso lo strato corneo della pelle. Non avevo nessun interesse a usarle, non leggevo niente a parte le poesie di scuola, ma quelle parole nella mia testa azzurreggiavano, e inevitabilmente cominciarono a entrare nei miei discorsi. Le insegnanti non capivano da dove le tirassi fuori, i miei nonni mi dicevano "parla normale", i compagni di scuola ridevano. Quelle parole medicamentose, impazienti di essere comprese, pronte a diventare un mezzo, io le consideravo un fine, il compimento di un risultato.

E poi c'è la figura della madre, salvifica, quella del padre, il Negazionista, il fratello con una cosina sulla mano e l'altro fratello, vittima di tutta questa situazione; e i nonni, i medici e tutto il microcosmo che ha come centri di gravità Milano e l'Abruzzo, la palestra, la spiaggia e la biblioteca, in cui il protagonista si muove e di cui ad un certo punto anche chi legge entra a far parte.

Un libro necessario, duro, sfidante, con cui - soprattutto in questi tempi - credo sia indispensabile fare i conti.

Alcide Pierantozzi, Lo sbilico, Einaudi 2025

Fabrizio de André, Un matto

Quel momento dell'anno

Finalmente è arrivato quel momento dell'anno. A breve il rumore della pallina che batte sui racchettoni sarà solo un ricordo. Dimentiche...