Non posso farci niente.
La visione che le studentesse e gli studenti hanno di me cambia sensibilmente in base alla materia che sto spiegando in quel momento: quando parliamo di letteratura, mi vedono carino e coccoloso come Winnie the Pooh; quando si fa latino o grammatica italiana credo che, nella loro testa, il mio ingresso in aula sia accompagnato dalla colonna sonora del film "Lo squalo".
Temutissima verifica di analisi del periodo, l'altro giorno: sto consegnando i fogli e mi sembra di essere in chiesa visto che c'è chi si fa il segno della croce, chi prega e chi, mentre passo tra i banchi, cerca di darmi un'offerta.
Arrivo al suo banco: mi accorgo che sul suo foglio protocollo (cioè, sul foglio strappato dal centro del quaderno che fingiamo sia protocollo) ha segnato in matita una serie di informazioni che avrebbe dovuto conoscere.
Mi guarda. La guardo.
A quel punto mi sono trovato davanti ad un bivio: do il via ad una scena madre sulla correttezza, la fiducia e blablabla oppure le tolgo il foglio senza dire una parola.
L'istinto mi avrebbe suggerito di seguire la prima via, la ragione la seconda.
Ho seguito la seconda, non lasciando spazio all'ira.
Mi sono tornate in mente le parole del mio saggio di riferimento, ovvero Seneca a cui era capitato di avere a che fare con gente che tendeva a farsi prendere un tantino da questo sentimento (per non dire pazzi furiosi). Due nomi su tutti: Caligola e Nerone.
Scrive Seneca:
Alcuni saggi definiscono l'ira "un momento di pazzia": come quella, infatti, è incapace di controllarsi, incurante delle convenienze, insensibile ai rapporti sociali, cocciuta ed ostinata nelle sue iniziative, preclusa alla ragione ed alla riflessione, pronta a scattare per motivi inconsistenti, inetta a distinguere il giusto e il vero, quanto mai somigliante a quelle macerie che si frantumano sopra ciò che hanno travolto.
Nessun vizio, continua il filosofo, è più detestabile o schifoso di questo che - a differenza degli altri - non può essere nascosto ma si manifesta nel viso e negli atti di chi lo prova.
Nessuna calamità è costata più cara al genere umano. Vedrai uccisioni ed avvelenamenti, reciproche infamie di colpevoli, distruzioni di città e stragi di intere popolazioni, vite di capi di Stato messe in vendita all'asta pubblica, fiaccole gettate nelle case, incendi non limitati alla cerchia delle mura, ma immense distese di territorio, rilucenti di fiaccole nemiche.
Sbaglia chi confonde l'ira con lo slancio e la decisione così come sbaglia chi pensa che l'ira possa essere controllata: questo sentimento, infatti, non accetta regole e non può - proprio per sua natura - essere sottoposto alla ragione, perché - dice Seneca - la sua caratteristica è la ribellione.
Oltretutto, una volta che si è impossessata del nostro corpo, è quasi impossibile sottrarvisi: l'ira ci pervade, ci comanda e ci spinge a commettere atti inumani.
Cosa fare allora?
Combatti tu contro te stesso; se vuoi vincere l'ira, essa non può vincere te. Cominci a vincere quando rimane nascosta, quando non le dai sfogo. Seppelliamone i segni e, per quanto possibile, teniamola occulta, segreta. Ciò comporterà per noi grave molestia, perché essa desidera balzare fuori, accenderci gli occhi e mutarci il volto, ma se le permettiamo di uscire da noi, diventa più forte di noi. Nascondiamola nel più profondo recesso del petto e portiamola con noi, non lasciamoci portare. Anzi volgiamo al contrario tutti i suoi indizi: il volto sia disteso, la voce si faccia più blanda, il passo più lento; l'interno, a poco a poco, si plasma sull'esterno.
Tutto ciò sembra inapplicabile in un mondo in cui - in maniera quasi animalesca - vige la legge del più forte, vince chi fa la voce più grossa, in cui la mitezza e la gentilezza sono oggetto di stupore e considerati spesso segni di debolezza.
Eppure basterebbe leggere - ancora una volta e sempre - Dante e le sue parole rivolte agli iracondi per capire quanto questo vizio ci renda inumani.
Queste anime sono immerse nello Stige, una palude infernale e così ci vengon descritte
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte con sembiante offeso.
Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co' denti a brano a brano.
Si picchiano, questi peccatori: colpiscono sé stessi e gli altri con tutti i mezzi che hanno a disposizione.
Fra questi emerge una figura, quella di Filippo Argenti, che provoca Dante (che con lui - forse - aveva un conto in sospeso nella vita reale) e che addirittura vorrebbe salire sulla barca che sta trasportando il poeta e la sua guida Virgilio attraverso la palude verso la città di Dite.
La guida lo caccia malamente e rassicura Dante che vorrebbe vederlo punito dalle altre anime.
Dopo ciò poco vid'io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: "A Filippo Argenti!";
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si voleva co' denti.
Dante, quindi, risponde all'ira con altrettanta ira e questo passaggio mi stupisce ogni volta perché ci mostra un lato più umano di Dante, che in qualche modo è vittima degli stessi peccati che lui sta additando e condannando.
Proprio come Seneca, il poeta sa di non essere esattamente il modello perfetto da seguire: la perfezione è come l'orizzonte, qualcosa a cui tendere costantemente senza avere la certezza di poterlo raggiungere.
Pensare di riuscire a controllare l'ira è - realisticamente - inutile.
Essere consapevoli di poterlo fare è un'altra cosa.
Riuscire a farlo, anche solo una volta, dà una grande soddisfazione.
Ho cancellato ciò che la studentessa aveva scritto sul foglio e gliel'ho reso.
Al suono della campanella, è venuta alla cattedra.
Mi ha guardato. L'ho guardata.
"Mi scusi" mi ha sussurrato a mezza voce.
Ho sorriso.
Caparezza, Argenti vive
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