21 aprile 2024

La sis di Monza (ovvero come provare a rendere Manzoni un po' meno indigesto)

Negli anni '90 ci aveva pensato il Trio Solenghi-Marchesini-Lopez a fare un'operazione simpatia e va detto che aveva funzionato, dato che le immagini dei loro "Promessi Sposi" (recuperabili ancora su Raiplay, unico vero motivo oltre Sanremo - ça va sans dire - per pagare il canone) balenano ancora negli occhi di noi diversamente giovani.

Dopodiché il vuoto.

I promessi sposi. Storia milanese del XVII secolo scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni campeggiano lì, sui banchi e sulle cattedre di tutte le classi seconde superiori dell'italico regno, minacciosi per la loro mole e per il loro contenuto. Spiegati spesso controvoglia dai prof, studiati ancor più controvoglia dalle ragazze e i ragazzi, vengono vissuti come una tassa da pagare, come qualcosa che è da fare perché si è sempre fatto, come una ripetizione di cose già note perché tanto "oh, profe, ma tanto lo sappiamo che alla fine si sposano. Il finale ce lo hanno già spoilerato".

Partiamo da un presupposto: questa tassa va pagata. 
Ora, lungi dal dire che le tasse sono una cosa bellissima, come affermò l'allora ministro delle finanze, il temerario Tommaso Padoa Schioppa, si può provare a cercare un senso, un significato a questo romanzo, interrogandosi su cosa possa dire ancora a dei quindicenni che non possono oggettivamente empatizzare con personaggi ormai anacronistici come Lorenzo o come dicevan tutti Renzo e Lucia che passa il suo tempo arrossendo, piangendo e pregando. E, onestamente, io, alla loro età, non provavo certo simpatia per questi due che ci mettono 800 pagine a sposarsi e venivano a turbare la mia sesta ora del martedì quando, spalmato sul banco, mi toccava l'ora di Promessi Sposi, durante la quale sentivo leggere con voce monocorde storie di peste, di spagnoli, di Innominati e compagnia bella.

Cosa si può fare allora? Innanzitutto leggere insieme ad alta voce il romanzo, trattandolo per quello che è, ovvero una bella storia e non un pretesto per svolgere banali esercizi. E poi ragionare, ragionare tanto ad alta voce per provare a far capire come si possa comprendere la psicologia di personaggi usciti dalla penna di uno che - oggettivamente - aveva il dono di soffermarsi su dettagli, apparentemente minuscoli, in grado però di far vedere mondi complessi eppure così vicini a noi perché profondamente umani.
Penso a Marianna de Leyva Marino, anche nota come Gertrude o ancora meglio come monaca di Monza: mi ha sempre affascinato il fatto che il Manzo (come chiamo nell'intimità il nobile autore), che pure è - diciamolo - un po' bacchettone e vuole insegnare a tutti ad essere dei bravi cristiani, parlando di lei sembri volerla giustificare per gli atti decisamente immorali che compie, come a dire che non è tutta colpa sua se ha avuto una tresca mentre era in convento ed è stata complice dell'omicidio di chi aveva scoperto questa tresca. Strano, vero?

Me la immagino, Marianna: siamo nel 1575 quando nasce a Palazzo Marino, l'attuale sede del comune di Milano, in Piazza della Scala, ed ha già un velo in testa ancora prima di venire alla luce perché il padre, potente signore spagnolo, vuole lasciare tutto il patrimonio al primogenito e l'unico modo che ha per realizzare ciò è inviare in convento tutti coloro che primogeniti non sono.
Le sento le voci intorno alla piccola Marianna, quelle che le prospettano un futuro da signora del convento, da badessa e glielo fanno sembrare desiderabile; alla bambina, che ha come giocattoli bambole vestite da suore, la strada del convento sembra l'unica giusta e percorribile. La percorre, quindi, ma in quel percorso inizia a vedere che esistono altre vite possibili: incontra, negli otto anni trascorsi in convento, altre bambine che prospettano una vita diversa, felice, fuori dal convento, fatta di matrimoni, passeggiate, vita mondana. 
A Marianna, che non è più una bambina a cui è sufficiente essere coccolata dagli adulti per sentirsi bene, queste idee iniziano a ronzare nella testa come delle api quando vedono un mazzo di fiori primaverili (l'efficace similitudine è di Manzoni): non riesce a dormire, pensa di non volersi più fare suora, si pente di questo pensiero e poi si pente di essersi pentita. È un groviglio di ragionamenti, il suo, e, se ci soffermiamo un attimo, è profondamente comprensibile: pensiamo a quando facciamo qualcosa per assecondare gli altri ma di cui non siamo intimamente convinti. Da una parte c'è il senso del dovere, il non voler deludere gli altri, il voler essere fedeli all'immagine che abbiamo sempre dato di noi; dall'altra c'è la nostra volontà che spinge, che vuole uscire, che ci urla che ciò che stiamo facendo non è giusto per noi. Chi non lo ha mai provato questo dissidio?

