03 agosto 2025

Lo sbilico

Sicuramente l'ho già scritto in queste pagine: ci illudiamo di scegliere i libri da leggere, ma - tranne quando ci vengono imposti - sono i libri a scegliere noi. Ed è forse questo il motivo per cui Pennac, nell'incipit del  suo saggio Come un romanzo, afferma perentoriamente che il verbo leggere non sopporta l'imperativo. Non possiamo leggere se non siamo scelti, o almeno richiamati da qualche libro come Odisseo dalle Sirene.
Mi è successo di nuovo.
Lunedì ero nella mia libreria del cuore ed improvvisamente mi torna alla mente il titolo di un romanzo: "Lo sbilico". Sicuramente me ne ha parlato qualcuno, ma l'informazione era stata messa da parte.
Lo chiedo.
Ce lo hanno.
Torno a casa.
Lo divoro letteralmente.
Mi viene solo un aggettivo per descrivere questo libro di Alcide Pierantozzi: necessario.

È un libro necessario perché permette a chi sfoglia queste pagine di entrare a fondo nella mente di una persona neurodivergente e con disabilità psichica.
Ma è anche un libro duro, che non normalizza, che non fa sconti, che non romanticizza la malattia mentale, ma la sbatte in faccia e non permette di girarsi dall'altra parte.
Questo libro - scrive Pierantozzi nella nota che accompagna il romanzo - è stato scritto in presa diretta, quasi come un diario di bordo della malattia, e racconta una verità molto spesso alterata dai farmaci e dai miei scompensi emotivi. [...] Questo non è un libro di autofiction.
Tutto vero, quindi, anche quando non è verosimile; tutto vero, quindi, ma chi legge deve avere la consapevolezza che ciò che legge non per forza è la verità, un po' come quando si affronta la lettura di quel caposaldo del Novecento che è La coscienza di Zeno
Il narratore che racconta - Zeno - è, come è stato detto dalla critica, un narratore inattendibile: il patto narrativo con il lettore è rotto in maniera irreversibile, non ci si può fidare di ciò che si legge ma bisogna esercitare il senso critico per capire ciò che è vero e ciò che non lo è.
Nel caso del romanzo di Pierantozzi, invece, si ha la percezione che sia vero anche ciò che palesemente vero non è: la descrizione delle allucinazioni del protagonista colpisce diretta la fantasia di chi legge, che percepisce la realtà di quelle immagini con la stessa forza con cui - forse - le ha percepite chi le racconta.
E il coinvolgimento del lettore è parte essenziale di questo libro.

Noi matti non abbiamo solo il diritto di essere soccorsi dai sani, ma anche il dovere di inceppare ogni giorno il mondo per metterlo in discussione ai loro occhi.

Il linguaggio è allo stesso tempo preciso e violento e rievoca la costruzione della realtà narrata che si ritrova nelle poesie di Alda Merini e Clemente Rebora o nei Canti Orfici di Dino Campana.
Ti perfora le narici l'odore di varichina e sapone di Marsiglia con cui il protagonista lava la schiena della nonna in campagna; quasi ti arrivano in faccia gli schizzi di sangue degli animali che vengono uccisi in campagna con una crudeltà quasi ancestrale; percepisci nel petto i bassi della musica assordante che arriva dallo stabilimento balneare mentre il protagonista sta cercando di scrivere. Ti sembra di vederlo quel polso che si muove continuamente; ti sembra di sentirlo quel vivivivivivi che fa sembrare il protagonista un handicappato.
È un libro che ti sfida, che ti costringe ad imparare parole nuove, quelle che servono per descrivere sensazioni mai provate perché l'indescrivibilità non esiste, bisogna solo attendere le parole giuste.
La ricerca della parola, quindi, non è mai fine a sé stessa: la parola giusta descrive e al contempo salva.
Dopo essere entrato in contatto - in maniera a dir poco rocambolesca - con un dizionario dei sinonimi e dei contrari, l'autore racconta come quella lettura gli abbia cambiato la vita:

