16 aprile 2023

Ai miei tempi

Ai miei tempi i professori erano diversi.
Ai miei tempi i genitori erano diversi.
Ai miei tempi la società era diversa.

Scommetto che chiunque legga queste righe avrà sentito almeno una volta ripetersi queste frasi dai genitori, dai nonni, dai professori, da un qualunque appartenente al mondo degli adulti.
Non è improbabile che molti di quelli che leggono queste righe lo abbiano già detto a propria volta.
L'ho sentito dire anche ai miei giovani studenti.
Per quanto sta a me, è una di quelle frasi che ho sempre accolto con la serenità e la pacatezza di Vittorio Sgarbi e che, per questa ragione, mi sono riproposto di non dire.

D'altra parte, però, il conflitto generazionale e il misoneismo - cioè l'avversione per il nuovo - da parte di chi non rientra nella categoria dei giovani in una determinata epoca sono indubbiamente il motore del mondo.
Pensiamo alla musica: Elvis Presley, i Rolling Stones, Mina, Celentano, i Nirvana, la prima scena rap sono stati oggetto di veri e propri scontri generazionali. Mio nonno era scandalizzato dalla bocca enorme della Vanoni, preferendo la pacata e rassicurante Orietta Berti; mia nonna trovava scandaloso che in una canzone ci fosse il verso "è la pura, sacrosanta verità" perché certe espressioni non potevano essere usate nelle canzonette. 
Questo meccanismo è valido ancora adesso: come avrebbe detto Battiato la musica contemporanea mi butta giù però cerco di sospendere il giudizio per capire quale sia il messaggio, il significato, l'elemento emotivo che la rende popolare e che fa sì che i più giovani la sentano risuonare, in senso materiale ed emotivo.
I gusti musicali, i valori, i modi di pensare, le società evolvono, e la loro evoluzione non è indolore ma passa inevitabilmente attraverso uno scontro, una messa in discussione di certezze ritenute incrollabili che disorienta ma è talvolta salvifica. Accettare il cambiamento non è facile, ma va fatto, esattamente come si accettano - o si dovrebbero accettare - i cambiamenti del corpo quando si cresce.

C'è un'altra cosa da non dimenticare: col passato non si scherza.
Sono tornato, dopo diversi anni, nella casa in cui abitavano i miei nonni, morti quando ero appena adolescente: quella casa che ricordavo grande, accogliente, familiare si è rivelata piccola, spoglia, vuota. Mi sono reso conto di aver involontariamente rovinato un ricordo che si era sedimentato dentro di me ma in quel momento ho acquisito una consapevolezza: tornare indietro non si può. 

Il passato è una terra straniera recitava il titolo di un romanzo di Gianrico Carofiglio e come tale dovremmo considerarlo: qualcosa che forse ci è appartenuto e non ci appartiene più, qualcosa su cui non abbiamo alcun potere e su cui è assolutamente inutile rimuginare, a meno che non ci si voglia fare del male. Lasciarlo nei ricordi e farci pace, pensando che se nel passato abbiamo fatto determinate scelte erano quelle giuste da fare in quel momento e in quelle condizioni.

Se ci ragioniamo, il passato sembra bello perché, come la psicologia ci insegna, quanto più ci si allontana da qualcosa tanto più i suoi contorni appaiono sfumati e quindi, leopardianamente, entra in gioco l'immaginazione che è un'àncora di salvezza in una vita che può apparirci brutta se non abbiamo memoria del passato e la speranza nel futuro. Se però pensiamo che il presente è l'unico dei tempi su cui possiamo davvero agire - non il passato che è ormai archiviato, non il futuro che è fuori dal nostro controllo anche se ci piace tanto progettare - allora potremo finalmente svincolarci dalla nostalgia dei tempi andati.

Il paragone passato-presente, la nostalgia del passato, il ricordo dei tempi in cui credo sia uno dei luoghi comuni più tossici che possano esistere.
Questo non vuol dire rinnegare il passato o svalutare il ricordo - che, laicamente, è l'unica cosa che ci rende realmente immortali - ma significa non diventare schiavi del tempo che fu.

Stevie Wonder, Pastime paradise 

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