Ritorniamo a Marianna: me la vedo mentre, al lume di una candela, scrive tremando una lettera al padre - dal cui sguardo si sente guidata come un burattino - in cui per la prima volta esprime la sua volontà, dice la sua sul proprio destino. E il padre cosa fa? La ghosta, si direbbe oggi, la ignora, scompare, non le dice neppure di no, come se avergli aperto il cuore non fosse neppure degno di un cenno di risposta. Quanto male fa una cosa del genere? Anche questo è nell'esperienza di tutti.
Arriva il momento in cui, prima di essere ammessa definitivamente nel monastero, Marianna - ormai quattordicenne - esce dal convento per passare un mese fuori dalle sue mura, per vedere a cosa dovrà rinunciare; la casa, però, le sembra meno desiderabile del convento. Nessuno le mostra affetto, nessuno la considera, nessuno la coccola. È vittima, Marianna, di un enorme ricatto morale: o fai ciò che vogliamo o dovrai vivere senza l'affetto e la considerazione della tua famiglia. Ci prova a resistere, la sventurata: prova ad essere più forte dell'indifferenza ma cede quando un giovane servo le dà finalmente attenzioni: gli scrive una lettera in cui, presumibilmente, dichiara il suo amore per lui (e quanto è umano scambiare per amore la gratitudine nei confronti di chi con una parola allevia la nostra solitudine?), ma questa lettera finisce nelle mani del padre che ha, finalmente, una potente arma di ricatto, concreta e pericolosa.
Come si sarà sentita Marianna in quel momento? Come ci saremmo sentiti se i nostri genitori avessero letto un messaggio whatsapp inviato da noi adolescenti alla persona amata? Quanta vergogna avremmo provato nel sapere che le parole d'amore o di passione hanno avuto come destinatario l'ultima persona che avremmo voluto che le leggesse?

A quel punto, di fronte ad oscure e potentissime minacce del padre, Marianna non può far altro che cedere:  gli occhi del padre le scavano dentro e guidano le sue azioni. E anche se lei ha ancora dubbi e ripensamenti sul suo destino e, come un'Annalisa qualunque, fa un passo avanti e uno indietro verso il monastero, il suo destino è ormai definitivamente segnato quando perde anche l'ultima occasione di dire la verità al vicario delle monache, l'uomo dabbene che sta esaminando la sua vocazione. 
Immaginate di essere entrati in un labirinto di cui all'inizio riuscite, guardando alle vostre spalle, a vedere la via di uscita; vi addentrate sempre di più, convinti che vi sarà sempre possibile tornare indietro, e invece ogni passo che fate vi allontana inesorabilmente dalla vostra salvezza. Immaginate di essere consapevoli di questo, di non poter fare niente per cambiarlo e di non essere Euridice con un Orfeo disposto almeno a tentare di salvarvi.
Ecco, così si doveva sentire, forse, Gertrude.  E fu monaca per sempre, conclude lapidario il Manzo.

Come non rimanere affascinati da suor Gertrude, da questa figura in bianco e nero (che di rosso ha solo le labbra, come la Lupa di Verga che decisamente una santa non era), dal ricciolo che esce dal velo in barba a tutte le regole del convento che voleva che i capelli fossero corti? Come resistere a quegli occhi che comunicano una svogliatezza orgogliosa e allo stesso tempo il travaglio di un pensiero nascosto?
Come rimanere indifferenti di fronte alla capacità di Manzoni di renderci visibili e vicini i personaggi, di descriverne la psicologia, di far capire con uno scambio di battute tutto il sottotesto, tutto il non detto, tutte le convenzioni sociali che regolavano e regolano tutt'ora le azioni?

Leggere i capitoli 9 e 10 dei Promessi Sposi può essere anche una bella esperienza. Ma non diciamolo ai quindicenni (o forse sì).



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