Mi attirava che le parole non fossero organizzate in un ragionamento. Potevo pescarne una a caso e leggerla senza dover seguire per forza l'ordine alfabetico. Quando leggevo cosí, il ticche e tacche dei pensieri si fermava, i mille canali aperti della mia mente si chiudevano, e un senso di ristoro mi penetrava.
Non capivo il significato di quasi nessuna parola. Non m'interessavano quelle facili, «casa», «topo», «ospedale», mentre le alternative dei sinonimi mi sconvolgevano.
La sera, quando tornavo dai campi, mi lavavo in una grande bagnarola azzurra che nonna lasciava scaldare al sole per tutto il pomeriggio. Era la stessa dove venivano messi i pomodori da cuocere per le conserve. Me ne stavo a mollo nell'acqua tiepida, in un retrodore di sugo e solventi, e pensavo a quelle parole.
- «Casa» si può dire anche «abituro, casaleccia, tugu-rio», - declamavo a voce alta. Non ero in grado di cogliere le diverse sfumature di significato, se non qualche volta, per intuito. M'interessava solo il suono. - «Complimento» si può dire anche «elogio, lode, omaggio». 
Conoscevo la parola «lode», e cosí cominciavo a capire che quando nonna mi faceva un complimento mi stava facendo anche una lode. M'insaponavo il collo dietro le orecchie ripetendo: - Anima, animula, spirito, essenza.
Ritmi precisi, accenti ben cadenzati. Diversi dal dialetto che si parlava in famiglia. Ogni parola del libretto, a leggerla a voce alta, sembrava ispessirsi di suono. Ogni parola era intera, non si spezzava come quelle che usavamo noi: «anda'», «fa'», «corre», «perde»..
A casa nostra si parlava un dialetto talmente stretto e antiquato da sfiorare il latinorum. Dove non arrivava il mugugno, la sbuffata, la bestemmia, le parole si spampanavano in un «Scí!» «Muvet!» «Piia quest e piia quell!»
Per tutt'altro verso riconoscevo che ciascuna parola del dirionarietto voleva indicarmi qualcosa di preciso. Quando le ripetevo al posto del «didin», sentivo che mi facevano da filtro, mi tenevano alla giusta distanza emotiva dalle cose. Dire «gronda» al posto di «grondaia» non era per niente la stessa cosa: «gronda» richiamava su di sé un'attenzione che mi distoglieva dalla risonanza lirica della grondaia in sé, della sua consistenza di lamiere, della sua forma sinusoidale altrimenti ingestibile per i miei sensi.
[...]
Mi accorsi che ripetere quelle strane parole mi piaceva fisicamente: avevano qualcosa di multisonante, qualcosa che riusciva a drenare il marcio attraverso lo strato corneo della pelle. Non avevo nessun interesse a usarle, non leggevo niente a parte le poesie di scuola, ma quelle parole nella mia testa azzurreggiavano, e inevitabilmente cominciarono a entrare nei miei discorsi. Le insegnanti non capivano da dove le tirassi fuori, i miei nonni mi dicevano "parla normale", i compagni di scuola ridevano. Quelle parole medicamentose, impazienti di essere comprese, pronte a diventare un mezzo, io le consideravo un fine, il compimento di un risultato.

E poi c'è la figura della madre, salvifica, quella del padre, il Negazionista, il fratello con una cosina sulla mano e l'altro fratello, vittima di tutta questa situazione; e i nonni, i medici e tutto il microcosmo che ha come centri di gravità Milano e l'Abruzzo, la palestra, la spiaggia e la biblioteca, in cui il protagonista si muove e di cui ad un certo punto anche chi legge entra a far parte.

Un libro necessario, duro, sfidante, con cui - soprattutto in questi tempi - credo sia indispensabile fare i conti.

Alcide Pierantozzi, Lo sbilico, Einaudi 2025

Fabrizio de André, Un matto

Lo sbilico

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